I sei Quartetti per archi di Béla Bartók occupano una posizione dominante non solo nell’opera del loro autore ma anche nella produzione quartettistica contemporanea e possono essere considerati un’espressione fra le più alte e compiute della musica da camera del nostro secolo, per quanto riguarda la ricerca linguistica, l’invenzione formale e la sensibilità timbrica. Al pari degli ultimi quartetti di Beethoven, essi si presentano come un ciclo organico e hanno una funzione riepilogante di tutta una lunga serie di esperienze stilistiche. Alla fine degli anni ’20, Bartók viveva a Budapest e cominciava a essere conosciuto in tutto il mondo. Nonostante questa fama, però, rimase una persona intensamente riservata: non amava insegnare o esibirsi in concerto, anche se doveva fare entrambe le cose per sostenere la famiglia.
Parlava e scriveva molto poco delle sue composizioni, preferendo lasciare che fosse la musica a rappresentarlo. L’unico argomento che gli fece illuminare gli occhi fu stata la raccolta e lo studio della musica popolare ungherese, rumena, bulgara, occupazione che lo aveva impegnato fin dalla sua giovinezza e che nel corso della sua vita continuò ad essere centrale. Secondo il pensiero di Bartók, la musica popolare rivestiva un interesse più che scientifico: era il seme vivificante senza il quale non c’era modo di procedere nella creazione musicale, ed il suo ideale stava nell’interiorizzare i ritmi e i contorni delle melodie popolari che raccoglieva, al un punto che le sue composizioni ne fossero il risultato naturale. Di ritorno da una tournée concertistica negli Stati Uniti, Bartók scrisse tra luglio e settembre del 1928 il Quarto Quartetto, eseguito per la prima volta a Budapest il 20 marzo 1929 dal Quartetto Waldbauer-Kerpely. Considerato da molti tra le sue più grandi composizioni, questo pezzo musicale rappresenta in un certo senso un caso estremo.
Tesa, parsimoniosa, quasi geometrica nei suoi argomenti, quella del Quartetto è una musica che non spreca una sola nota, pur trasmettendo una sorta di esuberanza ritmica. Tutto nel pezzo tradisce l’ossessione di Bartók per le immagini speculari e per la simmetria, segno distintivo del suo stile maturo. In ogni movimento si sente una voce si ascolta una melodia, a cui risponde la stessa melodia capovolta in un’altra voce. Altrove ci sono abbondanti esempi di un motivo a cui si risponde con il suo duplicato su un tono diverso, echeggiato nel quartetto. Ogni tanto ad una melodia risponde anche il suo retrogrado, ovvero la stessa melodia suonata al contrario. Questi giochi contrappuntistici non sono affatto esclusivi di Bartók tra i compositori, ma hanno saturato questa musica in misura insolita: l’ossessione per la simmetria, l’imitazione e il riflesso speculare è così onnipresente da definire virtualmente il suo stile in questi anni.
E nemmeno la ricerca della simmetria è confinata ai singoli movimenti: l’intera impostazione in cinque movimenti del quartetto è simmetrica. Bartók interpretò il pezzo in una “forma ad arco”, proprio come fece più tardi nel Quinto Quartetto e nel Concerto per orchestra, cioè, accoppiò idealmente il primo movimento con il quinto movimento ed il secondo con il quarto, restando il terzo movimento ad ergersi ergeva da solo come pietra angolare dell’opera. I movimenti accoppiati condividevano varie caratteristiche: paesaggio sonoro di base, materiale motivico e status emotivo.
I movimenti esterni sono entrambi vivaci, energici e audaci: il primo movimento potrebbe subito sembrare un po’ serioso, sviluppando il suo materiale in modo ordinato, ma si potrebbe anche dire che è spaventosamente pesante nelle sue trame dense e nelle sue foreste cromatiche. Allo stesso tempo, però, c’è un’enorme energia nel ritmo di questo movimento, e questa ha un aspetto positivo, non distruttivo, così in ogni imitazione, ogni melodia riflessa, ogni accordo esclamativo, si sente la verve della nuova creazione, quella di un DNA musicale che viene rimappato continuamente. Al centro del movimento c’è un’idea galoppante di sei note, composta da tre note cromatiche ascendenti seguite da tre più veloci discendenti, idea che si sente per la prima volta dopo circa dieci battute. Questa invenzione del “motto” ritorna nell’ultimo movimento e lega il pezzo nel suo insieme. Il quinto ed ultimo movimento, da parte sua, è una danza popolare ruvida e imponente. La melodia principale di questa parte del Quartetto ricorda il profondo legame di Bartók con la musica popolare: un’idea primordiale che sale e scende di quattro note su una scala esotica. I ritmi di accompagnamento che scandiscono la trama della prima sezione ricordano i ritmi irregolari ed esaltanti della Sagra della Primavera di Stravinsky, e indubbiamente Bartók ha cercato qui di evocarne l’energia vitale.
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