È ancora attuale parlare di Civismo? Possiamo ancora considerare il suo apporto, al dibattito politico italiano, come una ricchezza? O forse il Civismo sta già scadendo, quale oggetto di una politica in cerca di rinnovamento che, costruita su una società dei consumi, si limita a mettere in campo prodotti di facile uso e, quindi, di altrettanto facile consumo?
La sfiducia nelle istituzioni e la disaffezione dei cittadini dalla politica sono cresciuti ulteriormente, nonostante il Civismo, e il numero di cittadini che rinunciano all’esercizio del voto è sempre in aumento; poiché questo disinteresse/sfiducia viene attribuito al fallimento dei partiti, possiamo osservare che, di contro, si attesta ancora un orientamento di pensiero secondo il quale civico sia preferibile a politico, o civico sia meno peggio. Di fatto però c’è una grande confusione, in buona parte pure creata ad arte, su cosa si intenda realmente per civico; soprattutto ci si chiede se il civismo sia la nuova linfa vitale della politica, capace di rifondare i partiti, o se si limiti a essere usato, in specie nel periodo di elezioni, quando pullulano liste civiche, solo per attrarre voti: una sorta di “caccia al civico”, quindi, strumentalizzato a fini elettorali, che subito dopo torna a essere messo in cantina, una volta assolto a questo compito.
Ho osservato che il civismo, quale spinta dal basso, nasce per lo più da associazioni di cittadini o comitati o aggregazioni che, impegnate nella vita sociale, sentono il bisogno di incidere nella realtà in cui vivono, facendosi portatrici di valori e istanze; esse sono animate dalla voglia di portare il “civismo” direttamente nelle istituzioni democratiche, sollecitando una maggiore partecipazione alla vita socio culturale, in ambiti che attengono alla propria sfera di competenza, ma questa esperienza si è quasi sempre scontrata con quelle formazioni politiche, che si sono rivelate impermeabili a pratiche realmente partecipative; molte associazioni, ciascuna a suo modo, hanno raccontato di delusioni e insuccessi nei tentativi di interagire in ambiti politici su un piano di pari dignità, e io stessa posso testimoniare questa esperienza riguardo alla mia città, rispetto alle associazioni nelle quali mi sono impegnata direttamente. Ovvio che non sto parlando del tipo di associazionismo legato da rapporti di convenienza (o di clientela) a cui i partiti a volte affidano il compito di mostrare il loro volto civico, fregiandosi, a contorno di questa o quella candidatura, di una investitura/legittimazione civica, in funzione del proprio candidato; esiste un tipo di associazionismo, collaterale e subalterno, che spesso si estingue dopo la tornata elettorale, oppure sopravvive nell’orbita di questo o quel potere, e che è molto diverso dalla partecipazione di un percorso condiviso dal basso. Tutto ciò ci fornisce la prova evidente che, in molti casi, il civismo preferito da certa politica ufficiale, così come oggi essa si è trasformata, sia di un genere propagandistico, poiché, se pure i candidati si affannano a dichiarare il proprio profilo civico, con liste personali che -per quanto potranno essere composte da persone qualificate sono pur sempre espressione di parzialità – tutto ciò fornirà soltanto una rappresentazione esteriore.
Secondo me la prima ragione d’essere del civismo si esprime in un’unica domanda: innovare la democrazia; dall’attuazione di questa domanda partono e si innescano tutta una serie di scelte e comportamenti concreti coerenti, che sono il segno distintivo di un percorso civico; l’obiettivo è quello di un rinnovamento delle regole democratiche che, sinora, hanno poggiato esclusivamente sulla delega, per rifondarle su un principio di democrazia partecipata che, partendo dalla struttura interna di un movimento civico, si estenda poi all’esterno, in maniera tale da ridurre la distanza fra cittadini ed istituzioni.
Il “vertice” di un movimento civico, che sia esso eletto quale sindaco, consigliere, presidente di regione, ecc. ha bisogno di organi per mantenere il contatto con quella società vasta che deve governare, perché lo aiutino, attraverso un percorso condiviso, a far maturare nei cittadini la consapevolezza delle azioni e la pazienza che richiede il raggiungimento di obiettivi complessi. Probabilmente tutto ciò è attuabile anche all’interno di strutture partito, sempre che esse mantengano il contatto con quella parte civica che, in troppe realtà, hanno completamente accantonato, preferendo ad essa una delega in bianco, anche perché, in molti casi, troppo impegnati nelle loro lotte, tra fazioni interne, per il raggiungimento del potere.
Vero è che molti tentativi civici falliscono, perché innovare la democrazia è impresa complessa, un impegno non facile ma necessario, quello di cambiare una visione della politica ridotta a personalismi, e di uscire dalla miopia di pensare che sia sufficiente avere gli uomini giusti per la gestione della cosa pubblica, uomini soli al comando.
Il compito di rifondazione della politica, che passa attraverso l’innovazione della democrazia, è un cammino che il civismo si è prefissato, diversamente, senza questo obiettivo, assisteremo a “civici” cooptati dai partiti, che finiranno per assimilarsi e perdere la possibilità di qualsiasi rinnovamento, così come già abbiamo visto accadere più volte.
Essere movimento civico significa innanzitutto condividere profondamente dei valori inclusivi e, attraverso essi, consentire la coesistenza tra persone di estrazione sociale, cultura, storia personale, formazione politica diversa; ciò implica la capacità di rinunciare tutti a una parte della propria sovranità ideologica e culturale, anteponendo ad esse il bene comune e la realizzazione di un progetto più grande; essere civico vuol dire, sopra ogni cosa, poiché la forma deve farsi anche sostanza, porsi il problema della democrazia interna, dedicando grande attenzione ai processi di condivisione delle decisioni, perché solo attraverso essi si può acquisire consapevolezza del percorso che si sta attuando, e fornire al “vertice” quelle necessarie garanzie di contatto diretto con i cittadini, di trasparenza e di allargamento della comprensione delle scelte e delle difficoltà che esse comportano.
Credo che essere civici significhi privilegiare l’essere rispetto all’apparire e accettare il principio della pubblicità delle discussioni e dei dibattiti, perché siano momento di crescita e di apertura alle buone pratiche di democrazia e di educazione al senso di appartenenza a una cittadinanza dedita all’esercizio di una libertà che non possa mai prescindere da quella altrui.
In questo senso, alla luce della mia personale e modesta esperienza, se pure consapevole delle difficoltà di questo cammino, sono convinta che il Civismo, nella sua nobile accezione, resti oggi una valida risorsa per riportare la Politica a un livello alto di dibattito e di rinascita; perché ciò sia, occorre lavorare su ciascuno di noi, partendo dal presupposto che questa condivisione, nel rapportarsi tra pari, richieda reciprocità di valori, di fiducia e considerazione di ogni percorso umano, necessari a una idea di società più aperta e inclusiva, più attenta ai bisogni di tutti; così come sono certa che la Democrazia abbia bisogno del Civismo, per rafforzarsi e scongiurare il rischio, sempre incombente, di uno svuotamento che la riduca al simulacro di se stessa.
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale