Il mito di Don Giovanni è tra i più popolari e prolifici dell’età moderna, se si pensa che questo personaggio è stato il soggetto di oltre cinquecento fra commedie, tragedie, opere liriche, film, poemi, racconti e romanzi, tanto da costituire uno degli elementi fondamentali del nostro immaginario artistico.
L’ingresso ufficiale nel mondo della prosa viene fatto risalire al dramma in versi “El Buldaror de Sivilla y Convidado de pietra”, di Tirso de Molina, che, rappresentato a la prima volta a Napoli nel 1625, riscosse un immediato successo in tutto il continente europeo.
Si trattava di una storia intricatissima di seduzioni ed inganni orchestrati da Don Giovanni Tenorio, campione di cinismo e di egoismo, nel quale l’intrigo amoroso si fondeva con l’amore per la burla, non solo in danno delle donne, ma della società in cui viveva.
Ma già nella sua prima reincarnazione – quella di Molière, il “Don Giovanni o Il convitato di pietra”, rappresentata il 15 febbraio 1665, Don Giovanni divenne quello che non era in Tirso: non un semplice seduttore, ma un libertino nel senso seicentesco del termine, ossia uno spirito forte che affermava con un cinismo, non esente da ipocrisia, la propria assoluta indipendenza da tutto.
Arrivò poi nel 1787 il capolavoro di Wolfgang Amadeus Mozart, quel “Don Giovanni” composto sul libretto di Lorenzo Da Ponte.
Il compositore scrisse un’opera geniale e rivoluzionaria, scabrosa e intrigante, ritenuta persino pericolosa dalla società del tempo, perché questo suo Don Giovanni non era soltanto il dissoluto, il profanatore di fanciulle virtuose, il tentatore della sacralità del matrimonio, ma era anche un libero pensatore, l’uomo nuovo annunciato dal pensiero illuminista che non piegava la fronte dinanzi a nessuna autorità.
Massimo Mila scrisse che la geniale intuizione di Mozart consisteva nell’aver posto il libertino impenitente sullo stesso piano del Convitato di pietra, in uno scontro che aveva come posta la vita stessa.
Don Giovanni da questa lotta feroce esce sconfitto, ma con l’onore delle armi: assassino a causa delle circostanze, ingannatore e seduttore, egli non appare mai un personaggio odioso o ripugnante, ma diventava l’emblema della straordinaria creatività drammatica di un Mozart che seppe conciliare il sorriso e il pianto, la gioia di vivere ed il terrore della morte in un’opera dove il comico e il tragico erano fusi in perfetto e inimitabile equilibrio.
Dai tempi di Mozart fino a poco tempo fa Don Giovanni era ritenuto, sì un eroe negativo, ma pur sempre un eroe, quello che incarnava una morale laica e liberatrice e che era pronto a pagare con la dannazione la sua coerenza.
Sono molti i pensatori e gli studiosi che nel tempo hanno fermato la loro attenzione su Don Giovanni per cercare di chiarire le implicazioni delle caratteristiche più profonde di questo personaggio.
Kierkegaard paragonò Don Giovanni a Faust, sostenendo che, mentre il primo cercava nella donna la ragione stessa dell’esistenza, il secondo cercava l’assoluto nel sapere e nel mito dell’eterna giovinezza.
Il filosofo danese sostenne che
“c’è dell’angoscia nella vita di Don Giovanni, ma quest’angoscia è la sua energia, è il proprio demoniaco desiderio di vivere”,
Questo personaggio, quindi, era come se stesse continuamente in bilico sull’abisso infernale, felice soltanto di godere dell’attimo fuggente.
Lo psicoanalista Otto Rank studiò la figura di Don Giovanni, mettendola in relazione al tema del “doppio” come individuazione nel proprio intimo di un secondo e opposto sé stesso.
Rank, prendendo in considerazione soprattutto il Don Giovanni di Mozart, avanzò l’ipotesi che
“la morte del padre Leopold abbia provocato reazioni affettive ambivalenti, che sono latenti in ogni uomo, compresi gli artisti, e ciò avrebbe spinto Mozart ad una specie di trasfigurazione del soggetto, così da affermare con un atto di compensazione la propria voglia di vivere libero dalla figura incombente del genitore. Con la musica, Mozart riuscì ad esprimere contemporaneamente la sua gioia di vivere e la sua paura della morte, i suoi sensi di colpa e la sua paura del castigo: ciò che caratterizza il tema di Don Giovanni e che rende questo personaggio pressoché unico nel suo genere, è il fatto che contrariamente a quanto avviene per gli eroi dell’antichità, i quali incontrano il male al loro esterno egli trova il male in se medesimo. Il male si incarna dunque nello stesso Don Giovanni’’.
Armand Edwards Singer nella sua opera “The Don Juan Theme”, ha indicato oltre tremila titoli riguardanti il nostro personaggio e dopo qualche anno, circa cento specialisti, guidati da Pierre Brunel, hanno compilato in oltre mille pagine il “Dictionnaire de Don Juan”.
Da questa enorme mole di lavoro emerse che il mito del Burlador affondava le sue radici nel Medioevo europeo: si riscontrava infatti in Guascogna e Bretagna, in Catalogna e Andalusia, nella Castiglia, in Portogallo e in Italia, in Germania e in Svezia, dove c’era la presenza di numerosi racconti in versi e in prosa che, con qualche variante, facevano riferimento tutti alla stessa leggenda.
Elemento comune a tutti questi scritti era l’aspetto bifronte della personalità del gentiluomo, che era nello stesso tempo un seduttore e un libertino.
All’inizio mostrava una concezione quantitativa ed estetizzante della seduzione, perché amava avere e conquistare solo le donne belle, ritenendo però alla fine che solo il maggior numero delle sue conquiste, indipendentemente dalla loro condizione sociale ed estetica, avrebbe potuto far rifulgere la sua nobiltà di conquistatore.
Il neurologo Jonathan Miller ha raccolto in volume vari saggi di autori diversi sul mito di Don Giovanni che hanno un punto comune:
“il dongiovannismo, maschile o femminile, di estrazione nobile, borghese o popolare, è causato da un’angoscia di fondo, un vuoto che bisogna in qualche modo colmare, una forma di protesta o di rivalsa contro un’ingiustizia sociale o individuale, destinata tuttavia alla sconfitta, in quanto si finisce sempre per sprofondare nella sua stessa trappola, perché il vero nemico è la paura della solitudine”.
Albert Camus nel “Mito di Sisifo” affrontò Don Giovanni, sostenendo che questo personaggio passava da una donna all’altra non per mancanza di amore, ma perché amava tutte le donne con uguale intensità e con tutto sé stesso.
Per questo motivo egli doveva sempre rinnovare questo dono di sé e, se abbandonava una donna, non lo faceva perché non l’amasse più, ma perché ne desiderava una nuova e diversa.
Don Giovanni era dunque soltanto un seduttore: egli conosceva perfettamente il significato dell’esistenza, ma sapeva di non avere speranze e pertanto possedeva “l’intelligenza che conosce le proprie frontiere. Sino ai confini della morte fisica, Don Giovanni ignora la tristezza…per lui nulla è più vanità della speranza in un’altra vita, ed egli ne dà la prova, poiché se la gioca contro il cielo stesso”.
Egli era il classico esempio di “uomo assurdo”, che non credeva nel significato profondo della vita, ma che era soltanto capace di impossessarsi di alcuni momenti di felicità: ne godeva e subito dopo li bruciava.
Giovanni Macchia, uno dei maggiori studiosi italiano del personaggio, considera la storia di Don Giovanni un mito moderno che nasce dalla realtà e non dalla fantasia.
“Di origine aristocratica, Don Giovanni non è in grado di capire a fondo la società dove è nato, anche perché è oppresso dal conflitto con il padre, che rappresenta uno degli aspetti più moderni della leggenda, che così rappresenta anche un conflitto con il passato, una lotta contro la divisione delle caste e dei casati, contro la nobiltà del sangue, contro la virtù, l’onore e la metafisica della passione”.
Nella leggenda di Don Giovanni, dietro la violazione delle regole, oltre quel forsennato desiderio di possedere e di dominare l’universo femminile, si potrebbe intravedere il disordine, l’immoralità dell’umanità che lo circonda, diventando, proprio come accade nel caso di Don Rodrigo dei Promessi sposi, l’incarnazione del prototipo di uomo in una società arrogante e prepotente.
Don Giovanni è stato definito un libertino, immorale, cinico, superbo, bugiardo, spergiuro, sentimentalmente sadico, un individuo in rivolta contro i valori più sacri della società (la famiglia, la Chiesa, la coppia, la proprietà più intangibile rappresentata dalla donna), contro la sua stessa classe sociale (l’aristocrazia), della quale preannuncia l’imminente rovina.
Malgrado tutto questo il mito di Don Giovanni ha attraversato i secoli e ha mantenuto intatta tutta la sua forza.
Oggi, per lo studioso Jürgen Wertheimer, il mito del grande seduttore vivrebbe una parabola discendente, perché dal Don Giovanni di Molière, che è un fiero filosofo spregiatore della morale e della divinità, e dal Don Giovanni di Mozart, che gode della sistematica violazione della moralità borghese, si è passati nell’Ottocento a una drammatizzazione del personaggio, costantemente diviso tra il piacere e la morte, per arrivare nel Novecento alla meschina vecchiaia di un personaggio soggetto alla derisione, all’abbandono e alla solitudine.
“Il suo erotismo seriale, di lolite o vecchie carampane, che era un segno di dissenso, nella società contemporanea egli è diventato un prodotto di massa, il dongiovannismo si è trasformato in un articolo di consumo a buon mercato…”
Lo scrittore austriaco Ödön von Horváth scrisse nel 1936 il dramma “Don Giovanni ritorna dalla guerra“, ambientato nel 1918 in una città in decadenza, dove il grande seduttore cercava invano di ritrovare il suo passato, essendo incapace di identificarsi nella realtà che trovava negli incontri che aveva con il mondo femminile.
Don Giovanni, ritornato alla vita civile dopo la fine della prima guerra mondiale, era talmente cambiato da non riconoscere nemmeno sé stesso e smaniava per ritrovare un’antica fidanzata da lui abbandonata alcuni anni prima ed ora di nuovo desiderata, ma la donna era morta in manicomio dove era stata rinchiusa quando aveva perso la ragione a causa del suo abbandono.
Preso da un’ansia disperata, questi la cercava nei volti e nei corpi di tutte le donne che incontrava: attrici di cabaret, prostitute, dame dell’aristocrazia, speculatrici alle prese con l’inflazione, vecchie e giovani impegnate in politica.
Questa affannosa ricerca aveva termine solo quando Don Giovanni scopriva finalmente la verità e decideva di lasciarsi morire sulla tomba dell’unica donna che avesse veramente amato.
L’opera, scritta mentre sull’Europa cominciava a pesare lo spettro del nazismo, rappresentava una società avviata verso la catastrofe di un’altra guerra mondiale, una società che stava correndo con disperata allegria verso l’annientamento, mentre si consumava il mito di uno stanco e maturo seduttore costretto a ripetere fino alla noia sempre gli stessi gesti.
Molto originale e grottesco risulta invece il dramma “Don Giovanni, ovvero l’amore per la Geometria”, del commediografo svizzero Max Frisch, opera ambientata nel Rinascimento dove il mito viene analizzato attraverso la lente del dubbio e del sarcasmo: Don Giovanni non era più visto come un grande seduttore, ma come un personaggio freddo e razionale, che voleva scardinare le tradizioni e che assumeva un atteggiamento critico nei confronti della società.
Era sì sempre amato e desiderato dalle donne, ma aveva nei loro confronti un atteggiamento di fuga e quando si rendeva conto che la sua rivolta non aveva nessuna speranza di successo, decideva di sublimare le sue passioni dedicandosi allo studio della geometria.
Per chiudere il discorso si può dire che Don Giovanni non è da ritenersi un banale lussurioso, tutt’altro: se c’è qualcosa che fa infiammare gli animi di ammirazione o di sdegno, è il fatto che Don Giovanni sia a suo modo un modello di pensiero.
Un modello filosofico totalmente anticonvenzionale e dissacrante ma proprio per questo ancora più interessante e affascinante.
Egli rifiuta ogni trascendenza e mette al centro della sua vita la sensazione: non solo la mera sensazione del corpo, ma anche quella dell’animo, o almeno, certamente quando prova un senso di trionfo nel procurarsi le sue numerose conquiste.
Don Giovanni vive consapevolmente nella sola estetica, nella sensazione, e cerca in tutti i modi, ossessivamente, di scorgere in essa una possibile profondità.
Ma questa essa non può mai esserci: la sensazione resta sempre solo una sensazione, dopo un istante svanisce e si ritorna di nuovo a
cercare quell’effimero attimo di piacere.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.