“Fora negher, sciò, fora dai coglion!”
Più di un attimo di imbarazzo attraversò la grande sala del trono, sussultando negli animi un po’ scossi dei due giornalisti, giusto il tempo che ci volle perché, comandati da Ganesh, gli uomini di colore, che vi erano giunti insieme coi nepalesi di scorta a Tarallo e Taruffi, ne uscissero in silenzio, a testa china.
Spampalon si allontanò anche lui, facendo segno ai due di aspettarlo e tornò che indossava un’incredibile divisa militare da imperatore, con abbondanti fregi e alamari d’oro: un armamentario vistoso e impressionante.
Eppure Taruffi, diplomatico quanto una lombosciatalgia acuta, si rivolse di botto al truce monarca assiso in trono e, senza pensarci un attimo, gli chiese:
“Mi scusi, ma che ruolo hanno quei signori che ora lei ha cacc… fatto uscire? Ho avuto l’impressione che non siano considerati come i nepalesi che ci hanno accompagnato qui. Che lavoro svolgono, quali sono esattamente le loro mansioni?”.
Tarallo, che qualcosa aveva intuito sul conto dell’imprenditore, ebbe un accesso di tosse da errato deglutimento e si fece rosso come un suonatore di basso tuba nel pieno di un indiavolato pezzo bandistico.
Ermenegildo Spampalon, preso di sorpresa, imporporò di rabbia, strabuzzò gli occhi, poi li rivolse verso il vocione roco che gli aveva rivolto la parola e solo a quel punto parve mettere a fuoco l’immagine pittoresca di Marzio, sporco oltre ogni dire, e sudatissimo nella sua mise tremenda.
Quella mattina infatti, pur avendo, al contrario di Lallo, dormito un sonno di granito, Taruffi non aveva ritenuto necessario affrontare il nuovo giorno cambiandosi gli abiti e men che meno aveva pensato di rinfrescarsi, così, puzzolentissimo, si teneva ancora addosso la t-shirt con Drupi e i calzoncini con Kabir Bedi.
Il sire italiano di Putalibazar, si piegò sul torso, come per inquadrare meglio quella stravagante visione e, strizzando gli occhi per metterla a fuoco, li piantò addosso alla assoluta icona del mai lavato.
Spampalon tirò in su col naso e fece una smorfia di disgusto, poi parlò:
“Dime ‘na cosa, ciacolon – gli sibilò – ti me veni a ciciolar de’ cassi miei nel me’ cason? “, esordì minaccioso.
Poi, in uno sforzo non troppo riuscito di parlare italiano, proseguì:“Che laoro fan i me’ negher, lo so io, spussolente che ti se’! El loro mestier è farse cazar, capissi, me intendi? Li tengo solo per cazarli ogni volta che me ne vien l’uzzo: me piase, ‘nsoma, de cazar ‘sti negher.”
“Ah, mi scusi sig.. altez.. Eccellenza – belò allora Taruffi, confuso e impressionato – forse non ho capito: quei signori di colore sono qui solo per farsi cacciare quando lei ne ha voglia? E vengono pagati per questo?”
“Quali signori de color? Queli son negher, e hai voglia a cacciarli via: quelli spuntan fora come i funghi! Stan sempre a fa n’arte, con quele more femine che reggono de tuto: “na dona butà e un palo in piè, tien su qualunque peso” (1), ricordate spussolente!
E poi il laoro vien pagà, io tiro fora gli schei: tre soldi e una banana e queli stano alegri! Ciàvan, ciàvan e ciavano a tuta, così figliano, figliano, figliano e poi vengono da noi, in Itallia, magari in palude, a romper ‘e baette e a farse mantener!”
A questo punto Lallo, che sentiva torcersi le interiora dalla rabbia, irruppe nella conversazione riportandola con fredda cortesia, al suo scopo originale.
“Quindi, se non ho capito male – disse, scandendo ogni parola – la sua risposta alla domanda del mio collega, domanda che ha aperto la nostra intervista, potremo sintetizzarla così: il signor Ermenegildo Spampalon, imprenditore italiano in Nepal, produttore di riso, ma impegnato in molti altri settori, alla domanda riguardante il ruolo di alcuni uomini di colore presenti nel suo bel palazzo, ci ha risposto che l’unico lavoro di quei “negher” è quello di farsi cacciare ogni volta che gliene ne viene la voglia. Del resto sono regolarmente pagati con tre soldi e qualche banana, e di ciò si mostrano allegri e soddisfatti.
Questa loro allegria del resto è tipica, loro peculiare, e si riversa sulle loro forti femmine, in grado di sopportare di tutto. Così si accoppiano senza sosta e senza sosta mettono in produzione altri piccoli negher che, cresciuti, finiscono per riversarsi per il mondo, ma soprattutto in Italia a rompere le scatole e a farsi mantenere da noi. Dico giusto?”.
Spampalon fece una smorfia di forte disappunto, e guardò Lallo in faccia, fosco, proprio come un vegano rimira un abbacchio alla scottadito.
Poi, irritatissimo, ribattè:
“Ohè, mica puoi meterla così sul giornal! Sul giornal se pol scriver che i negher son impiegati delle pulissie, regolarmente asunti.
Gnanca Frangifluti pol dire sul suo Fogliasso che i negher sono negher, negher e basta, lui è tògo (2): se lo fa, quei mori gli fano la macumba, e i comunisti, lo metono al palo, no? Adesso che pure el Papa è un comunista e ‘l piason i teron de tuto ‘l mondo, bisogna sforzarse de trovar ai mori un altro nome e qualcossa da tataràre (3), anche se poi son solo negher, come dise la canson!* Chiaro el concetto? “.
Tarallo pensò a quello che gli aveva detto Ganesh su Spampalon, che era cioè, un “reazionista”, e rabbrividì.
Altro che semplicemente reazionario: quel tipo aveva la giovialità di un cannibale a digiuno e l’apertura mentale di Himmler!
Persino il sulfureo ed ipocrita Frangiflutti o il nostalgico e glicemico Ciccibon, erano dei barbudos di Castro, al confronto.
“Non le pare un po’ restrittiva la sua opinione delle persone di colore?”, insistette Lallo, che aveva deciso di fregarsene delle raccomandazioni di Ganesh e degli eventuali mal di trippa che sarebbero venuti a Frangiflutti in caso di rimostranze spampaloniane.
“Cossa ghe poso far io se queli son negher? Chi nasse aseno non more mia caval!” (4).
Taruffi nel frattempo si era totalmente estraniato dalla situazione, attirato da un separè che aveva stampato sopra nientemeno che un ritratto di Frangiflutti seduto alla scrivania, con aria ingannevolmente pensosa e tanto di elmo bicornuto in zucca.
Afferrate, senza capirne il senso, solo le ultime parole di Spampalon, il disgraziato rientrò maldestramente nella conversazione chiedendo: “Ma chi è poi l’aseno?”.
A quel punto, convincere il Re reazionista, produttore del riso monàda, dell’innocenza di quella domanda, sarebbe stato davvero arduo, un po’ come chiedere a Jovanotti di aver pietà di almeno una nota su tante che ne massacrava.
Spampalon, infatti, deglutì un chiluccio di bile, poi, mentre un filino di fumo gli usciva dalle narici, abbaiò:
“Ehi tu spussone, ringrassia che ti xe dele mie parti e non te fazo far colassion con lo Yeti, ma porta rispeto, ciarò? Non far de conto su la mia benevolensa perché “chi tropo se inchina, mostra el culo” (5) e il mio non te lo fazo vèdere gnanca morto! Ora basta, però, per co ‘sta intervista del casso, a quest’ora a casa mia c’è la dansa: mia moglie Aishwarya ve delissierà con le bele danse de ‘sto tòco de mondo. Ora meteteve seduti sule do carèghe e vardate”.
Poi, con un tono improvvisamente melenso che lasciò di stucco i due giornalisti, chiocciò ad alta voce:
“Ven chi, dolze mio amòr”.
Le luci della sala del trono si abbassarono e, come venuta fuori dal nulla, si materializzò improvvisamente una donna di grande bellezza, una figuretta raffinatissima in un costume tradizionale assai colorato, rosso e dorato con calzoni lievi di seta che le arrivavano alle caviglie.
Portava delle cavigliere invisibili, con tanti sonagli, che sormontavano piedini nudi di rara perfezione.
Non si sa come o da dove, fatto sta che partì una specie di lamento lungo e melodioso, scandito da un tamburo che segnava un ritmo lento, sottolineato dai sonaglini messi in azione dai passi della ballerina.
I lineamenti della Principessa Aishwarya erano meravigliosi, di una finezza che cozzava parecchio con la sommarietà bruta di quelli del marito, che ora, però, guardandola, aveva lasciato andare la mandibola, ed era passato in men che non si dica, da un’espressione di greve superbia ad una, del tutto inedita, di beata idiozia.
Tarallo, che essendo esposto costantemente alla bellezza sovrannaturale della sua Consuelo, aveva maggiori difese contro gli spettacoli di superbo livello estetico, apprezzò la grazia fisica della danzatrice come si può fare con un bel quadro, rallegrandosene molto.
Non si poteva dire la stessa cosa di Marzio Taruffi, che alla vista di tanta magnificenza sembrava come se fosse stato colpito da una bastonata sulla zucca ed aveva assunto l’espressione languida ed eccitata di uno scorfano ad uno spettacolo di strip tease ittico.
Decisamente più indifeso di Tarallo, in pochi secondi si trovò incatenato alla performance della signora Spampalon, stregato dal suo fascino e da movenze decollate presto verso vette nepalesi di soffuso erotismo.
Il pover’uomo ricominciò a sentir molto, molto caldo col buffo risultato che Drupi nella t-shirt prese a sudare, e, spiacevolmente, i suoi pestilenziali effluvi ne risultarono potenziati.
Lallo, protetto dalla mezza oscurità, cercò invano di incontrarne lo sguardo: da come Taruffi guardava Aishwarya, come cioè a volerne sondare i più intimi segreti, fino a decifrare la sua stessa sequenza genetica, si rese conto dell’emergenza emotivo-erotica in cui versava il suo amico e collega.
Il ruvido cronista si era piegato col busto in avanti, fino a procurare a Drupi qualche ruga in più, e se nell’esorbitare dei bulbi, non aveva ancora tirato fuori la lingua, mangiandosi viva Aishwarya con gli occhi, era comunque questione di pochi minuti: lo avrebbe fatto presto.
Nulla di grave in ogni caso, se non fosse stato che Lallo, fissando nuovamente Spampalon, colse una sua occhiata palesemente sospettosa, diretta a Marzio.
Lo sguardo dell’industriale colonialista era tornato a farsi corrusco, come a preannunciare tempesta: si intuiva il suo sordo digrignare….
NOTE:
(1) Una donna stesa e un palo in piedi, reggono qualsiasi peso.
(2) Furbo
(3) lavoricchiare
(4) Chi nasce asino non muore cavallo!”
(5) Chi si inchina troppo, mostra il sedere
- Spampalon si riferisce alla versione italiana della celebre canzone “Angelitos Negros” e al famoso verso: “…Tutti i bimbi vanno in cielo, anche se SON SOLO NEGRI…”
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti