Scoprire un libro bello e insolito provoca una delle forme di felicità che più rallegrano chi è in grado di cercarla con costanza e passione; è un sentimento che ripaga con gli interessi lo sforzo fatto per pescare quel testo tra tanti altri.
Non tutti i libri permettono simili emozioni.
Un saggio, naturalmente, quando lo annusi sui banchi di una libreria o altrove, non presenta troppi rischi: l’argomento trattato ti si dichiara immediatamente, aprendoti solo un paio di strade: mi interessa o meno? Se scegli quel libro, molto ti è già annunciato ed gli eventuali dubbi sul suo conto possono riguardare solo il modo in cui è scritto, se è noioso o stuzzicante, lacunoso o esauriente o se la sua attendibilità è scientificamente rassicurante.
Scegliere un romanzo è tutt’altra cosa: è camminare nella notte con un fanale in mano, rovistare in una cassapanca senza fondo, sporgersi su un abisso tentando di scorgerne la fine. E’ un salto nel vuoto, a meno che tu non decida di leggere l’ennesima opera di un autore che già conosci e ami, ed in quel caso la previsione di gradimento è in partenza favorevole.
Visto che in Italia si legge poco, si pubblica troppo, ad onta dei consumi culturali modesti, e questo mare di volumi in uscita vorrebbe fungere da rimedio che, aumentando l’offerta, vada a compensare il peso negativo di dati di lettura poco esaltanti.
I marziani italici che frequentano le librerie si accorgono subito di questa proposta esagerata di libri.
Al di là della lecitissima e, anzi, auspicabile, differenza di gusti nel valutare i generi e gli autori, i lettori abituali non possono non notare che una robusta percentuale di quello che si pubblica, non andrebbe stampato.
L’occhio dell’appassionato, che vaga per gli scaffali carichi, può trovarsi in difficoltà: troppa di quell’offerta è inadeguata e il solo scartare tanti titoli fa perdere tempo.
Quando però qualcosa in un libro esposto, la grafica, il titolo, qualche nota in quarta di copertina, richiama la tua attenzione, comincia un gioco che se ha poi esito positivo, segnerà l’inizio di un rapporto che durerà l’intera vita.
Questa scintilla mi è si è accesa per molti romanzi in sosta negli scaffali delle librerie, quelli, appunto, capaci di pretendere e ottenere uno sguardo più approfondito: è così che ho potuto scoprire delle vere e proprie perle.
Molti anni fa uno di questi volumi me lo ritrovai in mano senza nemmeno rendermene conto, come se fosse stato in grado di saltarmi in braccio. Il nome dell’autore non mi diceva nulla, non lo conoscevo affatto: Antonio Skàrmeta, cileno.
Il suo romanzo, una cosetta piuttosto breve, era pubblicato da Garzanti in una collana minore, in brossura, ma molto graziosa graficamente, il che fa sempre un ottimo effetto su chi deve acquistare.
Il titolo, in italiano era “Il postino di Neruda”, ed era già una sorta di promessa di qualità.
Lo lessi velocemente: era incantevole. Poche volte avevo visto concentrare in una narrazione così intrigante e fresca, tanti temi diversi, temi fondamentali nella nostra vita, centrali al punto che ciascuno di essi meriterebbe di fare da ossatura ad altrettante opere
Nel piccolo romanzo di questo scrittore sconosciuto avevo visto intrecciarsi amicizia, amore, cultura e politica, tutti temi trattati contemporaneamente per dare sangue ad una scrittura nitida, vivace, emozionale e avvincente, una cosa forte e lieve, da sudamericani, insomma, ma con qualche nota diversa.
L’ho acquistato subito, a pochi giorni di distanza dalla sua uscita, terminandolo in un’oretta e mezzo di lettura gioiosa.
Molto più a lungo, fino ad oggi, a dire il vero, è durata la fascinazione di quel testo, destinato in seguito ad avere fortuna mondiale, irrobustita anni dopo da un film emozionante per più di una ragione.
Allora non avrei immaginato un successo di quella portata: in quei giorni, così la sentivo, era solo una mia, personale ed esclusiva scoperta letteraria.
Il segno lasciatomi da questo piccolo capolavoro è stato profondo, tanto che durante gli anni successivi ho letto, in ordine di uscita, quasi tutte le altre opere di Skàrmeta, della cui storia converrà parlare.
Esteban Antonio Skarmeta Vranicic è nato ad nel 1940 ad Antofagasta, una città portuale del nord del Cile, un centro che si affaccia con spiagge ampie sull’Oceano Pacifico.
Antofagasta, ora densamente popolata, non ha tuttavia origini lontanissime: venne infatti fondata nel 1868, ma per via dei suoi commerci è diventata una delle città cilene più importanti.
Il suo nome, che suona particolare, deriverebbe da una parola in lingua quechua che significa “città del grande letto di sale”.
Gli antenati di Antonio Skarmeta Vranicic erano croati, orginari di Brazza, un’isola della costa spalatino dalmata, che a sentire le leggende che i familiari raccontavano allo scrittore, avrebbero lasciato le belle coste dell’Adriatico per puro spirito di avventura, spingendosi verso mondi a loro ignoti, non per necessità economiche, ma per poter vedere il sud del pianeta.
Presi dal medesimo impulso migratorio, i genitori di Antonio si trasferirono in un primo momento nella capitale, Santiago del Cile, poi a Buenos Aires, città nella quale il figlio venne a conoscere i fermenti della prima cultura pop.
Rientrato a Santiago, Skarmeta studiò filosofia nella prestigiosa Università del Cile, laureandosi con una tesi su Josè Ortega y Gasset, poi, grazie ad una borsa di studio, proseguì il suo percorso universitario studiando letteratura negli Stati Uniti, laureandosi nel 1966.
Conseguenza di quel soggiorno fu l’influenza di alcuni scrittori americani contemporanei, quali Kerouac e Salinger, che si fece sentire distintamente soprattutto nelle sue prime prove di scrittura.
L’aria culturale degli anni Sessanta non poteva non riflettersi sul processo di formazione dello scrittore, così Skarmeta, vivendo in prima persona l’esperienza della controcultura giovanile, fu insieme protagonista e testimone del passaggio dell’universo giovanile dall’essere una categoria meramente anagrafica ad una culturale.
Il suo primo libro “El Entusiasmo”, una raccolta di racconti uscita nel 1967, raccoglieva le infinite suggestioni di quel tempo, culturalmente e socialmente movimentato: il rock, il cinema, lo sport, il giornalismo e tutte le altre svariate tematiche legate alla cultura popolare.
Erano anni colorati.
Nel periodo di tempo seguente, alternò alla scrittura un denso lavoro di traduttore, ma l’attività principale di Skarmeta in quei tardi anni Sessanta fu l’insegnamento: divenne, infatti, professore, prima di filosofia, poi di letteratura all’Università del Cile, la stessa presso la quale si era laureato.
Nel 1969 il suo secondo libro di storie, “Nudo sul tetto”, vinse il premio Casa dele Americhe.
Queste due prime opere caratterizzarono subito Skarmeta come snodo tra la letteratura latinoamericana, che stava vivendo un boom di popolarità, e la nuova narrativa americana.
Lo scrittore si poneva quale crocevia, non solo stilistico, ma anche tematico, tra le due letterature, e questo suo carattere veniva fuori evidente in racconti come, ad esempio, “A las arenas”, storia in cui dei latinoamericani arrivavano a vendersi il sangue per poter comprare i biglietti per un concerto jazz.
Migrante inquieto come i suoi antenati, Skarmeta nel primo scorcio dei Settanta, tornò a stabilirsi per qualche tempo a New York, conseguendo un’altra laurea alla Columbia University.
Rientrato in patria, fu ancora una volta un docente universitario, molto coinvolto nel momento di profonda trasformazione del suo paese, nell’esperimento socialista cileno.
Tutto poi naufragò nella violenza di una restaurazione brutale, così lo scrittore fu sorpreso nel settembre del 1973 dal sanguinoso golpe che rovesciò il legittimo governo di Salvador Allende.
Iniziava la lunga dittatura di Augusto Pinochet, ed un professore come Skarmeta, che si configurava come un intellettuale progressista, aperto alla cultura mondiale, non aveva molte possibilità di vivere in quel Cile chiuso e repressivo.
Antonio scelse ovviamente l’esilio, andando a stabilisi in Argentina.
Fu nella sua nuova sede che pubblicò il suo “Tiro libero” i cui racconti riflettevano il clima che nel suo paese aveva favorito l’ascesa di Allende e che, mutando in pochi anni, aveva provocato poi la sua caduta.
Il retroterra narrativo di Skarmeta, il suo mondo, si era perduto: non poteva più esistere in patria il mondo dei nottambuli che lui aveva raccontato, quei personaggi che vivevano come se fossero a New York, come se venissero fuori dalle tele, composte e stranianti, di Hopper.
Con lui, tutti i suoi temi narrativi furono costretti all’esilio, anche la mitologia calcistica, tipica della cultura popolare latina non poteva dignitosamente sopravvivere ad un colpo di stato che nei giorni della presa di potere di Pinochet, aveva trasformato proprio uno stadio, quello di Santiago del Cile, in un campo di concentramento prima, e in una macelleria subito dopo.
Il primo romanzo di Skàrmeta dall’esilio, “Sognai che la neve bruciava”, del 1975, risente fortemente dell’urgenza di tramandare letterariamente la memoria degli anni bui del Cile.
Il colpo di stato di Pinochet veniva visto e raccontato con lo sguardo candido di un giocatore di calcio.“Sognai che la neve bruciava”, è un ambizioso romanzo di formazione politica e sentimentale, che soprattutto nel personaggio del Piccolo Signore, prende giocosi echi felliniani opponendo così alla dittatura la carica forte e vendicativa dell’umorismo.
Skarmeta si trattenne in Argentina solo un anno, poi si trasferì in Europa, in quella Berlino ovest divisa dall’altra Germania dal muro ancora saldamente in piedi.
Visse in Germania per quindici anni, lavorando come professore di sceneggiatura cinematografica e sceneggiatore, prevalentemente per il regista Peter Lilienthal, ma scrisse anche dei testi per programmi radiofonici.
In esilio produsse soprattutto opere letterarie che ne fecero un punto di riferimento per la cultura latinoamericana e per la comunità cilena in Europa.
Nel 1980 uscì il primo romanzo “europeo” di Skarmeta: “Non è successo niente”, largamente autobiografico, che raccontava le difficoltà di ambientamento di un ragazzo cileno in esilio.
La lontananza dal Cile, come è naturale che fosse, aveva spostato l’ambientazione dei suoi libri dalla madrepatria, così non sorprende più di tanto il fatto che il suo romanzo successivo, “L’insurrezione”, uscito nel 1982, trattasse della rivoluzione sandinista in Nicaragua.
La storia venne raccontata in due versioni parallele: alla dimensione del romanzo si aggiunse, infatti, anche quella di sceneggiatura per il cinema del suo amico Lilienthal.
Nel 1985 venne pubblicato il romanzo destinato a farlo conoscere in tutto il mondo, quel “Ardiente paciencia”, nel quale Skàrmeta tornava ad una ambientazione cilena, e che fu ripubblicato successivamente con un nuovo titolo “El cartero de Neruda”, “Il postino di Neruda”.
Come già si è detto, su questa incantevole storia di amore, propiziata dall’amicizia tra Neruda, suo consigliere e mentore, ed il postino, due persone distanti per cultura, ma vicini per sensibilità alla bellezza, incombe cupo il galoppare della storia cilena di quegli anni, dalla breve gloria di Salvador Allende al colpo di stato finale, che insieme alle libertà democratiche e rivoluzionarie, uccise anche ogni bellezza.
Commovente, affascinante, sorprendente, nel romanzo la figura del poeta assume un ruolo centrale. L’isolato vate è cardine sia degli eventi che si svolgono nel piccolo universo dell’Isla Negra, che di quelli, più grandi e decisivi, che muovono la grande storia della nazione.
Skarmeta racconta che quando era ancora uno scrittore all’esordio, riuscì ad avere un incontro con Neruda per chiedergli l’autografo e per consegnargli una copia del suo primo romanzo.
Neruda si prese due settimane per dare il suo giudizio sull’opera di esordio di Skarmeta.
Questi, però, non riuscendo a trattenere l’impazienza, si presentò al poeta dopo sole due settimane.
Neruda ammise che il libro era “bueno”, ma sentenziò che questo non aveva troppa importanza: bisognava attendere un secondo romanzo per valutare davvero il talento di un autore perchè: “tutti i primi libri degli scrittori cileni sono belli”.
Nel 1994 da “il postino di Neruda” è stato tratto l’omonimo film di Michael Redford, con Massimo Troisi nei panni del postino, una pellicola che ha riscosso un successo mondiale, ottenendo cinque candidature al Premio Oscar, vincendo una statuetta.
Non volendo cavalcare il successo con lavori che fossero in qualche modo delle repliche del suo libro più conosciuto, Skarmeta si astenne dal pubblicare alcunchè fino al 1989, anno in cui uscì il suo romanzo ”Match ball”, la storia, condita di pungente umorismo, dell’infatuazione di un preparatore di giovani promesse del tennis per una di loro.
Quello fu anche l’anno in cui terminò l’esilio dello scrittore, che rientrò in patria. Per qualche anno Skarmeta lavorò alla realizzazone di molti programmi televisivi e tenne dei laboratori letterari frequentatissimi.
Nel corso degli anni Novanta lo scrittore insegnò alla Saint Louis University, nel Missouri e fece da relatore in molte conferenze su temi letterari, tornando nel 1999, con il romanzo “Le nozze del poeta”, al mondo fantastico dei suoi avi croati, in una storia d’amore condita dal consueto sguardo ironico, ambientata nella stessa isola dell’Adriatico dalla quale quei suoi antenati erano partiti alla volta del Cile.
Il romanzo avrà un seguito due anni dopo, nel 2001, col successivo romanzo “La bambina e il trombone”, in cui viene narrata la storia di Alia, una bimba priva dei genitori, sbarcata ad Antofagasta all’età di soli due anni, in compagnia di un musicista misterioso e del suo trombone. La vita di Alia, che diverrà una donna colta, libera e cosmopolita, viene narrata da Skarmeta in modo fantasmagorico, ricchissimo di citazioni di mille canzoni e di altrettanti film.
Il libro ha successivamente vinto in Francia il Premio Medici come miglior romanzo in lingua straniera.
Nel 2000 Skarmeta, già impegnato a sostenere la candidatura presidenziale del progressista Ricardo Lagos Sbumeta, accettò la carica di Ambasciatore del Cile in Germania, terra che ben conosceva avendovi vissuto gli anni dell’esilio, e nella quale tornò volentieri.
Come Neruda, tuttavia, che era stato anche lui diplomatico del suo paese in svariate nazioni, così Skarmeta si rese conto, infine, che la scrittura era per lui l’unica vera forma di libertà, e tornò volentieri alla sua attività di romanziere.
“Il ballo della Vittoria”, romanzo d’amore, di amicizia e crimine sullo sfondo di una Santiago del Cile ancora percorsa dai fantasmi della dittatura, uscì nel 2003 vincendo l’importante Premio Pianeta.
Nel corso degli anni più recenti Skàrmeta ha pubblicato altri due lavori: il primo, “Un padre da film”, del 2010, è il romanzo dell’abbandono di Jacques da parte del padre e della sofferenza di sua madre, bella e malinconica, spenta dal dolore che l’ha investita come una folata di vento gelido.
Con il romanzo, “I giorni dell’arcobaleno” , pubblicato da Einaudi nel 2011, Skàrmeta è tornato ai tempi cupi del Cile di Pinochet, ai progressisti sotto tiro, alla repressione e ai martiri desaparecidos.
Il suo ultimo libro “Libertà di movimento”, del 2016, attende tuttora una traduzione italiana.
Per quanto attiene alla sua vita personale, lo scrittore, dopo un primo matrimonio, che gli diede due figli, si è unito ad una signora tedesca, dalla quale ne ha avuti altri due.
Skàrmeta in sostanza va considerato un maestro assoluto della narrativa sudamericana ed internazionale, senza esagerare, un caposcuola.
Capace di andare oltre i canoni della classica letteratura latinoamericana contemporanea, immettendoci i tempi e alcune atmosfere di quella europea e statunitense, lo scrittore ha saputo narrare storie fresche, appassionate e movimentate, sempre condite da un’ironia e da un umorismo che rappresentano cifre fondamentali del suo stile.
Skàrmeta attualmente vive e lavora in Cile.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.