Arles è una cittadina francese del sud della Francia che di fatto segna i confini tra due regioni, la Provenza e la Camargue.
Sorge sulle sponde del fiume Rodano e nell’antichità fu un centro di notevole importanza come testimonia eloquentemente il meraviglioso anfiteatro romano attorno al quale si raccoglie.
Ma soprattutto Arles è un luogo abitato da una luce particolare, una fasciatura abbagliante che fa esplodere i colori sulle sue pietre, accarezzate dal vento di mistral, sulle sue strade sterrate di campagna, sugli ininterrotti campi di girasole, che ovunque drizzano il capo in quella zona, e sulle pareti bianche delle sue case.
Il 20 febbraio del 1888, attirato da quel sole, da quei colori, e dalla limpidezza commovente del cielo, arrivò a Arles uno strano tipo, un uomo rossiccio ed ispido, dalla fisionomia poco rassicurante.
Quell’individuo, dopo un brevissimo girovagare per le vie del paese, prese alloggio nel Ristorante Albergo Carrel.
Gli abitanti della cittadina non ci misero molto per scoprire che quel tizio dallo sguardo inquieto e scontroso era un pittore.
Era un olandese, si chiamava Van Gogh, Vincent Van Gogh, e non si trattava di uno sbandato capitato in paese per un suo errare disordinato e senza meta, la scelta del posto per lui non era casuale: l’uomo voleva proprio stabilirsi ad Arles.
Il suo sogno era di fermarsi e dipingere, dipingere e dipingere ancora, e di attirare altri pittori come lui, seducendoli con la promessa di quel cielo tersissimo, di quei colori e dei campi sterminati che così descrisse:
“Questo paesaggio è come un mare senza niente”.
La sua idea era quella di lavorare con gli altri artisti, creare una “maison d’artiste” insomma, col sostegno economico di suo fratello Theo.
Van Gogh ad Arles creò presto una sua routine: dipingeva un po’ ovunque e mangiava ogni giorno al Café de la Gare.
Dopo qualche mese dal suo arrivo, a maggio, lasciò l’alloggio al Carrel per prendere in affitto l’ala destra di una piccola casa tinta di giallo, sita in Place Lamartine.
Scrisse al fratello Theo:
“Mi trovo a casa mia, qui.
Ho una piccola cameretta tappezzata di grigio verde con due tendine verde acqua e disegni rosa molto pallido.
Attraverso le sbarre della finestra vedo un rettangolo di grano in un recinto. Inoltre ho una stanza per lavorare”.
Quella stanza, dipinta da Van Gogh in tre versioni, divenne forse la cameretta da letto più celebre di tutti i tempi.
Quei primi mesi ad Arles Vincent lavorò ferocemente, con un ritmo febbrile.
Nulla di quello che vedeva restava fuori dalle sue tele: il paesaggio della campagna inondato dalla luce accecante del sole del mezzogiorno, le dilaganti fioriture di primavera, i campi di grano, i giardini, i ponti sul fiume.
Il miraggio di costituire una comunità di artisti con lo scorrere del tempo rimase però tale.
L’unico dei pittori parigini che Van Gogh aveva convocato e che si fosse lasciato contagiare dalla sua idea della maison d’artiste fu Paul Gauguin, che giunse ad Arles in ottobre.
Bastarono poche settimane di convivenza, però, perché il rapporto tra i due si facesse difficile prima, e sempre più teso poi.
I loro caratteri erano poco compatibili e le divergenze artistiche che i due manifestavano si rivelarono platealmente in accese e infinite discussioni.
Furono confronti che si fecero sempre meno amichevoli finché il 23 dicembre del 1888 durante un litigio, Van Gogh prima lanciò un bicchiere addosso al collega, mancandolo d’un soffio, poi cercò di scagliarvisi contro con un rasoio.
Gauguin, terrorizzato, uscì di corsa dalla casa senza ovviamente rientrarvi. Vincent, la stessa notte, in stato confusionale e in preda ad un raptus di pentimento, si recise di netto il lobo dell’orecchio sinistro portandolo poi in “dono” a Rachel, una prostituta che conosceva e frequentava.
Mezzo dissanguato il pittore venne ricoverato in ospedale e raggiunto dal fratello Theo, a lui legatissimo, che era stato nel frattempo avvertito del fatto.
Sorprendentemente il pittore si riprese velocemente e ricominciò immediatamente a dipingere con la furia che il posto gli ispirava.
La sua produzione del periodo trascorso ad Arles fu infatti impressionante: dipinse circa trecento tele in quindici mesi di soggiorno.
I suoi fantasmi lo vennero ancora a cercare e la sua attività si alternò con frequenti ricoveri in ospedale, uno dei quali richiesto, con una espressa petizione al Sindaco, da ottanta cittadini di Arles.
Poco dopo Vincent accettò spontaneamente di entrare nella casa di cura per alienati di Saint Paul – de Mausole, presso Saint Remy.
Come sappiamo, la sua costante inquietudine lo condusse poi altrove, tra sprazzi di esaltazione creativa e nuovi episodi allucinatori in cui puntualmente tornavano a farsi sentire le sue “voci” interiori.
Una smania che non si placò mai e che lo portò infine ad Auvers, il luogo del tragico compiersi del suo destino.
Ma torniamo indietro di un passo.
Durante il suo soggiorno ad Arles, Van Gogh comprò abitualmente tele, pennelli e matite colorate in un negozio in cui lavorava una ragazzina di circa quattordici anni, Jeanne, parente, figlia o nipote dei proprietari di quell’attività.
Quando cento anni dopo, nel 1988, venne celebrato il centenario dell’arrivo di Vincent Van Gogh nella cittadina, Jeanne, quella bambina, era l’unica persona al mondo ancora vivente che lo avesse conosciuto ed era destinata a diventare l’essere umano più longevo della storia.
Jeanne Calment divenne doppiamente celebre, in virtù sia della sua età inarrivabile, sia del fatto che la sua longevità le avesse permesso di conoscere un genio dell’arte tra il 1888 ed il 1889, e che cento anni dopo fosse in grado di parlarne.
La donna era nata infatti il 21 febbraio 1875 ad Arles, da un carpentiere navale e da una casalinga.
L’anno precedente alla sua nascita George Armstrong Custer venne sconfitto ed ucciso nella battaglia del Little Big Horn, l’anno seguente Tolstoj avrebbe pubblicato “Anna Karenina”, Arthur Rimbaud le sue “Illuminations” e l’astuto Alexander Graham Bell avrebbe brevettato l’invenzione del telefono, carpita ad Antonio Meucci.
Alla morte di Victor Hugo, la bambina, che allora aveva dieci anni, si trovò a Parigi con la famiglia e tutti loro presero parte al funerale di quel grande, il funerale del secolo, quello al quale partecipò idealmente tutta la Francia.
Quando le domandarono di Van Gogh, Jeanne non fu molto diplomatica. Disse che lo ricordava benissimo girare per le strade di Arles, camminando a grandi falcate, chiuso in se stesso, immerso in pensieri indecifrabili.
Lei da ragazzina gli aveva venduto più volte dei pennelli:
“Era brutto come la fame, sporco, mal vestito e sgradevole. Puzzava d’alcool, ma era tanto gentile con me”.
Autoritratto (dedicato a Gauguin),
Arles, (1888)
Giustamente celebrata nel corso di quel centenario, Jeanne Calment visse ancora nove anni, spegnendosi nel 1997 alla straordinaria età di 122 anni.
Ma, al di là di questa cifra sorprendente, la particolarità del suo eccezionale record sta nel fatto che la donna non aveva condotto affatto una vita da salutista, vissuta con le accortezze, le cautele e le privazioni tradizionalmente associate alla longevità, tutt’altro.
Jeanne, infatti, sembrava incarnare il perfetto esempio di un’esistenza dal tenore disinvolto: fumava, amava bere un bicchiere di vino ad ogni pasto (adorava quello portoghese), mangiava cibi saporiti e piccanti, carni rosse e cioccolata a volontà, e, per finire, aveva sempre saltato la colazione, preferendo bere due tazze di caffè.
La sua famiglia di origine era composta da individui rivelatisi abbastanza longevi: suo fratello visse 97 anni, suo padre 93, sua madre 86, ma ebbe anche un fratellino e una sorellina che morirono giovanissimi, rispettivamente a quattro e a due anni di età.
Jeanne sposò un suo cugino di secondo grado, Fernand Nicolas Calment, che portava il suo stesso cognome.
I due vissero in un appartamento situato in Rue Gambetta e gestirono un proprio negozio, “Nouveautés”, che si affacciava sulla stessa strada.
Due anni dopo nacque la figlia Yvonne che morirà a soli trentasei anni lasciando a Jeanne un nipotino da crescere.
La bambina che vendeva pennelli a Van Gogh ha goduto di una vita agiata, oltre che lunghissima, durante la quale è sempre stata piuttosto attiva, praticando il nuoto e il tennis, andando in bicicletta fino ai cento anni, suonando il pianoforte e facendo musica con gli amici, andando a caccia col marito e scalando perfino montagne ghiacciate.
Ai giornalisti che si interessarono a lei non mancarono certo notizie sorprendenti da riferire ai loro lettori.
Rimasta vedova nel 1942, Jeanne aveva vissuto sola fino ai 109 anni, quando aveva dovuto rassegnarsi a trasferirsi in una casa di riposo.
A 85 anni aveva preso lezioni di scherma, A 114 anni era comparsa in un cameo nel film “Vincent and me” divenendo l’attrice più anziana di sempre, a 115 camminava ancora senza l’aiuto di un bastone.
Smise di fumare intorno ai 118 anni di età solo perché, divenuta ormai cieca, non era più in grado di accendersi da sola le sigarette.
Al momento di compiere 120 anni, battendo senza ombra di dubbio ogni record di longevità di cui si avesse notizia, festeggiò l’evento con l’incisione di un CD con quattro pezzi rap nei quali raccontava la sua vita.
Uno degli episodi più curiosi che la riguardarono divenne proverbiale.
Quando Jeanne compì novant’anni, si ritrovò sola e senza eredi perché il suo unico nipote era scomparso prematuramente in un incidente stradale.
Fu allora che un notaio, convinto di fare un investimento facilissimo e privo di rischi, fece un accordò con lei concernente l’appartamento della vecchietta.
Concordarono una formula simile alla nuda proprietà.
Lui avrebbe pagato un canone annuale alla donna, divenendo proprietario della casa alla morte della signora.
L’uomo, quarantasettenne all’epoca, era più che certo, data l’età avanzata di Jeanne, di metter mano prestissimo e con il minimo sforzo economico, su una proprietà dal valore apprezzabile.
Mai calcolo si rivelò più disgraziato:
l’uomo aveva infatti firmato quel contratto con la donna destinata a sbriciolare ogni record di longevità.
Il notaio non mise mai piede in quell’appartamento: morì infatti tre anni prima di Jeanne, trasmettendo l’obbligazione alla vedova.
L’anziana proprietaria, con la quale aveva stipulato l’atto di nuda proprietà, sopravvisse altri trent’anni e nel complesso, per la proprietà della sua casa, le venne corrisposta una somma di tre volte superiore all’intero valore di mercato.
Quando le fu data la notizia della morte del notaio Jeanne, che sarebbe a sua volta scomparsa tre anni dopo, nel 1995, per “cause imprecisate”, commentò:
“Nella vita, a volte si fanno cattivi affari”.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.