Nathaniel Hawthorne, un breve ricordo

Ho sempre pensato che il racconto sia il genere letterario più rivelatore della statura di uno scrittore. Riuscire a trasmettere in poche pagine il pathos di una storia, così efficacemente da rendere  inutile chiedersi quale sia in essa il peso rispettivo di forma e contenuto, di stile e trama, è un affare da grande scrittore.
Non necessariamente indispensabile come requisito, visto che molti autori di grandi romanzi non sono stati altrettanto efficaci nel genere racconto, la capacità di essere sorprendente ed esaustivo nello scrivere una short story, resta comunque un parametro utile a stabilire o a confermare la qualità e l’eventuale grandezza di uno scrittore.

Ho sempre avuto una predilezione per i racconti e leggerne moltissimi ha contribuito decisivamente al formarsi del mio palato di lettore, abituandolo in fretta a valutarne e gustarne la caratura. 

L’eco di una storia breve, magnificamente scritta, e le sue conseguenze emotive ed intellettuali, possono essere fortissime e molto durature: un racconto di poche pagine può risultare più indimenticabile di un romanzo. 

Noi conosciamo Nathaniel Hawthorne soprattutto per quel grandissimo romanzo che è “La lettera scarlatta”, colonna imprescindibile della letteratura americana dell’Ottocento e affresco dei costumi implacabili della società puritana, ma non so quanti lettori abbiano avuto la felice ispirazione, o la fortuna, di misurarsi con alcuni dei suoi racconti.

Molti anni fa mi capitò di leggere un libricino che conteneva tre storie brevi di Hawthorne, pubblicato dall’editore Passigli col titolo “La figlia di Rappaccini”. 

Mi incantò: con grazia, eleganza, incisività e stile, quelle storie mostravano alcuni possibili aspetti del mutevole rapporto tra uomo e natura: tre racconti, insomma, ed altrettanti gioielli.

Tenendo presente che da tempo avevo letto “La lettera scarlatta” ed un altro paio di suoi romanzi, Hawthorne, nella mia considerazione, guadagnò un posto saldo tra i migliori scrittori della letteratura internazionale. 

Questa valutazione venne ribadita quando, grazie alle scelte di Jorge Luis Borges, che negli anni Settanta suggerì a Franco Maria Ricci, editore raffinatissimo parmense, i titoli da inserire nella sua prestigiosa collana “La Biblioteca di Babele”, potei leggere “Wakefield”, un altro straordinario racconto di Hawthorne. Poche pagine per una storia in cui i vuoti diventano protagonisti assoluti: un uomo, semplicemente non facendovi ritorno, lascia improvvisamente la moglie.
Prende in affitto un appartamento vicino, dal quale di nascosto, spierà la vita della donna senza di lui. Dopo vent’anni, quando ormai la sua morte presunta sarà stata proclamata e divisa la sua eredità, un giorno farà ritorno in quella casa, senza una spiegazione, come se l’avesse lasciata da poco per una normale incombenza, e da quel momento fino alla fine della sua vita, sarà un marito devoto.

Il suggerimento di lettura, già palese a questo punto, sarà forse più stuzzicante se accompagnato da un breve cenno sulla vita di Nathaniel Hawthorne. 

Nathaniel Hawthorne

Secondogenito di Nathaniel Hathorne ed Elizabeth Clare Manning, lo scrittore nacque a Salem nel 1804. La famiglia discendeva da William Hathorne che nel 1830 lasciò l’Inghilterra per stabilirsi nelle colonie americane.
Il figlio di questi John fu uno dei giudici del famoso Processo alle streghe di Salem, ultimo atto del genere compiuto da quella società puritana.
Fu probabilmente per prendere le distanze da quell’antenato che, scegliendo un nome d’arte, Nathaniel inserì una W, differenziando il suo cognome da quello di famiglia.

A soli quattro anni perse il padre, Capitano di Marina, morto di febbre gialla nel 1808.
Nel 1818, dopo un breve soggiorno nel Maine, dove la madre aveva trasferito la famiglia, periodo per lui di incontro con la natura, fece ritorno a Salem per compiere gli studi superiori.

Nathaniel Hathorne Senior, il padre di Nathaniel Hawthorne

Dopo qualche tempo, finanziato da uno zio, frequentò il Bowdoin College a Brunswick, tornando quindi ancora una volta nel Maine. Ebbe come compagni di studi alcuni personaggi divenuti in seguito importanti nella società americana del tempo: Henry Wadsworth Longfellow, John Brown Russwurm ed il futuro presidente Franklin Pierce.

Dopo essersi laureato Hawthorne tornò a vivere a Salem e nel 1836 trovò un posto di redattore presso l’American Magazine of Useful and Entertaining Knowledge di Boston.

Viveva nella casa familiare, da lui definita “il nido del gufo”.
Di quei tempi scrisse: “Non vivevo, ma sognavo di vivere”.

Nel 1837 pubblicò la sua prima opera, una raccolta dal titolo “Racconti narrati due volte”. L’anno successivo si fidanzò con l’illustratrice Sophia Peabody.
La donna aderiva a quel movimento filosofico chiamato “Trascendalismo”, che partendo dall’idealismo trascendentale di Kant, si opponeva alle correnti razionaliste.
Hawthorne aderì a quel movimento, risiedendo con la sua fidanzata in una delle sue comunità, Brook Farm, che, deluso dall’esperimento, lasciò dopo un solo anno.
Quell’esperienza influenzò, anni dopo, la stesura del suo “Romanzo di Valgioiosa”

Sophia Amelia Peabody

Dopo il matrimonio con Sophia, avvenuto nel 1842, si stabilì con lei a Concord, in Massachussets, nella Old Mans, in cui vissero per tre anni, avendo come vicini gli scrittori Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, anch’essi influenzati dal trascendalismo, coi quali ebbe rapporti di amicizia e di latente competitività. 

Nella casa di Concord Hawthorne scrisse i racconti pubblicati poi in raccolta, col titolo di “Muschi da una vecchia canonica”.

La casa di Hawthorne a Concord

Già da qualche anno assunto alla Dogana di Salem, nel 1846 lon scrittore vi fu nominato supervisore.
Quegli incarichi, legati strettamente allo spoil system americano, duravano finché si rimaneva nelle grazie politiche di chi era chiamato ad amministrare, così, dopo le elezioni presidenziali del 1848, che imposero un cambio del personale di nomina politica, le sue simpatie democratiche gli fecero perdere il posto.

Il poeta/editore James Thomas Fields, Nathaniel Hawthorne e l’editore William Davis Ticknor fondatore della omonima casa editrice

L’inizio della sua carriera di romanziere fu però così travolgente da garantirgli, dal 1850 in poi, di vivere della sua professione di scrittore. 

“La lettera scarlatta”, sua opera più acclamata, vendette infatti 2500 copie in tre giorni e dovette essere più volte ristampata.

Ambientato nella Nuova Inghilterra dall’ossessiva mentalità puritana, vede la protagonista Hester Prynne concepire e dare alla luce una bambina in assenza del marito. La donna, vittima di una società retrograda,  viene marchiata sul petto con una A, a rappresentare la sua natura di adultera, e, rifiutandosi di rivelare il nome del padre di sua figlia, lotterà per conquistarsi un’esistenza di pentimento e dignità. 

Nathaniel Hawthorne

Il 1850 fu per Hawthorne anche l’anno del suo trasferimento a Lenox, nel Belkshire, non distante dal posto in cui Herman Melville aveva acquistato una fattoria.
I due scrittori divennero immediatamente amici e l’ammirazione di Melville per Hawthorne, da lui paragonato a Shakespeare, fu testimoniata dal suo dedicargli il capolavoro “Moby Dick”. 

Herman Melville

Nel 1852, lo scrittore aiutò il suo vecchio compagno di studi e amico Franklin Pierce redigendo la sua biografia per la campagna presidenziale.
Quando Pierce fu eletto presidente degli Stati Uniti, Nathaniel venne nominato Console a Liverpool.
Dopo la scadenza del suo mandato, nel 1857, Hawthorne, in compagnia della sua famiglia, si dedicò ad una serie di viaggi in  Francia e in Italia.

Tornato a Concord, nel 1860 pubblicò il romanzo “Il fauno di marmo”.
Da quel momento in poi, uno stato di salute incerto, gli rese difficile lavorare e molte opere letterarie da lui iniziate rimasero incompiute.

Nathaniel Hawthorne

Morì nel sonno il 19 maggio del 1864, durante una gita fatta con Pierce alle White Mountains. Fu sepolto nello Sleepy Hollow Cemetery di Concord. 

Influenzato senza dubbio da una formazione puritana, Hawthorne, che in quell’ambito ambienta gran parte delle sue opere, seppe tuttavia distaccarsene, scegliendo un diverso taglio etico. 

Con la sua enorme capacità allegorica e simbolica di dar risalto a personaggi, stati d’animo e scenari sociali, ha saputo costruire una sorta di letteratura gotica americana che lo mette al fianco di un altro grandissimo scrittore: Edgar Allan Poe.   

Edgar Allan Poe

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.


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