L’Agnese va a morire e le donne della Resistenza

Quando il romanzo di Renata Viganò apparve, la situazione politica italiana non era delle più serene e un’opera come “L’Agnese va a morire” si trovò ad essere al centro di polemiche in cui gli argomenti politici superarono spesso quelli culturali ed estetici.
Il testo era senza dubbio un frutto di quel particolare stile che vene definito neorealistico.
Si trattava non di una scuola, ma di un insieme di voci, di un nuovo modo di guardare il mondo, in un rinnovato contatto fra l’intellettuale e popolo.
In effetti si rispondeva così all’esigenza di scoprire l’Italia reale, suscitando contemporaneamente una più viva fiducia nelle possibilità di rinnovamento e di progresso dell’umanità.
Il neorealismo nasceva come il prodotto di un’incondizionata sicurezza nel processo storico, frutto di un’ottimistica coincidenza di interessi tra cultura e società.
La Viganò per il, suo romanzo scelse la via dell’epica popolare, che scartava a priori le indagini sulle ragioni della lotta e partiva da una asserzione manichea che vedeva tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra.
Il suo merito fu quello di riuscire a conservare ad un testo così scopertamente di parte, la convinzione della verità assoluta, che rimane accettabile proprio perché non viene chiassosamente e ufficialmente bandita, ma semplicemente detta. Il libro segna però un punto d’arrivo nella letteratura che tocca i temi della Resistenza, che d’ora in avanti sarà meno assertoria e più problematica, sfumerà le caratteristiche dell’eroismo e i contorni della verità, preferendo piuttosto peccare nella direzione dell’equivoco ideologico che in quella dell’ingenua rappresentazione”, così scrisse Manacorda.

Agnese è una contadina di mezz’età che dalla sua vita tranquilla accanto al marito Palita, si vede costretta a passare dapprima ad una più movimentata esistenza di collaboratrice dei partigiani per approdare poi alla vita da clandestina nelle fila delle truppe della Resistenza.
Il fatto più significativo, quello che stravolge il quotidiano di Agnese è la deportazione del marito, comunista e fiancheggiatore della Resistenza.
La donna inizia così a spostarsi da un paese all’altro per portare cibo, notizie e armi ed in questo modo va avanti per circa sei mesi.
È proprio durante questi mesi che viene a conoscenza della morte del marito, accaduta durante il suo trasporto verso i campi di prigionia.

Si lega a questa scomparsa l’episodio che costituirà un’ulteriore scossone nella vita di Agnese: un soldato tedesco, ospitato dalla famiglia con la quale Agnese e Palita dividevano la casa, una sera, ubriaco fradicio, uccide la gatta nera, unico ricordo di suo marito.
Il fatto è così traumatico da spingere, la notte stessa, Agnese a ucciderlo fracassandogli la testa con il mitra: costretta per questo a scappare, deve necessariamente condurre la vita clandestina dei resistenti partigiani.
Nell’aderire al movimento, Agnese diventa una sorta di mamma di tutti, occupandosi delle azioni comuni, ma necessarie: prepara pasti caldi per coloro che tornano dalla guerriglia, controlla che le provviste siano sufficienti per tutti e condivide con i partigiani sia i momenti di gioia che quelli di dolore, magari per la morte di qualcuno di loro.
Lei, come tutti i resistenti, obbedisce al Comandante e ai suoi ordini, ma dopo la grave sconfitta del suo battaglione partigiano Agnese sarà obbligata a fare la staffetta: verrà uccisa durante un controllo militare tedesco proprio dal maresciallo capo del soldato da lei ucciso, quello per il quale si era trovata costretta a vivere alla macchia.

“L’Agnese va a morire”, di Renata Viganò è opera interessante per diverse ragioni, prima delle quali è data dal fatto che il romanzo, per larghi tratti è autobiografico, visto che l’autrice è stata attiva all’interno della Resistenza Italiana.
Poi c’è la rilevanza e l’originalità dell’ambientazione: piuttosto atipica rispetto ai normali racconti di partigiani in montagna, la storia si svolge tutta nelle Valli di Comacchio, tra i suoi argini argini, le barche, i miasmi e gli acquitrini tipici della pianura.
Infine, la ragione più importante: la protagonista è una donna.

Renata Viganò

Nella guerra totale che, fra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, investì le popolazioni civili, furono soprattutto le donne a resistere e combattere.
Rimaste sole, con i mariti al fronte o catturati come prigionieri di guerra, le donne diventarono protagoniste spesso di una Resistenza senz’armi, fatta di piccoli grandi gesti di sopravvivenza quotidiana: trovandosi oppresse tra fame e solitudine, correvano nei rifugi per salvare i figli, durante i bombardamenti, sopportavano il freddo, facevano la fila per il pane sperando, ogni giorno, di riuscire a sfamarli.

Staffette per il trasporto di armi, cibo e medicinali, o combattenti nelle bande partigiane, le donne rischiavano di essere fermate ai posti di blocco tedeschi e di finire così nelle camere di tortura della polizia nazifascista, luoghi in cui lo stupro era comunemente usato per estorcere confessioni.
Bersagli strategici dei nazisti e dei repubblichini, furono proprio le donne a scontare la maggiore crudeltà di una strategia terroristica fatta di stragi e rastrellamenti, di incendi a paesi e villaggi, di fucilazioni e di torture sui corpi dei prigionieri.
Ma nella disperata lotta per la sopravvivenza, furono molte le donne che decisero di non essere più vittime e si ribellarono a quella cultura di guerra che usava lo stupro come arma per umiliare il nemico sconfitto, riducendo il corpo femminile a bottino e preda degli eserciti, che fossero quelli degli occupanti o quelli dei liberatori, come nel famoso episodio de “La Ciociara”, di Moravia.

Le donne furono le uniche “volontarie a pieno titolo nella resistenza”.

Non sarebbero state infatti obbligate alla fuga e a nascondersi, e furono impegnate in ognuno dei compiti previsti dalla lotta di Liberazione nelle sue varie modalità: nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell’organizzazione sanitaria.
Armate o disarmate, d’ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, antifasciste per scelta personale, familiare o a causa della guerra, incarnarono quell’opposizione che si sviluppò sulla base di una quotidianità fatta di fame, lutti e bombardamenti, dei quali si incolpava a ragione il regime.

Destinate a fare della lotta un elemento determinante della propria esistenza, le donne non offrirono alla Resistenza solo un contributo, ma vi parteciparono attivamente, ponendosi come elemento imprescindibile, ritagliandosi un ruolo da protagoniste principali
Alcune delle loro azioni di massa ottennero risultati estremamente importanti da un punto di vista strategico: si pensi alle donne che nella Napoli occupata del settembre 1943, impedirono i rastrellamenti degli uomini, facendo letteralmente svuotare i camion tedeschi già pieni di ostaggi, e innescando così la miccia dell’insurrezione cittadina.
Altre erano militanti attive dei Gruppi di difesa, creati dalle donne e per le donne quale struttura politica che sulla scorta di un “programma di affermazione di diritti e opportunità”, rivendicava la titolarità delle azioni femminili nella Resistenza.  

Ma si trattava di un’esperienza non priva di contraddizioni: in un universo in cui permaneva la “centralità del paradigma del maschio guerriero”, le donne partigiane sovente imbarazzavano anche coloro che avendole al proprio fianco, avevano combattuto per dar vita a qualcosa di radicalmente nuovo.
È per questa ragione che, a liberazione avvenuta, le donne furono escluse da molte delle sfilate partigiane nelle città redente, e già in precedenza non erano mancate tra i compagni di lotta, le voci che criticavano la scelta femminile di abbandonare il focolare per impegnarsi nella guerra partigiana, cosa che implicava convivenza, promiscuità, assenza di controllo parentale.
Alle donne, in sintesi, si dimostrava gratitudine e rispetto, ma non riconoscimento politico o militare, e men che meno l’uguaglianza.

Questa sottovalutazione riguardò lo svolgersi della lotta, ma anche ciò che accadde dopo la conclusione vittoriosa di essa: pochissime furono le donne alle quali sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente, solo circa 25000 contro 150000 e più maschi, e nonostante un impegno, nei fatti, molto significativo.
Tante donne, presumibilmente, non chiesero neppure questo riconoscimento, mentre a tante, troppe, materialmente esso fu ingiustamente negato.
In riferimento ad una situazione di questo tipo, il romanzo della Viganò ci fornisce un punto di vista interessante sulla fondamentale importanza delle staffette e degli agenti di collegamento all’interno della Resistenza, e non solo delle donne, che molto spesso erano parte attiva della lotta.
La scelta della protagonista è una sfida tatticamente riuscita: una donna non avvenente, fisicamente sfiorita, piuttosto matura, non attira sospetti, essendo peraltro piuttosto scorbutica, con poche doti, se non l’abnegazione che mette al servizio di una idea.

Una scena del film L’Agnese va a morire, girato nel 1976 e diretto da Giuliano Montaldo.
L’attrice Ingrid Thulin interpreta Agnese

Perché nonostante tutti i difetti di Agnese, risulta evidente la chiarezza con cui è disposta a lottare per ottenere un mondo migliore, è il simbolo di qualcosa di più grande, di più importante, che si evidenzia meglio nel testo proprio quando si annulla come personaggio, attraverso l’accumulo di virtù come la semplicità, l’umiltà, l’abnegazione.
Vive un grande fatto storico e si azzera come donna perché incarna una simbologia del sacrificio, un mito destinato a compiersi con la sua morte:

Noi non finiamo. Siamo troppi. Più ne muore, più ne viene. Più ne muore, più ci si fa coraggio. Invece i tedeschi e i fascisti quelli che muoiono, si portano via anche i vivi”.

Il carattere di Agnese rivela la sua origine contadina, appare silenziosa, ruvida e scontrosa, i suoi sentimenti sono istintivi: è generosa e ospitale.
Anche l’adesione alla Resistenza sembra dapprima solo istintiva, non motivata, ma a poco a poco lei acquista anche consapevolezza politica; il lavoro nella Resistenza farà “crescere” Agnese. E se il romanzo inizialmente privilegia l’odissea personale della donna, nella sua conclusione la protagonista è parte di un’azione corale.

Un’ulteriore e interessante interpretazione della funzione di Agnese venne proposta da Sebastiano Vassalli, per il quale

la donna, nell’assistere i partigiani, fa per loro tutto ciò che farebbe una buona madre; ma non è madre e forse non è nemmeno buona. Lo sarebbe senz’altro se non ci fosse l’idea di assorbire tutte le sue energie, a renderla quasi incapace di affetti. Però non è neppure cattiva: anche nel momento culminante del dramma, l’uccisione del tedesco, non è tanto la rabbia a spingerla, quanto piuttosto la certezza che così deve avvenire”.

L’Agnese non è, inoltre, solo la protagonista del romanzo, ma è soggetto e oggetto del sacrificio: lei è reale sotto certi punti di vista ma disumana nella sua grandezza, e per la sua capacità, spinta fino all’assoluto, di annullarsi nei fatti storici.
L’Agnese va a morire è diviso in tre parti e queste, a loro volta, in capitoli, la cui lunghezza media è di una decina di pagine, talora con delle spezzature interne la cui funzione è quella di accorciare il racconto per evitare particolari non interessanti. Si ha talora l’impressione di trovarsi davanti a una serie di racconti, nonostante vi si compia svolgimento di una storia: l’opera, però, deve essere letta nella sua completezza.

Sul piano formale, nel romanzo la descrizione sembra predominare sulla narrazione; le parti narrative a loro volta prevalgono, quantitativamente, su quelle dialogate, che sono brevissime.
Una delle caratteristiche costanti dello stile della Viganò è l’uso di frasi molto brevi, al fine di creare un effetto realistico, e ci si chiede il motivo di questa posizione di privilegio riservata alla notazione oggettiva.
Ciò che gli intellettuali avevano sempre interpretato attraverso un registro alto, ovvero le azioni eroiche compiute da gente semplice, durante la Resistenza, le si riscopriva ora nella loro reale radice di quotidianità: nel romanzo, le frasi semplici si trovano spesso usate nel momento della massima tensione drammatica.
Si voleva creare, quindi, un divario tra la brevità della scrittura e la grandezza della passione che veicolava.
Trascrivendo l’eroismo in azioni puramente fisiche si suggerisce infatti che dietro la palese semplicità di quelle azioni stanno valori assai più nobili.

Renata Viganò con le mondine di Bentivoglio, 25 aprile 1952

Sul piano linguistico la Viganò rifiutò l’enfasi oratoria col suo carico di retorica e propose un lessico povero, con una doppia finalità: da un lato rendere accessibile il romanzo a strati più vasti di lettori, e dall’altro evidenziare come i protagonisti della Resistenza appartenessero in molti casi alle classi subalterne.
L’autrice utilizzò quindi il registro del parlato-informale, con solo qualche voce dialettale per non far perdere al lettore il valore nazionale della guerra di Liberazione.

Era la lingua quotidiana con un’unica concessione al dialetto, nei nomi dei partigiani: Magòn, Cappùcc, Piròn, l’Agnese, per rafforzare il momento di unione, di solidarietà. Di questo ultimo aspetto una controprova era data dal fatto che i fascisti non possedevano mai un nome, perché non erano degni di passare alla storia.

A partire dalla fine degli anni ’70, agli studi sulla storia delle donne nella Resistenza si intrecciò la storia di genere e quella del femminismo, e questo snodo può anche essere riferito al romanzo per alcuni buoni motivi: perché qui la protagonista è l’Agnese, partigiana suo malgrado e per l’unanime riconoscimento attribuito alla Viganò per la sua attività di scrittura unita alla sua intensa attività politica e per quel tanto di non detto che riguarda la presenza femminile nella Resistenza.

Oggi con la storia orale, con il recupero della memoria, con l’apporto di Istituti della Resistenza e di associazioni di storiche, si sono avviati studi e approfondimenti in questa direzione.
Le ricerche sono comunque in buona parte ancora in itinere, ma alcune di loro ci offrono comunque spunti interessanti di riflessione.

Per esempio lo storico Ernesto Galli della Loggia ritiene che,

“sullo sfondo del conflitto con regimi costruiti sul mito della virilità, si sviluppi un’immagine della seconda guerra mondiale come guerra ‘femminile’ di contro al carattere maschile della prima, e questo proprio a partire dai gruppi clandestini e della lotta partigiana, dove vicinanza e familiarità favoriscono valori e comportamenti libertari ed egualitari nel rapporto uomo-donna.

È indubbio infatti che la guerra fu un evento totale che impegnò a fondo la quotidianità di ciascuno; è da questa demilitarizzazione del confronto bellico che trae origine il carattere ‘femminile’ della seconda guerra mondiale”.
Su questa presenza ci sono però molti vuoti, c’è un vasto non detto e soprattutto non pensato.
Sarebbe importante affrontare storicamente lo studio delle presenze femminili ribelli al nazifascismo e analizzare in profondità l’esperienza delle partigiane inserite nel microcosmo della banda e costrette alla clandestinità, o il loro rapporto con altre donne partecipi del clima eccezionale della Liberazione.
Così come non è casuale che la partigiana ideale, il modello della resistenza femminile, sia la protagonista de “L’Agnese va a morire”, ossia una donna ingenua, ruvida ma materna e in età.

Per molte partigiane, comunque, il ritorno alla normalità, dopo il 1945, fu difficile, e non solo per la delusione sociale, egalitaria e politica.
Nell’esperienza fatta si erano varcati i confini della famiglia, delle amicizie e del paese, superati i limiti del proprio sesso, delle condizioni date loro da sempre.
Infatti, come scrisse in una sua poesia Renata Viganò, per entrare nella Resistenza occorreva uscire “fuori della vita”, ma il difficile era poi rientrare nella vita di tutti i giorni per accorgersi poi che si era ancora una persona di serie inferiore.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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