Fu d’estate, in un agosto di molti anni fa, che io, che per temperamento ed inclinazioni potrei definirmi l’esatto rovescio di un ingegnere, venni a contatto con la mirabolante prosa dell’Ingegnere.
Come lettore non ho mai avuto il complesso dell’inverno, quello cioè della stagione in cui, secondo molti, si leggerebbe meno, o meno volentieri.
Per una florida maggioranza di persone, lo si sa, i mesi freddi sarebbero quelli nei quali il lettore, altrimenti avidissimo, andrebbe in letargo.
Nel corso del tempo ho sentito un mucchio di gente sostenere che riesce a leggere solo d’estate, a testa sgombra, senza l’assillo del lavoro, esclusivamente sotto l’ombrellone, insomma.
Non ho mai creduto troppo a questa storia, sa di scusa a mio avviso, o almeno potrebbe esserlo in molti casi.
È più che provato infatti che nel nostro paese si legge pochissimo comunque, se ne fa volentieri a meno in ogni stagione: siamo tra gli ultimi in Europa per consumo di libri, e da sempre sono persuaso che in questo dato sconfortante si celi la prima ragione dei nostri mali.
Così ho sempre tenuto la testa sgombra (molti la definirebbero fin troppo sgombra, vuota cioè) anche per le letture invernali, e per non farmi mancare nessuna delle possibili connotazioni radical chic, o addirittura snob, per decenni in estate ho disertato le torride spiagge, devastate dagli insopportabili tormentoni musicali pseudocaraibici, rifugiandomi nel fresco e nel verde delle montagne.
Senza sudori e senza zanzare si leggeva meglio.
Ed è stato in montagna, quindi, che venni a contatto con l’Ingegnere con la I maiuscola, l’ingegnere Carlo Emilio Gadda.
Ero giovane e di ardite ed eclettiche curiosità letterarie, così in vacanza mi portai appresso “La meccanica”.
Immaginavo che quell’opera sarebbe stata per me una sfida impegnativa quanto i sentieri che percorrevo in ottima compagnia in quei giorni felici.
Sui giornali e sulle riviste che leggevo sentivo citare lo scrittore con un rispetto prossimo alla riverenza.
Contagiato da quel rispetto affrontai il libro.
Ci finii dentro quel romanzo, sorpreso dalla tecnica di scrittura dell’autore, ma il mio stupore aumentò parecchio quando mi resi conto che si trattava di un lavoro incompiuto.
Accidenti, non avrei mai saputo quindi che ne sarebbe stato dei protagonisti, Luigi e Franco, legati dall’amore per la stessa donna e accomunati anche dal coinvolgimento nell’orrore della stessa guerra, la Grande Guerra.
L’edizione che avevo acquistato, che era del 1970 e che non era stata del tutto approvata da Gadda, mancava infatti del finale, una conclusione che solo una versione definitiva di quasi vent’anni dopo avrebbe fornito.
Intanto la montagna, l’età e le magie di quel tempo mi avevano messo nelle migliori condizioni per apprezzare lo scrittore: rientrato a Sudoropolis, mi procurai subito il “Pasticciaccio”, la cui lettura mi stravolse.
Gadda mi sembrò un cuoco folle che nella ricetta infilava di tutto: lingua altissima e bassa, materiali dialettali e gergali, tecnicismi, neologismi ed altri ingredienti ancora, fusi in uno stile narrativo eversivo.
Che acrobazie linguistiche Ingegnere!
Barocchismo controllato, pensai: comunque elegantissimo, oltre che tremendamente espressivo.
Nella vicenda raccontata, intricata e priva di una conclusione consolidata, nello stile virtuosistico che mi aveva positivamente annichilito e nello stravolgimento dell’idea di romanzo che mi ero fatto in anni di letture, rintracciai la mano di un genio, di un nostro Joyce.
Era talmente grande l’autore di “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana”, che gli si poteva perfino perdonare di essere un ingegnere.
Quel che andai a sapere della sua vita, mi confermò che anche lui, già poco convinto del suo percorso di studi, cercò testardamente di rimediare a quel peccato di gioventù.
In effetti non amò mai la sua professione e smise di esercitarla non appena gli fu possibile farlo.
Questo segno di sincero pentimento segnò definitivamente e positivamente il mio atteggiamento nei suoi confronti: gli avrei voluto sempre bene.
Carlo Emilio Gadda era nato a Milano nel 1893, primogenito dei figli nati da un secondo matrimonio del padre.
La sua era una famiglia agiata, la madre insegnante di lettere ed il padre industriale tessile garantirono inizialmente ai figli una condizione agiata.
Questa felice situazione economica ed ambientale terminò bruscamente per colpa di suo padre: investimenti sbagliati nel campo della coltivazione del baco da seta e l’onerosissima edificazione di una villa a Longone, in Brianza, mutarono drasticamente la condizione finanziaria della famiglia.
Gadda visse, secondo le sue stesse parole “un’infanzia tormentata ed un’adolescenza anche più dolorosa”.
Quell’impronta sofferente, diffidente e solitaria del carattere dello scrittore, non venne mai meno.
In seguito al rovesciamento del tenore di vita familiare, fu sua madre Adele, ungherese, a sobbarcarsi il peso di una situazione che dopo la morte del marito, avvenuta nel 1909, si fece ancora più difficile.
Lo fece a prezzo di grandi sacrifici, anche se non volle mai disfarsi della villa di Longone, bersaglio del sarcasmo del figlio Carlo, ma acquisì in compenso un forte potere psicologico sui componenti della sua famiglia, un dominio che la donna volle di fatto esercitare.
Si dovette alla volontà materna, infatti, se Gadda, dopo aver conseguito la maturità al Liceo Classico Giuseppe Parini, non potè intraprendere gli studi letterari che sarebbero stati lo sbocco naturale della sua personalità.
Il ragazzo, come suo fratello Enrico, fu costretto invece ad iscriversi alla Facoltà di Ingegneria presso il Politecnico di Milano, una strada ritenuta più proficua dalla madre.
Questa rinuncia alle proprie inclinazioni gravò su Gadda per tutto il resto della vita ed il suo rapporto con la donna, rapporto connotato da parte sua da sentimenti di odio amore, rimase segnato anche da un forte complesso edipico.
Con tutta probabilità, anche la misoginia da cui Carlo Emilio fu sempre affetto, prese le mosse dal conflitto con la personalità di sua madre.
Più che in perfetta coerenza con un interventismo che lo aveva portato in piazza, nel maggio del 1915, a manifestare gioia per l’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, la scelta che Gadda fece di arruolarsi volontario, in realtà diede forse corpo alla speranza di riordinare la propria esistenza, dandogli un senso.
Fu dislocato sull’Adamello, nelle zone arretrate del fronte, poi sulle alture vicentine.
Nell’autunno del 1917, in seguito alla rotta di Caporetto, venne fatto prigioniero e deportato nei pressi di Hannover, in Germania, detenuto in una baracca che per una strana coincidenza divise con altri letterati ed intellettuali: Bonaventura Tecchi, Camillo Corsanego e Ugo Betti.
La storia di quella esperienza di prigionia e della “baracca dei poeti”, verrà raccontata da Gadda in un capitolo del “Castello di Udine”, una raccolta di racconti, ricordi e altri frammenti autobiografici che uscita nel 1934, vincerà il Premio Bagutta.
Lui descrisse con modestia il contenuto di quel libro: “Sono scritti di guerra e di viaggio e due novelle e qualche altra cosa”.
Il diario degli anni che vanno dal 1915 al 1919, diario che nel corso di quel periodo lo scrittore compilò minuziosamente, fu pubblicato solo nel 1955, col titolo di “Giornale di guerra e di prigionia” e ristampato con varie integrazioni, dieci anni dopo.
Nell’opera era evidente soprattutto la denuncia dell’incompetenza dei comandi militari italiani e della situazione, degradata in ogni senso, dei prigionieri di guerra, ma vi si potevano rintracciare anche altri temi che sarebbero divenuti tipici del suo percorso intellettuale e letterario: il disordine della realtà, l’orrore per la guerra ed il disprezzo delle gerarchie.
Rientrato a casa nel 1919, ricevette la la notizia della morte di suo fratello Enrico, aviatore, precipitato con il suo apparecchio durante un combattimento.
Legatissimo allo scomparso, Gadda cadrà in un prolungato stato depressivo.
Fu necessario a quel punto completare gli studi universitari: si laureò in Ingegneria Elettrotecnica a Milano, nel 1920.
Negli anni successivi lavorò come ingegnere in Sardegna e in Lombardia, ma fece anche esperienze all’estero, in Belgio e soprattutto in Argentina, dove si impiegò nella Compania General de Fosforos, una società costituita da italiani.
Si iscrisse al Partito Fascista nel 1921 e, tornato in patria, tra il 1924 ed il 1925, fu docente di matematica al Liceo “Parini”, quello stesso che aveva frequentato come allievo.
Decise di iscriversi nuovamente all’Università, al corso di laurea in Filosofia e di dedicarsi finalmente all’attività letteraria, bramata ma sempre rimandata.
Per motivi che non volle mai chiarire, dati tutti gli esami previsti e con la tesi già concordata, rinunciò a laurearsi.
In compenso nel 1926 iniziò a collaborare con la prestigiosa rivista letteraria Solaria, sulla quale scrivevano i maggiori autori italiani del momento, e come primo suo intervento produsse un saggio critico su Manzoni.
A questo seguirono molti altri contributi e in un suo lungo periodo di riposo dalla attività di ingegnere, pausa dovuta a motivi di salute, elaborò parecchi testi che lasciò tuttavia incompiuti.
Nel 1931 fu pubblicato il suo primo libro, “La Madonna dei filosofi”, composto da racconti e altre prose. A questo esordio, tre anni dopo, farà seguito il già citato “Il castello di Udine”.
La morte di sua madre, avvenuta nel 1936, pose termine al loro eterno rapporto conflittuale.
Gadda decise di vendere la famosa villa in Brianza, mai abbandonata dalla donna.
Conseguenza di questi eventi furono i primi abbozzi del suo romanzo “La cognizione del dolore”, opera che apparve tra il 1938 ed il 1941 sulla rivista Letteratura e che venne pubblicato parecchio tempo dopo in due edizioni tra il 1963 ed il 1970.
Quel testo, rimasto incompiuto, presentava molti spunti autobiografici, primo dei quali il difficile rapporto coi genitori.
La figura paterna, molto dileggiata, faceva infatti il paio con quella materna, trattata con una ferocia che finiva per suonare comica, e a conferma di un materiale prevalentemente biografico, in quelle pagine si intravedeva anche l’ombra di Enrico, l’amato fratello scomparso.
La realtà descritta, complicata, ingovernabile e progressivamente sempre più ingarbugliata, sembrava fare da perfetto contraltare allo spirito manzoniano della Provvidenza, salvifica dipanatrice di ogni matassa.
Nel 1940 Gadda maturò definitivamente l’idea di abbandonare la professione di ingegnere.
Si trasferì a Firenze e nel 1944 pubblicò “L’Adalgisa”, una raccolta di racconti che satireggiava fortemente la borghesia milanese dei primi trent’anni del Novecento.
Nel periodo fiorentino Carlo Emilio si legò ad altri importanti critici e scrittori, come Bonsanti, Montale, Bo, frequentando anche Landolfi, l’altro grande sperimentatore di nuove vie linguistiche.
Nel 1950 Gadda, spostatosi a Roma, curò per diversi anni i servizi culturali del Terzo Programma della Rai e contemporaneamente avviò la stagione più matura della sua produzione letteraria, quella che lo rivelerà come una delle maggiori personalità letterare del secolo.
Dopo la pubblicazione de “Il primo libro delle favole”, nel 1952, e delle “Novelle del ducato in fiamme” in cui ironizzava sull’ultimo periodo del fascismo, nel 1957 Gadda diede alle stampe il suo capolavoro, il già menzionato “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana”, giallo ambientato nei primi anni dell’epoca fascista.
Questo straordinario lavoro ispirò al regista Pietro Germi il film “Un maledetto imbroglio”, uscito nel 1959.
Il successo del romanzo non mutò in nulla l’indole dello scrittore, non la addolcì minimamente: quell’uomo che più di chiunque altro aveva saputo dare un colpo di frusta alla letteratura italiana, stravolgendone le strutture narrative, rimaneva un uomo dal carattere difficile.
Chiuso, tormentato, pieno di manie già dall’infanzia, sfiduciato, misogino e bisognoso di solitudine.
Nell’ultimo tratto della sua vita Gadda si dedicò a rielaborare materiali precedenti ai quali non aveva dato ancora una versione definitiva. >>
Tra queste opere va menzionato il pamphlet “Eros e Priapo”, pubblicato nel 1967, una grottesca caricatura dei miti del fascismo.
Lo scrittore, nonostante si fosse iscritto sin dal 1921 al Partito Fascista, con quel testo dimostrava il suo rapporto di sostanziale ostilità al fascismo ed al suo fondatore, ma alcuni critici, come Sergio Luzzatto, in quel ritratto, divertente ma amaro, del regime, vollero vedere la reazione rabbiosa di un innamorato deluso.
Nel 1970 vennero pubblicati “La meccanica”, il romanzo responsabile della mia felice scoperta di Gadda, ed altri scritti rimasti inediti.
Carlo Emilio Gadda morì a Roma nel maggio del 1973.
“Meditazione milanese” e “Racconto italiano di ignoto del novecento” vennero pubblicati postumi: nel 1974 il primo, e nel 1983 il secondo.
In un periodo abbastanza insulso della nostra letteratura non si può non rimpiangere uno come Gadda.
“Fossero così tutti gli ingegneri…!”.
Ricordo di averlo pensato rimettendo a posto il volume del “Pasticciaccio” dopo averlo letto.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.