Matthias Grünewald e il Polittico di Isenheim

                       

Mathias Neithardt Gothart noto come Grünewald, è stato uno dei più importanti pittori del periodo rinascimentale tedesco.
Della sua vita non si sa quasi niente, probabilmente è vissuto tra il 1455 e il 1528 e di lui sono rimaste poche opere: la più importante e ben conservata è l’Altare di Isenheim.
Certo è che il pittore lavorò come architetto per il capitolo del Duomo di Mainz e per il castello di Aschaffenburg, divenne pittore di corte presso l’arcivescovo elettore di Mainz, e nel periodo tra il 1512 – 1516, Guido Guersi, abate del monastero di Isenheim, gli commissionò l’esecuzione di una macchina d’altare costituita di alcune ante fisse ed altre rimovibili, da poter utilizzare per diverse funzioni religiose offrendo così immagini diverse.
Le sue erano opere cariche di pathos e intensamente drammatiche, così si può dire che Grünewald condivise solo in parte i canoni pittorici rinascimentali, scegliendo piuttosto di mantenere un legame con la tradizione gotica, un legame reso manifesto da una certa fantasia inventiva e, soprattutto, da una forte tensione emotiva e spirituale che si tradusse in un disegno tormentato.

Matthias Grünewald, ritratto di Guido Guersi

Grandissimo e solitario, propose con il suo folgorante Polittico di Isenheim una rappresentazione fra le più crude e drammatiche dell’arte occidentale, condensandovi tutto il travaglio spirituale di un’epoca.
Quest’opera era destinata a confortare i malati dell’ospedale di Isenheim, destinati a morire, perché malati di ergotismo, la malattia micotica meglio nota come “fuoco di Sant’Antonio”, una malattia orribile che riempiva il corpo di pustole e ulcere, che a volte portavano i poveretti fino alla cancrena.
Grünewald era un artista che si muoveva fuori da ogni schema previsto dalla sua epoca e fuori da ogni tipo di influsso.
La sua, di conseguenza, venne fuori come un’opera autonoma, elaborata in un linguaggio personale.
L’artista destrutturava le pose stereotipiche dell’arte religiosa del suo tempo, utilizzando un approccio straordinariamente moderno nel posizionare i personaggi in un paesaggio statico.
L’altare era un polittico con pannelli e ante dipinte da entrambe le parti, che formavano quel meraviglioso ciclo pittorico che Philippe Daverio definiva come la Cappella Sistina dell’Europa del Nord”, per “la complessità pittorica che rifletteva quella cultura della riva sinistra del Reno, nella quale follie e fantasmi si sposano in un immaginario che dura fino ai giorni nostri”.
L’anno era il 1515, circa, e fra poco Martin Lutero avrebbe affitto le sue proposte sulla porta della chiesa di Wittenberg”.
Si era infatti all’inizio della Riforma Protestante (le 95 tesi di Martin Lutero sono del 1517), nel pieno dei moti rivoluzionari della Guerra dei Contadini (1520-1526) e delle Guerre di Religione (1524-1648), poco prima del Concilio di Trento (1545-1563 e subito dopo della Scoperta dell’America (1492).
In quel periodo l’Europa iniziava ad essere inondata dall’oro del Nuovo Mondo: fu ciò che rese possibile la realizzazione di opere audacissime e costosissime d’arte, di architettura e di urbanistica.

L’ “Altare di Isenheim” presentava tre facce in successione: nella prima faccia, ad altare chiuso, vi era rappresentata la Crocifissione, fiancheggiata, sugli sportelli laterali fissi, dal “San Sebastiano” e dal “Sant’Antonio”.
Nella predella appariva il “Compianto su Cristo”. Nella seconda faccia (altare aperto con le prime ante) erano raffigurate, da sinistra verso destra, la “Annunciazione”, la “Allegoria della Natività”, e la “Resurrezione”.
Nella terza faccia (altare con aperte le seconde ante) erano presenti – ai due lati – i “Santi eremiti Antonio e Paolo” e le “Tentazioni di sant’Antonio”.
Nello scrigno al centro, ripartito in tre, ci sono le sculture in legno di Hagenauer.

Era, ed è ancora, la Crocifissione, al centro del polittico chiuso, ad essere incomparabile, e certamente è una delle più toccanti e drammatiche di tutta la storia dell’arte.
La croce stessa negava tutte le croci preesistenti e trovava riscontro analogo solo in Antonello da Messina e in alcuni fiamminghi.
Questa di Grünewald era piegata con un arco incurvato quasi a lanciare nello spazio la carne martoriata di Cristo.
Il Cristo appariva gigantesco, appeso a una croce appena sgrossata, portava addosso i segni della brutale violenza con la quale era stato torturato.

Il suo corpo scheletrico era interamente segnato dalle ferite della flagellazione, la sua carne crivellata di schegge.
Il capo era cinto da una corona di spine, le mani, magrissim e, attraversate da grossi chiodi, avevano le dita tese per gli spasmi, in modo innaturale, e così anche i piedi: l’intero corpo del Redentore sembrava deformarsi a causa dell’estrema sofferenza.
Accanto alla croce Grünewald aveva dipinto una pallida Vergine, sorretta da san Giovanni, con la Maddalena inginocchiata ai piedi del crocifisso, ed il Battista, presenza ideale ad indicare Cristo, accompagnato dall’agnello mistico, ossia l’animale simbolo dello stesso Cristo, l’Agnello che toglie i peccati del mondo.
Ha il petto ferito e versa in una coppa il sangue che esce a fiotti dal corpo del Redentore.
L’agnello è prefigurazione dell’Apocalisse e della Resurrezione, raffigurata nell’altra serie di pannelli.

La prima faccia del pannello

L’apoteosi finale del Gesù umano è accompagnatada un pannello raffigurante l’inizio della sua storia terrena, ovvero “l’Annunciazione”: l’arcangelo Gabriele appare a Maria annunciandole che è stata scelta come la madre di Dio.
La scena della Natività centrale rivela una donna ormai sicura, che culla il suo bambino, mentre di fronte a lei gli angeli formano un’orchestra celeste.

La seconda faccia del pannello

Alla fine bisogna prestare attenzione ai due pannelli raffiguranti i santi Antonio e Paolo e le tentazioni di Sant’Antonio. Entrambe le scene sono immerse in paesaggi impervi al quale fa da controparte, nella prima raffigurazione, la presenza di un cerbiatto, simbolo di atmosfera tranquilla.
Nel pannello di destra una casa, in rovina per un terremoto, appariva infestata da presenze malvage, che ci ballavano sopra. La stessa raffigurazione di demoni compariva nello sportello che affiancava la crocefissione, quello con Sant’Antonio Abate, colto nell’atto di spaccare i vetri della finestra per entrare.

La terza faccia del pannello

Tornando alle tentazioni, il santo sembrava trascinato dai demoni tra animali, uccellacci, strane chimere dai corpi misti, animali immaginari che si contrapponevano ad uno strano nanerottolo che figurava in basso, coperto di pustole, un essere quanto mai realistico e rappresentativo di una società che vive impaurita tra guerre e pestilenze.
Scriveva Daverio:

“Il posto sembrò essere sconquassato da un terremoto e i demoni, quasi abbattessero le quattro mura del ricovero, sembravano penetrare attraverso esse in forma di bestie e di cose striscianti…”.
Così Atanasio di Alessandria raccontava delle battaglie con il demonio affrontate dal suo amico sant’Antonio abate. Oltre mille anni dopo, Grünewald racconta la stessa storia nel retro dell’altare di Isenheim.
Nell’anta di sinistra sant’Antonio parla con un eremita, san Paolo, in un paesaggio lunare dove la palma è fatta come se la può immaginare uno che non ha mai visto il sud, ma dove il cerbiatto è simbolo di un’atmosfera pacata.

In quella di destra la casa è diroccata dal terremoto e i diavoli ci ballano sopra; il santo viene trascinato dai demoni tra animali, uccellacci, strane chimere dal corpo di armadillo, teste da ippopotamo, improbabili cornuti con dentoni, che poi nell’immaginario tardo medioevale non sono affatto mostri inesistenti, ma solo ancora non incontrati, mentre in basso a sinistra l’orribile nanerottolo coperto di pustole, vestito da Medioevo mentre a Roma ci si veste già da Rinascimento, è invece essere sicuramente incontrato fra guerre e pestilenze, o già visto nei dipinti del vicino di casa Hieronymus Bosch.

E il realismo è portato al punto più estremo…con la catena di ferro alla quale è appeso un pezzo di tavola sulla quale è attaccato il cartiglio INRI, ovviamente in gotico. La stesura di Grünewald, all’apparenza visionaria, si fa spiegabile solo se rapportata ad alcune concezioni teologiche del XX secolo. In uno spazio da fantascienza fra i massi tellurici che volano appare la Teofania del Cristo Cosmico: il suo corpo risorto è racchiuso nell’Omega che è punto conclusivo della storia. Il bordo della sfera lascia vibrare la nuova dimensione mistica dove s’incontrano, come prospetta la teologia dello scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin, le energie sommate della noosfera, la terza sfera dopo la geosfera e la biosfera, essendo questa il luogo dell’incontro delle menti.
Teilhard de Chardin ipotizzava una evoluzione delle specie che, dall’Alpha della creazione e dell’insorgere della vita, avrebbe portato la specie più complessa, quella umana, al punto Omega d’incontro con il divino. Fu egli guardato con sospetto dai suoi superiori e mandato a studiare sassi nel Tibet da dove passò a New York e lì morì nel 1955. Il suo pensiero fu recuperato dalla mente sottile di Paolo VI.
E certo, ora che l’intelligenza umana è costantemente collegata in una rete perenne dove le informazioni generano una dimensione inaspettata, tornano legittime due letture diverse del caso: una laica e una mistica, intuita visivamente da Grünewald, nella quale una pellicola sta per avvolgere il cosmo ormai del tutto interconnesso grazie all’evoluzione del pensiero umano che s’incontra con il permanere del divino per il completamento dei tempi“.

L’opera fu realizzata tra il 1512 e il 1516, anno in cui morì il committente Guersi, e Grünewald prese ufficialmente servizio dal cardinale Alberto di Brandeburgo.
Questo risulterebbe anche rafforzato dalla scritta – anno “1515” – che si è rilevata sul piccolo vaso della Maddalena ai piedi della Croce, e altresì dai due contratti per l’esecuzione di lavori di carpenteria datati 1513 e 1515, ricavati dall’inventario dell’artista e molto probabilmente in relazione con il polittico.
Grünewald dunque, con la sua crudezza, non voleva scioccare né provocare, voleva, al contrario, consolare. 
Quel Cristo morente diceva ai poveri moribondi che anche il figlio di Dio aveva sofferto ogni dolore e che anche loro erano figli di Dio.

Particolare della mano nel primo pannello

È un’opera la cui violenza colpisce il fedele come un pugno in faccia: non ha nulla delle normali Crocifissioni, quelle in cui Cristo è rappresentato sì appeso, è sì ferito, è sì sofferente, ma non fino a quel punto, come se quella morte e quel supplizio non fossero state in fondo così disumane.
Scriveva la scrittrice Melania Mazzucco:

E’ come se avessi visto morire qualcuno, e non l’abbia aiutato. E anche se non tornerai più a Colmar, rimane dentro i tuoi occhi e dentro di te, indelebile come una colpa. Il pittore ci costringe a guardarlo morire. La visione può risultare intollerabile.
Ancora oggi si discute se sia lecito mostrare la morte e la sofferenza degli uomini, ogni volta che una foto rubata ce li mostra nel loro orrore”.
“A Grünewald non interessano che l’espressione e il movimento. La norma, la misura, le proporzioni della figura umana non lo hanno di certo interessato molto.
Le sue forme fisiche sono per lo più brutte, malaticce, impossibili o almeno fuori dall’ordinario, anche quando non si sacrifichi niente all’espressione. I volti sono asimmetrici, quasi in ogni dipinto si riscontrano arbitrii di disegno che hanno una giustificazione artistica…”. (H. A. Schmid, Die Gemälde und Zeichnungen von Matthias Grünewald).

Il Polittico di Isenheim è una sorprendente “macchina pittorica”, costituita da ante fisse e mobili, che si possono chiudere e aprire, a libro, facendo assumere al polittico tre differenti configurazioni.
L’Altare di Isenheim, attualmente conservato nel Musée d’Unterlinden di Colmar in Francia (nella regione dell’Alsazia), e la Cappella Sistina di Michelangelo, sono due capolavori assoluti della civiltà artistica occidentale; dipinti quasi in contemporanea nei primi decenni del 1500: l’altare di Isenheim tra il 1512 e il 1516, e gli affreschi della Sistina tra il 1508 e il 1541), proprio nel mezzo di grandi sconvolgimenti per i popoli europei, che vivevano ancora le tragiche devastazioni provocate dalle successive ondate epidemiche, dalle carestie e dalle guerre.

Interno del Musée d’Unterlinden

Grünewald, nell’Altare di Isenheim, sta molto “al di qua” della Cappella Sistina, perchè è ancora umano tra gli umani, con tutte le incertezze, i dubbi e le sporcizie del “dover vivere”, e le sue rappresentazioni non potranno mai arrivare alla eroicità e all’apoteosi trionfante delle certezze di Michelangelo.
La visione di Grünewald è sicuramente il riflesso degli scombussolamenti centro-europei dell’epoca.
Essi hanno contribuito alla funzione taumaturgica che doveva avere l’Altare di Isenheim; hanno favorito la creazione di questa opera allucinante, dove tutto viene sconvolto, la vita e la morte, il principio e la fine.
In essa la vita può coincidere con la morte, il principio può coincidere con la fine, la gloria può coincidere con la vergogna e il trionfo con la catastrofe.
Perchè non è l’imitazione o la rappresentazione delle cose o dei fatti il carattere centrale di questo capolavoro, quanto piuttosto il senso dell’esistenza, l’essere e l’espressione dell’essere nel suo insieme, divino, umano, animale e vegetale.
E’ difficile inserire questo pittore in un convincente e coerente filo di sviluppo della pittura tedesca dei secoli XV e XVI. Giovanni Testori dice che “Il suo percorso risulta esterno alle regole del grande, tragico cammino dell’arte”.
Come si è gia detto e come annota Gombrich, l’impianto pittorico e decorativo dell’altare, è ancora “tardo-gotico”: simbolico nella disposizione dei colori, carichi di valori spirituali (R.Arnheim) e contrastante con la realtà nella scala di grandezza delle figure (Gombrich).
Grünewald non l’ha voluto assimilare del tutto i trionfanti canoni rinascimentali, ha preferito superarli con indifferenza, sbarcando in una specie di “maniera” espressionista che poi ispirerà tutti gli “espressionismi” successivi, fino a quelli moderni!

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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