Giani Stuparich, il regalo che mi fece la RAI 

Appartengo ad una generazione fortunata, quella dei baby boomers, che ha potuto contare su un’infanzia protetta dalle migliori condizioni che l’Italia abbia avuto nel corso della sua storia.
Nascere a metà degli anni Cinquanta, me lo devo riconoscere, si è rivelata una fantastica idea, una scelta intelligente, anche se indubbiamente per la sua riuscita ha avuto necessità della incisiva collaborazione dei miei genitori.
Dopo quel primo colpo di genio, debbo ammettere onestamente di non aver più dimostrato in seguito altrettanta lucidità, ma quella impennata iniziale mi è bastata per un bel po’.
Essere bambino all’inizio degli anni Sessanta ha significato infatti vivere nell’epoca della piena occupazione, della crescita economica tumultuosa e di un tale miglioramento del livello di vita collettivo da far emergere per la prima volta e per quasi tutte le categorie sociali, anche un diritto al tempo libero, alle vacanze, alle distrazioni e ai consumi culturali, oltre che materiali.

Bambini negli anni Sessanta

Non basta ancora: un altro indubbio vantaggio del quale le nostre famiglie e noi boomers abbiamo potuto godere, è stato vivere in un sistema mediatico, quello televisivo in particolare, molto, ma molto meno invasivo rispetto a quello odierno, un modello comunicativo globale che compensava il difetto di essere un po’ bigotto ed ingessato, con una attenzione particolare alla qualità dei prodotti che mandava in onda, una cura che non sarebbe mai più stata la stessa.

Il monoscopio della RAI

Era l’epoca nella quale fior di scrittori ed intellettuali ideavano sceneggiature, curavano trasmissioni a sfondo culturale e addirittura si occupavano dei caroselli, ovvero di quegli spazi pubblicitari che non chiamandosi ancora spot, contenevano piccole, intriganti narrazioni, mentre registi di vaglia dirigevano gli sceneggiati televisivi che, non chiamandosi ancora fiction, al posto di tuberi e tuberesse palestrati e del tutto privi di espressione, davano lavoro a superbi attori di teatro.

Carosello

Le scelte che questi programmi ti mettevano spesso davanti comprendevano la trasposizione televisiva sia di capolavori letterari riconosciuti, che di opere molto meno popolari, ma di pari qualità e raffinatezza.
Così capitava che nel mondo coloratissimo e pop di quegli anni, si trascorressero serate in bianco e nero, ricevendone stimoli tali che riuscivano comunque a colorare il bagaglio delle nostre personalità di vicemocciosi, che andavano intanto costruendosi.

Nel 1977, già incrostato completamente dal vizio della lettura, incontrai per altre vie lo scrittore che voglio presentarvi. Fu, come ho detto, moltissimi anni fa,  a causa di uno sceneggiato televisivo, anzi di un film per la tivù che si chiamava “Un anno di scuola”, girato dal regista Franco Giraldi.

Una scena di “Un anno di scuola”, girato dal regista Franco Giraldi.

Fu come ricevere un regalo, uno di quelli che ti costringono ad un’eterna gratitudine.
La storia, ambientata nel 1909, raccontava appunto l’ultimo anno, l’ottavo, di una classe di un liceo ginnasio maschile di Trieste nella quale veniva inserita, dopo aver puntigliosamente sostenuto un apposito esame di ammissione,  una ragazza.
Edda Marty, la giovane protagonista mostrava una personalità inconsueta per l’epoca, convinta che quel passo coraggioso le avrebbe garantito maggior rispetto e fornito migliori possibilità per un futuro di lavoro indipendente.
Già pervasa da una maturità da donna, Edda aveva una personalità complessa e anticonformista, decisa ma capace di scoprirsi sentimentale.

Il suo arrivo nel liceo maschile veniva narrato come una specie di acceleratore di eventi, uno scatenatore di passioni, amori che il suo fascino naturale evocava inevitabilmente in moltissimi dei suoi compagni.
La fine di quell’anno di scuola che li avrebbe accompagnati alla soglia della vita adulta, celebrata dagli esami, li avrebbe tutti indelebilmente trasformati, trovandosi ormai ciascuno di essi ad un passo dalla propria scelta di vita.
Il racconto si fermava su quel confine sociale ed interiore, lasciando al tempo il duro compito di far pesare sui protagonisti la distanza dai fatti e fargli dimenticare sia i momenti di gioia spensierata che i dolorosi dispiaceri vissuti.
Quel bel lavoro televisivo, una volta che ebbi scoperto che traeva origine da un romanzo omonimo, mi spedì direttamente in libreria.

Feci così conoscenza con Giovanni, “Giani”, Stuparich e finalmente seppi qualcosa di più su di lui.
Era nato il 4 Aprile 1891 a Trieste, che all’epoca era ancora il porto dell’Impero austro-ungarico, da padre lussignano, Marco Stuparich, e da Gisella Gentilli, triestina di religione ebraica.

Giani Stuparich, con la divisa dei Granatieri di Sardegna, con la madre Gisella

Terminati gli studi si era poi iscritto all’Università di Praga. Tra le prime notizie che riuscii a reperire sul suo conto, la più toccante per me fu che l’incantevole racconto che, visto nella riuscita trasposizione per lo schermo e poi letto avidamente, mi aveva così tanto colpito, era un’opera pressoché autobiografica.
Il liceo descritto era  realmente quello frequentato da Stuparich ed oltre a lui, ospitava alcuni personaggi che in futuro si sarebbero rivelati importanti per la cultura triestina ed italiana.
Scipio Slataper, ad esempio, scrittore, scomparso precocemente, Alberto Spaini, che sarebbe diventato anche lui giornalista e scrittore ed altri ancora.
Anche l’intreccio amoroso che nel romanzo accostava il timido e riflessivo Antero, autoritratto letterario dello stesso autore, ad Edda, trova riscontro nella storia d’amore realmente vissuta da Stuparich con la compagna di ginnasio Maria Prebil, ispiratrice del personaggio della ragazza.

Ad un anno dalla sua iscrizione all’Università di Praga, e seguendo le orme di molti altri intellettuali triestini, come ad esempio Slataper, anche Giani finì per spostare a Firenze la sede dei suoi studi universitari e in quell’Ateneo, nell’aprile 1915, si laureò in letteratura italiana con una tesi su Niccolò Machiavelli.

Allo scoppio della Guerra nel 1915, Stuparich condivise con molti dei suoi amici e sodali la scelta, irredentista e rischiosa, di arruolarsi volontario per combattere nell’esercito italiano, pur essendo suddito austriaco. Divenne Sottotenente nel 1º Reggimento dei Granatieri di Sardegna, insieme al fratello Carlo e all’amico Slataper.

Giani Stuparich

Combattè prima sul Carso, presso Monfalcone e poi sul Monte Cengio.
Due volte venne ferito, venne catturato  e poi internato, in successione, in cinque campi di concentramento austriaci.
Molti volontari della sua stessa generazione, come Scipio Slataper, autore dello splendido “Il mio Carso” e che morì in combattimento sul Monte Podgora, non avrebbero più fatto ritorno dal conflitto.

Scipio Slataper a sinistra con il fratello Guido

Anche Carlo Stuparich, suo fratello, fu tra quelli destinati a non sopravvivere alla guerra: si tolse la vita, infatti, per non essere catturato dagli austriaci e impiccato come disertore.

Carlo Stuparich

Alla fine del grande conflitto, Stuparich tornò a Trieste e dopo qualche tempo sposò Elody Oblath.
Dal loro matrimonio nacquero tre figli, Giovanna, Giordana e Giancarlo.

Elody Oblath, scrittrice, futura moglie di Giani in un ritratto del 1911

Lui aveva trovato impiego come professore di italiano al liceo Dante Alighieri e per vent’anni si dedicò principalmente all’insegnamento.
Ma già da quando combatteva in trincea, nel 1915, Stuparich aveva iniziato a collaborare con alcuni giornali.
I suoi primi articoli, usciti su La Voce di Prezzolini, riguardavano i Cechi, gli Slavi e la situazione dell’Europa centrale nell’Impero austroungarico.
Nel 1925 pubblicò  “Colloqui con mio fratello”, definito da Italo Svevo: “un libro che pare un tempio”.
Nel 1929 ci fu l’uscita dei suoi “Racconti”, tra i quali era compreso “Un anno di scuola”.
Negli anni seguenti vennero pubblicati: “Guerra del ’15”; “Donne nella vita di Stefano Premuda” e “La Grotta”, un racconto lungo con il quale vinse il primo premio per l’Epica alle Olimpiadi di Londra del 1948.

Nel 1941 pubblicò il suo primo romanzo, “Ritorneranno” e l’anno successivo diede alle stampe “L’isola”, considerato da molti critici il suo capolavoro e messo tra le cento pagine più belle del Novecento.

Durante il fascismo rifiutò la tessera del partito non prendendo parte ad alcuna manifestazione. La sua condizione naturalmente era resa precaria dalla sua ebraicità.
Nel 1944 il rischio peggiore sembrò concretizzarsi e Stuparich, a seguito di una delazione, venne internato insieme alla moglie e alla madre nella Risiera di San Saba, l’unico campo di sterminio su territorio italiano.
Fortunatamente fu rilasciato dopo qualche giorno in seguito ad un interessamento del vescovo Antonio Santin e del prefetto di Trieste, Bruno Coceani.
Avvicinatosi successivamente alla Resistenza italiana, entrò a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale e gli venne offerto a Trieste l’incarico alla Sovrintendenza ai monumenti. Nel 1946 fondò il Circolo della Cultura e delle Arti.

Giani Stuparich in una foto degli anni Cinquanta

Nel secondo dopoguerra riprese la professione di giornalista continuando anche il suo impegno di scrittore, tenendo sempre alto il suo profilo politico e impegnandosi in presentazioni e conferenze in tutta Italia. Mantenne rapporti cordiali coi maggiori intellettuali e scrittori italiani, di molti dei quali fu amico , condividendone l’impegno civile.
Erano nomi illustri come quelli di Umberto Saba, Biagio Marin, Piero Calamandrei.

Nella sua veste di giornalista collaborò coi quotidiani La Stampa di Torino e Il Tempo di Roma. Scrisse numerosi articoli sulla questione di Trieste e della Venezia Giulia.
Morì a Roma il 7 aprile 1961.

E in questi giorni nei quali la politica italiana, con l’abituale mancanza di decoro, studia il modo di dare in ostaggio l’Ente Televisivo Nazionale ai poco eleganti governanti del momento, io non posso che riandare col pensiero a quella Rai democristiana, codina, ipocrita e paludata, che tuttavia, in virtù del personale impiegato e della conseguente qualità delle trasmissioni prodotte, era in grado di fare spesso

regali particolarmente preziosi ai suoi telespettatori.

Giani Stuparich

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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