Talora, bisogna dirlo, si deve essere d’accordo per forza con Giacomino Leopardi sulla capacità che la Natura a volte dimostra, di essere poco simpatica, di comportarsi sciattamente, o peggio, di fare da matrigna.
Portiamo addosso tutti, chi più chi meno, un gran carico di esperienze, più negative che altro, che progressivamente, dall’infanzia in poi, ci gravano sul groppone, deformando e ingrifandoci volto e animo, per fare infine di noi dei mezzi relitti, puri trasportatori di reumatismi, di cocenti rimpianti e di brutti ricordi.
Non ci è stato risparmiato nulla: dalla lunghissima egemonia democristiana, grigia per un bel po’ e costellata di stragi poi, fino al Caso Moro; dalla larga prodigalità craxiana con le nostre risorse, fino al ventennio nel quale, sempre a spese nostre, abbiamo ristrutturato quelle dell’eterno sorridente, Neroncello Facciaditerracotta, grande maneggiatore di maggioranze e di nipotesse.
E anche oggi non ci viene risparmiato niente: dalle pandemie del bitorzoluto alle abbronzature in cotto toscano del vacuo Carlo Conti, dalle ordinanze decise al Papetee, alle dentiere ingioiellate dei cantanti rap.
E’ una vitaccia.
Onestamente va detto che di solito non viene negato a nessuno anche qualche raro momento di divertimento, uno spruzzetto fugace di felicità, un’inadeguata gioia dei sensi o, molto meno frequentemente, addirittura il brivido di un’inaspettata esaltazione, che per molti di noi è di tipo esclusivamente calcistico.
Nel saldo totale dei nostri rapporti con Madre Natura resta comunque qualcosa di irrisolto, di carente, di volutamente sbagliato.
Mi viene spesso da pensare, ad esempio (non capita anche a voi?), a quanto sia immotivato, ingiusto, o addirittura triste, il fatto che non conserviamo quasi nessuna memoria del tempo nel quale l’esistenza si dimostra con noi più misericordiosa.
Tratteniamo purtroppo solo pochi flash del periodo che potrebbe essere considerato come il più felice della nostra vita.
Diciamolo con fermezza: questo sottrarci subito un po’ di memoria è una vera porcata!
Chi di noi potrebbe affermare, infatti, di ricordare qualcosa di quando era neonato, eh?
Credo che nessuno sia in grado di riportare alla mente troppi eventi o scene risalenti al proprio celestiale periodo di poppanza, e di provare così, insieme con quello mentale, anche il brivido della memoria sensoriale, col suo bagaglio di fisiche sensazioni di conforto.
Per quanto mi riguarda, uno dei primissimi ricordi, forse il primo in assoluto, che mi sia rimasto in mente, risale a quando avevo già ben tre anni e mezzo.
Vedete intanto, quanto del mio preziosissimo tempo era già stato ingoiato nel nulla buio della coscienza, se il mio primo ricordo è così tardivo?
C’è da precisare, tuttavia, che si tratta di un ricordo molto nitido: fissa con esattezza il momento in cui, in una stanza della Clinica San Marco, visibilmente sbigottito, feci conoscenza con mio fratello.
Marcello, sempre precoce, già allora si dedicava al vocalizzo, così quando posai per la prima volta lo sguardo su di lui, era impegnatissimo a strillare a tutte tonsille ed a contorcersi tra le sbarre metalliche di un lettino, muovendo le manine per toccarle, e magari svellerle, voilà, come un piccolo King Kong!
Io ero stato già messo al corrente da certi beninformati che mi avevano condotto fin lì, che da qualche parte, non si sa bene come, e nemmeno perché (chi ne sentiva, infatti, il bisogno?), era sbucato fuori un essere che era stato nominato mio fratello.
A dire il vero, nemmeno sapevo bene cosa fosse, un fratello, ma in questi casi, la prodigiosa testa di un bambino lavora in fretta, facendosi un’idea, anche se rimane per un pezzo vaga.
Si presume che quell’essere debba servire a qualcosa, ma si ignorano in sostanza la gravità della situazione appena installatasi e tutte le tremende conseguenze di quella nascita, un evento che ci appare subito troppo e inopportunamente enfatizzato.
“Beh, sarebbe questo?”.
Boh.
Non sapevo bene che pensare di quell’affare, e rimasi fin troppo quieto dinanzi alla scena: quasi paralizzato in un primo momento, avevo poi messo su lo sguardo attento di un giovane antropologo.
Bisognava capire.
Marcello, intanto continuava a strillare senza posa, un alieno cascato di fresco sul pianeta, e rubizzo per lo sforzo di adeguarsi all’atmosfera terrestre.
Lo spettacolo, lo ricordo benone, mi lasciava perplesso.
Talvolta, ancora oggi, a guardarlo, quello stesso spettacolo mi lascia perplesso, perfino più perplesso di allora.
Ma è troppo tardi per rispedire la merce al mittente: ci si affeziona, ecco la fregatura.
Potevano pure avermi dato tutte le spiegazioni del caso su cosa fosse un fratello e su cosa se ne potesse cavare, ma rimanevo poco convinto dinanzi all’urlatore vermiglio: ci doveva essere dell’altro.
Infatti c’era altro che lo riguardava: sto ancora scoprendolo, come lui, del resto, va facendo con me.
Dubito che Marcello ricordi quel nostro primo incontro, e se questo può capitare, è proprio perchè, purtroppo, noi non siamo in grado di rammentare, e quindi di godere coscientemente, della nostra privilegiata condizione di neonato.
E’ uno status che garantisce una montagna di vantaggi, non c’è che dire.
Pensate, ad esempio, che quella in cui si è poppanti è l’unica fase della vita in cui, tutta intera, la comunità umana esprime un robusto pregiudizio a favore della nostra persona.
Si tratta di una considerazione inattaccabile, che qualsiasi sia il nostro contegno, si mantiene del tutto inalterata.
Carpe diem, dicevano i nostri padri latini, e avevano ragione, perché il credito pieno di cui godiamo nei nostri primissimi tempi, si esaurisce in fretta.
Le liete e produttive manifestazioni della corporeità, tanto per ricordarne qualcuno di quei nostri privilegi caduchi, che da noi esibite quando siamo neonati, sembrano esaltare enormemente gli astanti, ebbene, le stesse identiche produzioni difficilmente sarebbero applaudite qualora, pubblicamente come allora, le replicassimo a venti, quaranta o settant’anni di età.
Provatevi oggi a lasciar andare il corpo liberamente, anzi, meglio, a farlo come si fa da poppanti, esattamente nei momenti meno opportuni, e a riuscire a strappare ancora l’urlo di ammirazione degli astanti : “Bravo piccolo, ma guardate tutti che meraviglia di cacchina che ha fatto!!”.
Oppure provate ad immaginare uno splendido cinquantenne, beato ed un tantino troppo farcito di cibo, che mediante un potentissimo rutto liberatorio, sparga nell’ambiente circostante i rimasugli del pingue pasto appena terminato.
Dubito, anche in questo caso, che i presenti si contendano l’onore di pulirgli con l’apposito bavaglino NON BACIATEMI, la faccia piena di rughe ed i vestiti imbrattati.
Eppure, tutti sappiamo che ” il ruttino ” postprandiale è uno dei numeri più richiesti ed apprezzati nella carriera del poppante, culmine simbolico della dolcezza di tutto un ambiente che vive solo per carezzarti, coccolarti, divertirti.
Tutto questo credito può avere senso solo nel mondo di ieri, di quel nostro ieri che nella sua postamniotica benevolenza, non tornerà più.
E’ duro allora renderci conto che nemmeno il ricordo di quel mondo magico potrà confortarci nel corso dell’esistenza che conduciamo successivamente, saggiandone costantemente la durezza.
Lo stesso oblio ricopre anche il nostro status preesistente, quello di feto, ma stavolta, a favore della Natura, va riconosciuto che la censura non viene comminata del tutto a sproposito.
Anzi.
A lume di naso infatti, non penso, per male che ti vada, che si possa incappare in un periodo altrettanto palloso di quello in cui fai il feto.
Si può solo immaginare che roba sia: greve, a dir poco.
Confinato in una piscina minuscola, senza impianto di illuminazione, e condannato a nuotare mezzo da fermo come un pesce rosso nella piccolissima boccia in cui crudelmente lo recludiamo: così sei messo, povero feto.
Stiamo li a dimenarci in una noia liquida senza poter comunicare in nessun modo: nove mesi d’inferno, di boccheggiamenti e di sbadigli, con le pallette che mentre ti si formano, già patiscono.
Quasi nessuno che ti si fili o che ti rivolga la parola.
Si è dei reclusi in regime di isolamento assoluto.
Tra l’altro, da feto si mangia malissimo: scarti altrui, e devi pure sperare che almeno non vadano da Mc Donald’s, che non mangino interiora, che si trattino bene e che ti rifilino scarti d’alta cucina!
Il tempo intanto scorre lentissimo, scandito solo da borborigmi idrici e talvolta dal suono di voci lontane e beffarde che si dedicano a far versi idioti.
Come massimo ed unico sfizio ti becchi l’eco lontanissimo e distorto di musiche che non hai scelto di ascoltare.
E’ chiaro? Si subisce di tutto e può dirti male, male di brutto.
Magari tua madre si abbuffa di neomelodici elettronici, di Ultimo e di Penultimo, dei Marchi Mengoni o dei Negramari, vedi un po’ tu!!
Lo credo che, con le pallette nuove ma già a pezzi, tu finisca per scalciare furiosamente: affanculo tutto, mi rompo!!
Il bello è che, per tragica ironia della sorte, i tuoi calci vengono puntualmente equivocati, interpretati come una soddisfacente manifestazione di vitalità e serenità.
Vedi come scalcia? Evviva, è vivacissimo.
E tu, invece, non ne puoi più dalla noia, sei incazzato nero.
Al contrario di ciò che avviene per l’ingiusta censura dei ricordi da poppante, se le nostre memorie di feti si dileguano non ci si può quindi lamentare: è sacrosanto allontanare da sè la memoria dei periodi neri .
Anzi un tale disperdersi del ricordo andrebbe esteso selettivamente anche in seguito, a puro scopo di difesa, a tutela della nostra qualità della vita.
Invoco quindi una simile amnesia funzionale per tutte le esperienze che ci comportino fastidi, sofferenze e disgusti.
La situazione di noi italiani contemporanei, per il carico di strazi, brutture e noie che comporta, in qualche modo ci riporta angosciosamente alla vita immutabile e insopportabile del feto, costringendoci peraltro a nuotare in acque molto meno limpide.
Siamo una nazione feto, insomma, impigliata negli stessi tediosissimi loop, eternamente molestata dalle voci di inguardabili uomini della provvidenza, clinicamente incapace di venir fuori dal brutto e dall’insensato.
Gli scarti che ci passano per cibo sono sempre meno abbondanti e le musicacce che ci cullano sono sempre più oscene.
Che fare, oltre che scalciare?
Ci si può appellare alla Natura, sperando che non abbia ancora voglia di prenderci per il sedere?
Ci si può provare, magari funziona.
Toglici Madre dalla memoria quelle facce, quelle troppe facce senza faccia, capaci di qualsiasi prodigio di orrore e di ridicolo, di tragedia e farsa.
Forza allora, dannata Natura, trattaci da feti fino in fondo e fai in modo che non ci si ricordi mai più di uno Sgarbi che stride, espettora e urla, dei rosari sotto Moijto di Salvini, della Dublino inglese della Meloni, dei titoli spazzatura di Feltri, Belpietro e Sallusti, dei fieri giuramenti di Renzi, delle stecche di Jovanotti, della beatificazione del pluriprescritto e ancora.. ancora.. ancora…
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.