Igino Ugo Tarchetti e “Fosca”

VITE E LETTERATURA

Non rammento chi o cosa mi fece incontrare “Fosca”, so però che quel romanzo andò ad aggiungersi al mucchio di quelli che, intercettati grazie alla buona sorte, o forse in virtù della mia voracità e pertinacia di lettore, si sono rivelati indimenticabili.
Credo che ciascun appassionato di letteratura sappia per esperienza che non sempre una valutazione personale tanto lusinghiera coincide con la fama di un’opera o con l’imprimatur scolastico che nel tempo gli è stato decretato.
Questa è una assoluta verità, la si può tranquillamente propalare, soprattutto nel caso si parli di libri di autore ottocentesco.

Nei programmi scolastici che la mia generazione ha praticato, nel trattare quel secolo, ben poco si muoveva al di fuori della sacra triade Foscolo, Leopardi, Manzoni.
Questi giganti erano gli assipigliatutto, divoravano tempo, cure ed attenzioni.
Così solitamente, dopo aver trascorso i quadrimestri in loro esclusiva compagnia, si arrivava a giugno a trattare al massimo Verga, e ci si giungeva pure col fiatone, ma alle tribolazioni dei suoi protagonisti concedevamo una simpatia distratta, indebolita dalle crescenti tentazioni dell’estate nascente. Il profumo del mare accarezzava i banchi e i sensi desti di chi li occupava, e questo era il crisma sulla fine dell’anno: i giochi erano ormai fatti, l’ultimo anno del corso di studi era compiuto e gli scrittori del Novecento rimanevano immancabilmente fuori dalla porta.

Bene che andasse venivano citati frettolosamente, tutti insieme, quasi schiacciati, per poi essere affidati per sempre alla nostra ignoranza. Erano titoli di coda che scorrevano a velocità anomala. A questo punto, ignorate nel corso della trattazione della loro epoca e scavalcate poi in blocco dai tirannici tempi scolastici, chi mai le avrebbe più incontrate le figure degli scapigliati dell’Ottocento?

Esponenti della Scapigliatura, da sinistra: Luigi Conconi, Carlo Alberto Pisani Dossi, Giovanni Giachi e Emilio Praga

Chi, tra quei maturandi istupiditi dalle blande fatiche scolastiche, avrebbe potuto più conoscere i nomi e le vite di gente come Cletto Arrighi, come Carlo Dossi, Emilio Praga o Vittorio Imbriani? E chi, da quel momento in poi, andando incontro al ruggito della giovinezza, si sarebbe mai imbattuto, soffermandocisi, nella vita e nelle imprese di Igino Ugo Tarchetti, l’autore di Fosca?
Quello però, lo si è detto subito, è un romanzo indimenticabile e visto che da tantissimi anni ne sono al corrente, mi correva l’obbligo di risarcire l’autore e di tirarlo fuori dall’armadio in cui accatastano polvere gli scrittori dimenticati dalla scuola e quelli lasciati fuori da tardive mode culturali.
Successivamente, va confortato e contemporaneamente spazzolato a dovere per diradare l’odore penetrante della naftalina. E compiute, dunque, queste operazioni preliminari, andiamo ora a raccontare brevemente chi sia stato questo ingegno letterario trascurato.

Iginio (o Igino) Ugo Tarchetti

Igino Ugo Tarchetti si chiamava in realtà Pietro Teodoro (il suo secondo pseudonimo, Ugo, lo adottò in onore di Foscolo), nacque a San Salvatore Monferrato, in Piemonte, nel 1839 e morì a Milano nel 1869. Come subito salta all’occhio, egli visse trent’anni appena, e la stragrande maggioranza di essi li trascorse nell’Esercito, partecipando in prima persona alle spedizioni volte a reprimere il brigantaggio.
Fu scrittore, poeta e giornalista ma solo nell’ultima parte della sua vita, una volta congedatosi dalla vita militare per ragioni di salute, riuscì a vivere pienamente, anzi freneticamente, la sua passione letteraria.
In soli quattro anni, gli ultimi della sua vita, Tarchetti riuscì a scrivere tre romanzi, diciotto racconti, poesie, pensieri e traduzioni dall’inglese. In casi simili si usa dire che il presentimento della brevità della propria esistenza, spinge inconsciamente l’artista ad un’attività febbrile e magari in questo, come in altri luoghi comuni, può esserci anche del vero.
Oltre alla produzione già ricordata, infatti, lo scrittore collaborò con una pletora di giornali e riviste tentando anche, senza fortuna, di pubblicare con le proprie forze “Il piccolo giornale”, un quotidiano che durò appena pochi giorni.
Quegli anni frenetici, che sono gli stessi delle sue frequentazioni con gli ambienti della Scapigliatura, segnano il periodo nel quale strinse fraterna amicizia con Salvatore Farina, uno scrittore passato da esordi avanguardisti alla stesura di romanzi sentimentali alla maniera di Dickens, ed oggi largamente ignorato.

Lungo, pallido, malinconico, fatale, chiuso come in una sepoltura dorata nella tunica dell’Intendenza militare…”.

A dispetto di questo ritrattino che proprio Farina ci da di lui, una descrizione fin troppo imparentata col gusto funereo del tardo romanticismo, Tarchetti, alto, slanciato e distinto, era in realtà ritenuto un bell’uomo, tendente a provare e ad ispirare passioni sentimentali. Certamente tutta la sua opera, sia l’abbondante produzione poetica che quella narrativa, quasi a dar ragione alla similitudine fariniana della sepoltura dorata, risentirà costantemente di una spiccata inclinazione per il tema della morte e del dissolvimento corporeo, temi che intreccerà spesso con quello dell’ebbrezza amorosa:

“Quando bacio il tuo labbro profumato,
Cara fanciulla non posso obbliare
Che un bianco teschio v’è sotto celato…”

Il rapporto amore-morte, tipico della tradizione romantica ed anticipatore delle atmosfere decadentiste, assume in Tarchetti caratteri decisamente morbosi, e alcune sue esperienze biografiche non faranno che rafforzarne l’importanza.
Verso il mese di novembre del 1865 Tarchetti, che si trovava a Parma per incarichi militari, conobbe una donna, una certa Carolina (o forse Angiolina), parente di un suo superiore, malata di epilessia e prossima alla morte.
Pur non essendo bella, suscitò subito un’attrazione da parte dello scrittore, forse per i grandissimi occhi neri e le trecce color ebano.
Tarchetti stesso, così descrive lo stato dei loro rapporti:

“Quell’infelice mi ama perdutamente… il medico mi disse che morrà fra sei o sette mesi, ciò mi lacera l’anima, vorrei consolarla e non ho il coraggio, vorrei abbellire d’una misera e fuggevole felicità i suoi ultimi giorni e v’ha la natura che mi respinge da lei”.

Questa repulsione naturale evidentemente non resse a lungo e la relazione tra i due, che diede scandalo, fornì ispirazione per il suo più importante romanzo, “Fosca”, appunto.
Nella realtà tuttavia le cose andarono in modo diverso sia da quello che si sarebbe potuto prevedere considerando le condizioni di salute della donna, sia dall’epilogo raccontato nella versione letteraria della storia.
Al contrario di quello che avviene nella trama del libro, con la fine di Fosca dopo l’unica notte d’amore, nella vicenda realmente vissuta fu Tarchetti a morire per primo.
Lo scrittore scapigliato, segnato dalla miseria e dalla malattia, si trascinò senza trovar quiete tra Milano, Torino e la natia San Salvatore.
Quando a Milano, lasciata la carriera militare e intrapreso il lavoro di giornalista e romanziere si trovò in difficoltà economiche, furono gli amici a tentare di convincerlo a farsi aiutare.
Debole, tubercolotico, lui non si curò, abbandonandosi a una sorta di lento suicidio, consumandosi nel buio e nella rassegnazione. Carolina, che gli sopravvisse, mandò ogni anno un fascio di fiori sulla sua tomba.
È evidente quindi che se pure “Fosca”, non si può considerare la piatta trasposizione della storia dell’amore che realmente intercorse tra il suo autore e la donna nevrotica e tormentata da incubi di morte, si può tranquillamente dire che nella sua trama finisce per rifletterla in gran parte.

Il protagonista, Giorgio, è un bell’ufficiale che ha una tenera relazione amorosa con Clara, ricca di bellezza e di virtù che tuttavia è sposata ed ha un figlio. Trasferito di sede, Giorgio è spesso ospite a casa del suo nuovo comandante e qui conosce Fosca, cugina del Colonnello. Fosca è una donna singolarmente brutta e malata, la personificazione stessa dell’isteria, ma è dotata di acuta sensibilità e di grande cultura.

“Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna!…Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonie di fattezze – che anzi erano in parte regolari – quanto per una magrezza eccessiva […] per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi, che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente…”. (Fosca. Cap XV)

Un passato drammatico non ha estinto in Fosca, accendendola anzi, una grande sete d’amore che presto troverà in Giorgio un furioso motivo di rivelarsi.
Un gioco fatale di attrazione, pietà e seduzione porterà Giorgio a sentirsi diviso tra le due donne, opposte in tutto, perfino nel significato antitetico e simbolico dei loro nomi: Clara e Fosca. Clara immagine della bellezza e dell’amore solare, Fosca quella della malattia oscura, della passione distruttiva ed autodistruttiva.
La decisione della prima, di tornare nell’alveo dei suoi doveri di moglie e madre, lascerà l’ufficiale preda sempre più inerme della morbosa tela tessuta da Fosca tanto che, dopo il compiersi, letale per lei, dei suoi desideri, Giorgio si troverà contagiato dal suo stesso male.

“Più che l’analisi di un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio qui la diagnosi di una malattia” scrisse Tarchetti.
L’isteria, infatti, è la protagonista assoluta del romanzo, un’opera che si dimostra di inquietante attualità. “Fosca” anticipò di qualche anno le scoperte di Charcot, Babinsky e Janet, perché il centro sua della narrazione sta appunto in quel male senza corpo e proteiforme insieme, febbrile e sfibrante, sta tutto nell’affezione che è condanna e privilegio dell’uomo moderno, quella nel quale la sofferenza scoperchia un vuoto spirituale oscuro e senza margini, il luogo dove si nasconde il segreto del rapporto tra vita e morte.

Salvatore Farina

Igino Ugo Tarchetti non riuscì a completare il romanzo, così parte del penultimo e tutto il capitolo finale li scrisse Salvatore Farina, il suo amico di sempre, che in virtù della vicinanza con l’autore era l’unico in grado di conoscerne le intenzioni a riguardo.
Va infine ricordata l’ottima trasposizione cinematografica di “Fosca”, diretta nel 1981 da Ettore Scola, regista che riuscì magnificamente a restituire le atmosfere oscure e morbose che rendono così affascinante il romanzo.

Valeria D’Obici interpreta Fosca nel film “Passione d’amore” di Ettore Scola 1981

E ora che il programma scolastico di decenni e decenni fa, è stato integrato, almeno per una sua millimetrica frazione che molti non riterranno fondamentale, e visto che l’armadio dei letterati dimenticati ha potuto prendere un po’ d’aria, cari lettori ex studenti, attualmente quasi senescenti, potete correre via liberamente, scappare lontano da questi banchi scrostati.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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