Charles Baudelaire collocava senza dubbi Goya tra gli artisti più innovativi: “In Spagna, un uomo singolare ha aperto al comico nuovi orizzonti…
E’ certo che egli affonda nel comico feroce e s’innalza sino al comico assoluto, ma l’aspetto generale in cui vede le cose è prevalentemente fantastico…
Il merito grande di Goya sta nel creare il mostruoso verosimile”.
Questa forza dirompente del Goya si espresse soprattutto ne “I Capricci”, la sua più nota serie incisoria: erano 80 tavole pubblicate nel 1799 in acquaforte, realizzate con una tecnica molto complessa (con acquatinta, puntasecca e bulino).
Nel 1792 Goya aveva iniziato a soffrire di sordità e questo divenne per lui un fattore di svolta.
La malattia inevitabilmente lo portò a cambiare i suoi rapporti con gli altri, contribuendo a determinare un isolamento che lo fece entrare in una dimensione diversa.
Da quel momento l’artista cessò di lavorare su commissione e iniziò a sviluppare una riflessione artistica personale, dal carattere molto introverso, di cui le incisioni furono espressione.
La malattia avviò la maturazione definitiva dell’artista e segnò il passaggio al periodo in cui egli produsse le opere più sconvolgenti.
I Capricci, realizzati negli anni immediatamente precedenti la loro pubblicazione, presero spunto principalmente dalla satira, dal realismo picaresco e dal tipico caricaturismo settecentesco.
Il grande tema che tutti li accomunava, infatti, era la critica degli errori e dei vizi umani. Proprio per questo essi avevano anche un significato sociale e politico: il periodo, infatti, era quello del passaggio della Spagna dell’assolutismo e della santa inquisizione a quella, ancora in cantiere, delle idee liberali e progressiste.
Non a caso, le tavole, pubblicizzate all’epoca come “soggetti bizzarri”, oppure “di carattere immaginario”, nonostante questa schermatura, fecero incorrere il maestro nelle ire dei potenti spagnoli, costringendolo a ritirare presto gli album pubblicati.
Il ciclo dei Capricci constava di tre sequenze, che riprendono altrettanti temi caratterizzanti dell’opera di Goya.
La prima, dalla 2ª alla 36ª tavola (la prima incisione era un autoritratto dell’artista), rappresentava una critica molto amara dei rapporti privati, dei sentimenti personali e dell’umana virtù.
Ecco quindi che andava a toccare la facilità dell’amore, la frivolezza delle donne in cerca di matrimonio, la cattiva educazione dei bambini, il contrabbando, la stregoneria e altri peccati.
La seconda serie, composta da sole sei tavole dalla 37ª alla 42ª, era quella in cui l’artista affrontava più direttamente il tema politico, prendendo spunto dalla satira dell’operato di Godoy, diventato in pratica dittatore della Spagna col benestare della regina Maria Luisa e rappresentato da un grande asino.
Ecco, così, effigiato il somaro mentre fa da maestro a uno che sarà, a sua volta, un altro somaro, per poi disegnare un albero genealogico composto interamente da somari.
Infine l’equino viene dipinto da un pittore anche lui raffigurato come un somaro.
La terza e ultima sequenza, quella che va dalla 43ª all’80ª tavola, tornava sui temi dell’ignoranza, della superstizione, anche religiosa, dell’arretratezza, ancora molto radicata nel Medioevo, che soprattutto la Spagna, in quel periodo, stentava a superare.
Goya ritrasse i tentativi maldestri, le cattive abitudini, la superficialità del suo popolo a quei tempi, camminando sul sottile filo dell’allegoria ironica.
Tra gli obiettivi neanche troppo nascosti, c’era il clero, che infatti si impegnò in una dura battaglia contro le sue opere.
Nei Capricci si iniziava a intravedere quello che sarebbe stato il Goya dell’ultimo periodo, quello delle pitture in cui, insieme all’allegoria e alla critica dell’esistente, sarebbe emerso compiutamente quell’intento visionario che sarà caratteristica peculiare di Goya, insieme al dato tecnico del sapiente utilizzo del chiaroscuro.
La prima tiratura de “I Capricci”, realizzata nel 1799, era costituita da appena 300 copie messe in vendita in un negozio di profumi e liquori prossimo all’abitazione dell’autore.
Fu pubblicizzata attraverso un piccolo spazio acquistato sul “Diario di Madrid”.
In esso lo stesso Goya presentava la sua opera con grande chiarezza ed efficacia:
“L’autore, essendo persuaso del fatto che la censura degli errori e dei vizi umani (benché propria dell’Eloquenza e della Poesia) possa anche essere oggetto della Pittura, ha scelto come argomenti adatti alla sua opera, tra la moltitudine di stravaganze e falli comuni di ogni società civile, e tra i pregiudizi e menzogne popolari, autorizzati dalla consuetudine, dall’ignoranza o dall’interesse, quelli che ha ritenuto più idonei a fornir materia per il ridicolo e a esercitare allo stesso tempo la fantasia dell’artefice”.
L’invettiva morale, rafforzata dalla rappresentazione grottesca, suscitò critiche scandalizzate. La messa in scena della superstizione e dei delitti compiuti in suo nome (diverse le incisioni erano dedicate alla stregoneria), provocò l’attenzione dell’Inquisizione da cui Goya si salvò solo in virtù del sostegno di parte della corte spagnola, presso la quale aveva lavorato con successo ricoprendo incarichi ufficiali.
La prima tiratura de “I Capricci” rimase praticamente invenduta e nel 1803 fu donata dal pittore al re di Spagna Carlo IV in cambio di una borsa di studio per il figlio Francisco Javier.
Solo nel 1855, ben oltre la morte dell’autore, una seconda edizione a stampa de “I Capricci” ottenne il meritato riconoscimento.
Il più famoso dei Capricci è senz’altro il n° 43, “El sueño de la razón produce monstruos”, in genere tradotto con “Il sonno della ragione genera mostri”.
Al centro della scena un uomo con il capo poggiato su un tavolo, probabilmente lo stesso artista, è sprofondato in un sonno profondo mentre attorno a lui si materializzano bestie mostruose.
L’interpretazione non è affatto univoca anche perché risente del significato di “sueño”, che in spagnolo vuol dire sia “sonno” che “sogno”.
E non mancano autori che scelgono l’accezione di “sogno”, cambiando il significato dell’intera frase.
In Spagna, a quell’epoca, era ancora pienamente operante l’Inquisizione e gli artisti dovevano celare i propri intendimenti dietro “parafrasi di comodo”, ed infatti, in un manoscritto conservato presso il Museo del Prado e attribuito allo stesso Goya, si dà una interpretazione tutta riferita all’arte:
“La fantasia priva della ragione genera impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie”.
Sembrerebbe dunque un invito affinché l’estro creativo si contemperasse con gli strumenti della razionalità. E da questo punto di vista parrebbe evocare il rapporto apollineo-dionisiaco, dualistico ma complementare, che Nietzsche individuerà più tardi nella cultura della Grecia classica.
In un altro manoscritto di autore sconosciuto, presso la Biblioteca Nazionale di Spagna, si forniva invece un’altra interpretazione:
“…quando gli uomini non ascoltano il grido della ragione, tutto muta in visione”.
Ed è stata quest’ultima interpretazione, cioè dei disastri provocati dalla rinuncia alla ragione, quella che si è maggiormente diffusa, perché più coerente con la scelta “illuminista” indiscutibilmente compiuta dall’artista.
Come detto, le incisioni 37-42, vedevano un protagonista indiscusso, l’asino, a rappresentare allegoricamente le classi privilegiate.
Nel capriccio 37 l’asino rappresentava il maestro che insegna, nel 38 il fruitore dell’arte, nel 39 il nobile con il suo albero genealogico, composto evidentemente da soli altri somari, nel 40 il medico ignorante, nel 41 il nobile che si faceva ritrarre, nel 42 il carico dei ceti parassitari sul popolo.
Tutte queste figure rappresentavano la caratteristica comune delle classi dominanti, l’ignoranza, che si esprimeva allegoricamente attraverso l’asino.
Fedele alla scelta illuminista, Goya procedette a rappresentare in maniera repulsiva non solo i valori delle classi dominanti ma anche le false credenze popolari.
A queste appartengono senz’altro le storie di superstizione e stregoneria che egli ritrasse in diverse scene.
Il tema della stregoneria venne affrontato definitivamente dopo una lunga serie di incisioni dedicate alla prostituzione.
Non a caso ad inaugurare il ciclo della stregoneria era la tavola n°44, nella quale sono rappresentate prostitute, streghe e mammane a rimarcare la sovrapposizione sociologica di queste figure.
Goya produsse anche molti altri disegni (circa seicento) che egli stesso tentò di organizzare in album.
In molti casi si trattava di vere e proprie caricature, sia pure di quel genere fantastico che rappresentavano la cifra del pittore.
Uno degli album più suggestivi era quello titolato “Streghe e Vecchie”, che in origine raccoglieva 23 disegni colorati a china, alcuni dei quali incompleti.
I temi trattati erano quelli tradizionali dell’ultimo Goya che, emancipato dal lavoro su commissione, si sentiva libero di seguire le proprie ispirazioni.
E così tornano due temi, da una parte la stregoneria e la superstizione, e dall’altra i sogni e gli incubi, che sono strettamente intrecciati sul piano simbolico e che l’artista aveva già proposto con forza ne “I Capricci”.
In quest’ultimo album tuttavia l’artista sviluppò altri due temi: la follia e la senescenza, che diventarono prevalenti e che vennero esposti non tanto in parallelo quanto in sovrapposizione a quelli della stregoneria e degli incubi, come se in fondo si trattasse di un unico argomento dalle molte facce.
Goya è sempre stato dunque un artista grande e spesso spaventoso.
All’allegria, alla giovialità, alla satira spagnola dei tempi di Cervantes, egli unì uno spirito più moderno, col suo amore dell’inafferrabile, col sentimento dei contrasti violenti, dei terrori della natura e delle fisionomie umane, stranamente deviate dalle circostanze verso uno stato di animalità.
È curioso osservare lo spirito di Goya, venuto dopo il grande moto satirico del XVIII secolo, e con cui Voltaire si sarebbe compiaciuto almeno per l’idea di fare tutte quelle caricature fratesche.
Fece frati che sbadigliano, frati che gozzovigliano, facce squadrate di assassini che si preparano al mattutino, facce astute, ipocrite, aguzze e malvage come profili di uccelli rapaci.
E’ bizzarro che questo odiatore di frati abbia sognato streghe, sabba, bambini arrostiti allo spiedo, e tutte le dissolutezze dell’oniricità, tutte le iperboli dell’allucinazione, e poi tutte quelle spagnole, bianche e slanciate che, come vecchie perpetue, si lavano e si preparano per il sabba, o magari per la prostituzione della sera
Trattava forse il sabba della nostra civiltà!
La luce e le tenebre permeavano quest’atmosfera grottesca di orrori.
Il merito grande di Goya fu nel creare un mostruoso verosimile.
I suoi mostri erano e sono nati pieni di vita, di armonia. Nessuno più di lui ha osato nel campo dell’assurdo possibile e rappresentabile.
Tutti quei contorcimenti, quelle facce bestiali, quei ghigni diabolici, erano pervasi di umanità.
Anche dal punto di vista specifico della storia naturale, sarebbe difficile condannarli, tanta è l’armonia in tutte le parti del loro essere.
In una parola sola, è impossibile cogliere il punto di congiunzione tra il reale e il fantastico: è una frontiera vaga che anche lo psicanalista più sottile non saprebbe tracciare, in un’arte che è, allo stesso tempo, così trascendente e così naturale.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.