“Ma quella ha l’alito che puzza, e deve puzzare pure molto!”
Così, perentoriamente, Taruffi, sporchissimo e maleodorante, rispose alla richiesta dell’amico Lallo di affrontare Porzia Cacace in un titanico scontro di tanfi per liberare il povero Proto dal suo giogo, un laccio del quale quel poveretto nemmeno si rendeva conto.
Nel frattempo il Professor Cervellenstein, spazientito dall’empasse in cui erano finiti, sorpassando acusticamente la possente mole della Cacace, provò a scuotere il martire a distanza:
“Ti ricordi il tuo collega Gianuario, Proto? Lui pure è stato martirizzato, eravate insieme, no? Ma ancora se ne sta tranquillo: intanto ha tenuto i nervi a posto, si è contentato di stare bello dipinto nella sua brava corniciotta e si gode la pensione dopo tante sofferenze. Per te lui è come un fratello, te ne ricordi? Farsi un martirio insieme è un po’ come essere commilitoni, amici per la vita, no? Ora Gianuario se ne sta desolato nel suo cantuccio di quadro orfano di te, e si lamenta: gli manchi. Se gli avessero dipinto sul polso un orologio, te lo garantisco, lo guarderebbe di continuo. Geme adesso, fa pena. Ricordi che non lo fece nemmeno quando vi torturarono? Rideva come un matto, anzi: voi due faceste spompare gli aguzzini! Torna ai tuoi affetti Proto, rientra nel tuo bel quadro, torna al tuo riposo, alla tua bella chiesetta..”
Toccò poi al parroco, dire la sua:
“Sìì Proto, torna da noi, torna nel seno di Santa Madre Chiesa che ti ha fatto famoso, una star della santità martire: un po’ di gratitudine, insomma! Io, stanne certo, te lo garantisco, ti assolverò per tutte queste marachelle: lascia quel donnone e non ti resterà macchiata la fedina!”
Così strillò Don Oronzo, pieno di buone intenzioni, ma abbastanza fuori di testa da non rendersi conto dell’assurdità della sua pretesa di dare l’assoluzione a un santo!
Fu un errore grave quello, e infatti, subito una ghignante Porzia, prontissima, gli replicò seduta stante, alitando letame a quintali:
“E io assolvo te, parrocozzo nostro, per le giravolte roventi nel letto con Addoloratina! Chissà che dolci acrobazie, incastrato tra quei peli sensuali… Del resto, siamo fatti anche di trippe e di desiderio, tu stesso lo hai constatato: il Signore lo sa bene e giudica te come me!“.
Il parroco sbiancò, afflosciandosi come uno straccio usato, e perse del tutto la favella, mentre Cervellenstein, ostinato, insisteva nel tentativo di riportare Proto al suo mondo:
“Proto, te lo ricordi Ducco, il tuo sagrestano? Caro vecchio Ducco! Chissà quante volte lo hai visto passare sotto il tuo quadro e ripulirti la lettie.. i candelab… insomma quel coso che regge le candele! Eh, te ne ricordi? Ducco è qui, Proto, e vuole parlarti anche lui..”
Il sagrestano fece per aprire il becco per replicare al martire l’appello a rientrare in chiesa, ma fu anticipato dalla focosa Evita che lo spintonò senza nemmeno rendersene conto, mettendolo da una parte.
Urlando come un vegano dinanzi a un ossobuco, la bionda signora irruppe in quella situazione con tutta la sua celebrata foga:
“Recuerda que la gente, el pueblo, te adora, Proto, que les gustas cuando eres un martir, no cuando chupas le pezunas a un caballo! Prootooo, los descamisados estan contigo, entre tus pinturas heroicas!”
(Ricordati che il popolo ti venera, Proto, che gli piaci quando fai il martire non quando risuoli gli zoccoli a un cavallo! Prootooo i descamisados sono con te, torna tra le tue eroiche vernici)
Il martire fantinizzato, scoccò un’occhiata stupita a Porzia, come a chiedere lumi, e lei, accorgendosi del suo smarrimento, lo rassicurò:
“Va tutto bene Cleto, non ascoltare questi bugiardi martiruzzo mio! Non ci sono descamisados qui, non siamo più in Sardegna!”
L’ombra della donnona, nera d’ignoranza, oltretutto, oscurava Proto, il cui abito da fantino sembrava di minuto in minuto più incongruo.
All’esterno della casa Tarallo proseguiva intanto nel tentativo di convincere il riluttantissimo Taruffi alla battaglia, trovando preziosi alleati nella sorella di Marzio, la soave Trudy, e nel vecchio amico Abdhulafiah, che in quel frangente decisivo ebbe un colpo di genio.
Guardando negli occhi il cronista aromatico gli disse grave:
“Pensa se fosse qui Dorotea Santonorè e ti vedesse così arrendevole. Ti giudicherebbe di sicuro un vigliacco e puoi bene immaginare che opinione si farebbe di te!”
Taruffi provò ancora per un po’ a resistere:
“Io ero impegnato qui fuori e mi sono tenuto prudentemente lontano, ma ho sentito come strillavate, investiti da quel fiato! L’ha detto anche la Signorina Cleofe a Tressette, che pure non è un fighetto stinco di santo: davanti a quella Porzia si sentiva svenire, e così tutti gli altri. E’ pericolosa! Erano tutti sconvolti, nauseati come un orecchio funzionante se si trova nei pressi di Jovanotti, e pure un po’ bruciacchiati. Li hai visti anche tu Lallo: i nostri sembravano un gruppo di reduci da un picnic a Chernobyl, e, detto fra noi, tu pure, ora che ti guardo più attentamente, hai l’aspetto che avrebbe un calzino dopo una maratona di trecento chilometri nel deserto del Gobi”.
Il tono di Marzio Taruffi, già timoroso, ad onta di un aspetto che con estrema generosità si sarebbe potuto definire solamente trasandato, si fece serio, quasi solenne, un tono di quelli usati per fare confidenze riservatissime:
“ Tu devi saperlo, amico mio: io ho un problema con le puzze! Le sopporto molto poco. In sintesi, Tarà, sono di naso difficile, assai delicato”.
Lallo, preso di sorpresa, stentò a controllare il movimento della mandibola, che gli era precipitata in basso: non sapeva se scoppiare a ridere per quel paradosso umano o se prendere a singhiozzare.
Il retroscena surreale dell’affermazione del suo collega ben si sarebbe colto pensando ad esempio che Tarallo, nel parlare con Marzio, a causa del lezzo di sporco che quell’uomo ruspante emanava, aveva elaborato un sistema di respirazione particolare, che prevedeva l’impiego di un solo polmone, e precisamente quello di volta in volta più distante da Taruffi.
Ormai il meccanismo difensivo gli scattava automaticamente quando si veniva a trovare a meno di due metri da lui.
Tale accorgimento purtroppo non si era ancora installato con la Cacace, per l’alito della quale il suo organismo non aveva avuto il tempo di escogitare una risposta efficiente.
A quel punto Abdhulafiah intervenne ancora sul cronista ansioso: “Marzio, pensa a Dorotea: se ti vedesse…. “.
Fu allora che Taruffi si decise: “Come volete: andiamo e che il fato ci assista!”.
Nelle file della banda Tarallo passò un urlo di guerra: quantunque bizzarrissimo, avevano trovato il loro condottiero!
Gli si misero tutti dietro, nonostante il lezzo dell’eroico cronista.
Taruffi, pur spaventato, avanzò a passo lento e grave: ai suoi amici pareva un eroe medioevale avviato all’ennesimo duello di un torneo particolarmente logorante.
Sembrava comunque uno che non si sarebbe accontentato di uno zero a zero.
Proto, pur oscurato dalla stazza di Porzia, fu il primo a notarlo e mostrò di spaventarsene perché mormorò:
“Oi tengu unu abuligiu che mi deppeis portai a domu a kadiredd’e oru”
(Oggi sono in preda ad una apatia così spiccata che mi dovrete ricondurre a casa reggendomi sulle vostre braccia a croce).
Vedendo poi che Marzio seguitava a procedere impavidamente, impallidì e gli strillò contro: “Bahbah! ‘Mmo mi seu arrosciu, chi no’ dda accabbas, mi’ ndi andu!”(Bada bene, ora ne ho abbastanza, se non la smetti sarò costretto.. ad andarmene!)
Porzia Cacace a quel punto si scosse tutta, richiamando le sue tante cicce all’ordine, poi si piantò sulle gambone a colonna e, ghignando di sicurezza, spedì verso Marzio un primo ruggito di sbarramento:
“Tornatene nella tua caverna Troglo, non farti del male inutilmente!”.
Taruffi venne investito dal vento letale che si sprigionava da quelle parole, da quell’alito di sterco.
Sbandò, tra l’orrore preoccupato dei suoi, e pezzi di corteccia di sporco gli volarono via dalla faccia scoprendogli le narici.
Al naso sguarnito arrivò così tutta la densità di quel tanfo infernale.
Il corpaccione del cronista venne proiettato all’indietro violentemente, ma la sua testarda tenacia supportò il guerriero in quella fase tragica.
La Cacace intravide la difficoltà di Taruffi che tuttavia continuò ad avvicinarglisi e pensò subito di farla finita con quel coso strano, completando il lavoro con una seconda e più pastosa passata di fiato.
Non parlò nemmeno: ben piantata, con le braccia sui fianchi e col collo proteso verso il nemico che avanzava, aprì al massimo le fauci e scatenò la sua fiatata più piena e marcia.
Taruffi, colpito in pieno, fece un mezzo giro su sé stesso, poi, tra la costernazione dei tarallisti, si piegò, inginocchiandosi proprio quando era a poca distanza da Porzia.
Tutto pareva perso.
Tarallo, quasi disperato, vide che Marzio era stato quasi ripulito dai colpi d’alito fetido, e che, vinto, stava sulle ginocchia e col capo piegato.
La Cacace invece era tutta denti, con la faccia spalancata in un sorriso tronfio.
Ma Lallo a quel punto, come un flash scoppiato nel cervello, ebbe la pensata della disperazione e, rivolto a Taruffi, gli urlò:
“MARZIO, ALZA LE BRACCIA!! ALZA LE BRACCIA TI DICO! SU, MARZIO, SU FALLO: ORA!!”
A Taruffi, completamente smarrito, quell’ordine arrivò attutito, come lanciato da lontano.
Comunque fosse, lo sentì e parve anche ascoltarlo.
Alzò lentamente un braccio, poi l’altro, nella posa di chi si arrende.
Ma non era così, non era una resa la sua: le sue ascelle, infatti, la parte più maleodorante di un corpo già strapuzzolente, erano vere e proprie armi batteriologiche e si erano già rese responsabili di diverse falcidie di colleghi di redazione.
Molti novellini che gli erano arrivati a tiro erano stati trasportati d’urgenza all’ospedale farneticanti: uno di loro aveva addirittura confidato al medico del Pronto Soccorso di essere Eleanor Roosevelt, promuovendolo immediatamente Segretario di Stato degli Usa.
Servirsi di quelle armi era un geniale colpo della disperazione.
Dalle ascelle alzate del prode Taruffi, nero si levò in volo uno sciame di insetti, e all’olfatto della Cacace giunse in dono un odore mai sentito, qualcosa che pareva prodotto dal decomporsi di miliardi di vertebrati di ogni tipo su un letto di letame.
Per lei fu l’apocalisse
Il sorriso di Porzia si raggelò in una smorfia di terrore e sorpresa.
Tremò forte per qualche secondo, si scosse freneticamente cercando vanamente, a bocca aperta, dell’aria pulita, poi svenne, cadendo pesantemente all’indietro, come un gigantesco idolo pagano abbattuto.
Nell’aria, carica di polvere per l’impatto di Porzia col terreno, risuonò il grido di giubilo dei membri della banda Tarallo.
Si abbracciarono tutti e Abdhulafiah approfittò del momento di euforia per baciare Trudy per la prima volta.
Il martire Proto, così come stava, vestito da fantino, venne preso per mano da Ducco e Don Oronzo.
Porzia, ancora priva di sensi, fu tirata su da una decina di poliziotti, chiamati dal parroco e caricata su un loro cellulare, mentre anche Bonzo, il cavallo in scatola, venne finalmente liberato.
L’equino espresse la volontà di raggiungere una fattoria dell’alto Lazio dove viveva un suo cugino, il cui trisnonno aveva lavorato con John Wayne.
Tutti i membri della banda Tarallo, più qualche paesano, accompagnarono Proto in processione fino alla chiesa di Santa Abbondanziana Martire.
Evita, tallonando il martire, gli parlava fitto fitto in spagnolo alle orecchie, mentre Ducco, ascoltando quel flusso ininterrotto e fittissimo di parole, scopriva un’intensa nostalgia di Mata.
Stralunato, mentre si avviava a ricongiungersi con il collega Gianuario, Proto, però, parlava con se stesso, ripetendo come un mantra una frase sarda che nemmeno Cervellenstein fu in grado di capire:
“Una pivella ce ne deve essere da apprapuddare”
(Trad: è di prammatica che in una ragazza ci sia qualcosa da palpeggiare voluttuosamente)
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti