Di tanto in tanto, nel flusso ininterrotto della storia letteraria compaiono figure così misteriose ed insolite da essere difficilmente catalogabili, voci tali da dare la stura a mille congetture sul loro conto, e da alimentare studi biografici arricchiti molto più da leggende che da fatti accertati o documentati.
Pochissimi hanno sentito nominare questi letterati.
Oltretutto, la pratica invalsa da noi di varare nel tempo riforme scolastiche che hanno per effetto la riduzione della didattica, taglio sempre smentito a parole, ma che che sembra essere la migliore assicurazione di vita eterna per le nostre mediocri classi dirigenti, ha proporzionalmente ridotto anche la già scarsa possibilità ( o dovremmo forse dire, il rischio?) che gli italiani conoscano le figure più eccentriche e meno ortodosse della loro letteratura.
Se, come risulta dalle dolorose statistiche sulla nostra condizione culturale, pare già arduo per una quota considerevole della popolazione sapere chi fosse Parini, sembrerà addirittura impossibile che possa avere una cognizione anche vaga di chi siano stati Guittone, Cecco Angiolieri, Ruzante, De Roberto o, che so, Tarchetti, dico dei nomi a caso, tanti ce ne sarebbero da menzionare.
Figurarsi quanti possono conoscere la figura di un barbiere letterato che nel Quattrocento faceva poesia popolaresca, affidandosi alla parodia e al nonsense, un personaggio, insomma, che sembra anticipare di svariati secoli la contemporaneità in letteratura.
Eppure Domenico Di Giovanni, detto Burchiello, proprio per la sua modernità ed eccentricità meriterebbe di essere conosciuto, o perlomeno ricordato.
Nacque a Firenze nel 1404, figlio di un legnaiolo e di una filatrice.
I modestissimi mezzi familiari gli impedirono di ricevere un’istruzione adeguata, così trascorse un’infanzia brada, tra scherzi e burle, ma curioso com’era ed intelligente di natura, fu un brillante autodidatta.
Non avendo altre possibilità fece pratica da barbiere, aprendo infine una sua bottega in Via Calimala.
Ed è in questo particolarissimo contesto che la personalità di Domenico venne fuori prepotentemente.
La sua attitudine poetica ed il suo carattere giocoso e sferzante resero quella bottega di barbiere un ritrovo di artisti, letterati ed umanisti che col padrone di casa avevano in comune posizioni politiche antimedicee.
Tra questi frequentatori abituali si ricorda ad esempio il grande Leon Battista Alberti, che ponendosi addirittura in tenzone poetica col barbiere, scrisse :”Il Burchiello sgangherato, sanza remi”.
Nella letteratura della Firenze di quell’inizio del Quattrocento, oltre al peso decisivo delle forme poetiche “alte”, si sentiva forte quello della tradizione della poesia giocosa o burlesca, e, contrariamente a quello che accadde nei secoli successivi, la letteratura colta era allora in grado di dialogare con quella popolaresca.
Barbiere di professione, dunque, Di Giovanni in quella sua tana ben frequentata si divertiva a comporre sonetti che se da un lato si ponevano nel solco della già citata produzione comico-realistica duecentesca e trecentesca, dall’altro dimostravano una tale carica innovativa da fare scuola.
“Burchia” era chiamata una imbarcazione in cui le merci venivano caricate un po’ alla rinfusa, così come veniva, e così,“alla burchia”, venne definito il modo di poetare praticato dal nostro barbiere, una forma di verseggiare in cui si accostavano termini lontani tra loro per origine, che finivano per produrre inedite associazioni di idee e di parole.
I sonetti di Domenico, presto ribattezzato perciò Burchiello, vedevano il susseguirsi di parole e di immagini, a volte senza nesso apparente, di materiali alti e bassi, di parlato aulico e di gergo quotidiano, di ardite metafore che producevano suoni evocativi.
Era una poesia che oggi riconosciamo modernissima, anticipatrice e tendente all’assurdo, che privilegiando gli elementi caricaturali e irrazionali, finiva per contrapporre alla cultura umanistica, fondata sulla conoscenza, sulla ragione e sulla parola sensata, l’immagine di una realtà caotica, grottesca e, in definitiva, inconoscibile.
E della pedanteria di certi umanisti, grammatici o predicatori, Burchiello non perdeva occasione di fare parodia, come si può notare in uno dei suoi più celebri sonetti:
Nominativi fritti e mappamondi
e l’arca di Noè fra duo colonne
cantavan tutti “Chirieleisonne”
per la ’nfluenza de’ taglier mal tondi.
La luna mi dicea “Ché non rispondi?”
et io risposi “I’ temo di Giansonne,
però ch’i’ odo che ’l diaquilonne
è buona cosa a fare i cape’ biondi”.
E però le testuggine e’ tartufi
m’hanno posto l’assedio alle calcagne
dicendo “Noi vogliàn che tu ti stufi”
e questo sanno tutte le castagne;
perché al dì d’oggi son sì grassi e gufi
c’ognun non vuol mostrar le suo magagne.
E vidi le lasagne
andare a Prato a vedere il sudario,
e ciascuna portava lo ’nventario.
In altri componimenti prevalevano toni più realistici, come quelli ispirati ad un suo periodo di prigionia o quelli più quotidiani che ne ritraevano le giornate.
Particolarmente felici erano poi alcuni sonetti in cui Burchiello mette a nudo le pulsioni letterarie contrapponendole alle necessità del suo mestiere.
Nel celebre sonetto “La poesia contende col rasoio” le due realtà che connotavano la vita dell’autore, la poesia ed il rasoio da barbiere, se lo contendevano, reclamandone ciascuna la totale dedizione.
La poesia contende col rasoio
e spesso hanno per me di gran quistioni,
ella dicendo a lui «Per che cagioni
mi cavi el mie Burchiel dello scrittoio?»
E lui ringhiera fa del colatoio
e va in bigoncia a dir le suo ragioni,
e comincia «Io ti priego mi perdoni,
donna, s’alquanto nel parlar ti noio:
si non fuss’io e l’acqua e ’l ranno caldo
Burchiel si rimarrebbe in sul colore
d’un moccolin di cera e di smeraldo».
Et ella a lui «Tu se’ in grand’errore:
d’un tal disio porta il suo petto caldo
ch’egli non ha in sì vil basseza il core».
Et io «Non più romore,
ch’e’ non ci corra la secchia e ’l bacino,
ma chi me[glio] mi vuol mi paghi el vino».
In altre composizioni si mettevano sotto tiro città intere o personaggi di cui si son perse le tracce, risultando oggi sconosciuti, cosa che, insieme alla nostra ignoranza di fatti ai quali nei suoi versi si allude, rende alcuni sonetti di difficile interpretazione.
Il successo della poesia burlesca di Burchiello rinvigorì tanto il filone antipetrarchesco che il poeta barbiere venne preso a modello da una frotta di imitatori anonimi.
Questo correre ricco ed anonimo a mettersi per così dire “sotto il marchio” del Burchiello, ha reso in molti casi arduo distinguere i suoi sonetti originali da quelli degli imitatori.
Erede della poesia comico-burlesca di Rustico di Filippo, di Folgore da San Gimignano e del geniale Cecco, Burchiello fu comunque un innovatore, premessa letteraria per chi, come Francesco Berni, ne seguirà, in un certo senso, le orme nel Cinquecento.
In molte vite di artisti, le vicende biografiche finivano per rivelarsi molto più dure di quanto le loro doti avrebbero meritato e di quanto la fama raggiunta avrebbe potuto far prevedere.
Così fu per Burchiello.
Un carattere irregolare come il suo doveva necessariamente avere un riflesso forte sullo svolgersi della sua esistenza, condizionandola pesantemente.
La biografia del poeta, infatti, ci parla di una sua prima fuga da Firenze nel 1434, motivata forse dal ritorno al potere di Cosimo De’ Medici, detto il Vecchio, che avrebbe così punito, con l’esilio, le sue posizioni di oppositore della casata.
Altre fonti, tuttavia, parlano di una sua ritirata precipitosa, dovuta a gravi problemi economici e ai peggiorati rapporti con creditori e strozzini.
Burchiello dunque fuggì dalla sua città natale e riparò a Siena dove visse comunque un periodo assai travagliato:
Nel 1439 finì in galera, sembra per furto, e venne condannato ad altre pene pecuniarie anche per questioni legate al suo mestiere e a faccende con donne.
Alla fine, nel 1445, decise di tresferirsi a Roma per aprire un’altra bottega di barbiere, ma nel 1449, dopo qualche anno trascorso nella più squallida miseria, vi morì.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.