Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.
Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.
Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa…
Non riesco a sentir nominare Guido Gozzano senza che riaffiori prepotentemente, dolcemente e dolorosamente insieme, il ricordo di mia madre. A parte il suo amatissimo marito, mio padre, col quale sin dai banchi del liceo ha intessuto un romanzo sentimentale unico, che gli ha fatto attraversare, rimanendo indenne e fortissimo, tante stagioni diverse di dramma e di felicità, solo altri due, infatti, sono stati gli amori che hanno portato costante emozione nella vita di mia madre.
A dimostrazione di quanto ci segnino per sempre l’adolescenza e la giovinezza, i periodi in cui la nostra crescita si fa tumultuosa, anche queste sue inclinazioni letterarie hanno avuto un’origine liceale e l’hanno poi seguita per tutto l’arco dell’esistenza.
A dire il vero, non parrebbe possibile coltivare un amore intenso per due figure così antitetiche, ma mamma questo spazio lo ha trovato trovato e i due strani, imparagonabili personaggi vi hanno convissuto pacificamente.
Lasciando da parte, quindi, il sentimento irraggiungibile per mio padre, la prima di queste sue due passioni parallele, forti e durature, è stata quella per Dante.
Come si fa a non comprenderla?
Vista la smisurata statura poetica, linguistica e culturale di quest’uomo d’oggi, vissuto tuttavia a cavallo dei due secoli centrali del Medioevo, se è lecito definire qualcuno un gigante, ebbene quello è certamente il termine che più si addice all’Alighieri.
Non fa una grinza.
Parliamo di una potenza in grado di lavorare con una lingua nuova e contemporaneamente crearla, riversarla meravigliosamente in poesia e infine metterla al servizio di un messaggio teologico e filosofico che riposava su una conoscenza che sfiorava lo scibile del suo tempo, e per di più in ogni campo.
Un fenomeno assoluto nella storia dell’umanità.
Ancora oggi rivedo mia madre, ormai molto anziana, fare le parole crociate, tenendosi sempre accanto un bustino di Dante che le avevo regalato da ragazzo, tornando da Firenze.
Se lo teneva vicino, come se la sapienza del suo amato poeta potesse ispirarle le risposte giuste a domande fatte alla strampalata dai cruciverba.
La dimensione enorme di Dante, la sua vita accidentata, sballottata tra grandi eventi, e l’immensa ombra che ha steso sulla nostra letteratura, contrastano davvero con la natura introversa e domestica dell’altro amore letterario di mia madre, un poeta che volentieri si è tenuto all’interno delle ombre di una dimensione personale e lirica fragile, quasi timida: Guido Gozzano.
I versi del suo poemetto “La signora Felicita” che ho riportato nell’incipit di questo articolo, mia madre li conosceva a memoria, come del resto capitava per parti intere della “Commedia” dantesca, che spesso recitava.
Da insegnante di lettere appassionata, come aveva fatto con moltissime generazioni di studenti, è riuscita quindi a trasmettermi sia una straordinaria ammirazione per Dante (sono un collezionista compulsivo di edizioni storiche della Divina Commedia) che uno sguardo di benevolenza e simpatia per Gozzano, simpatia accentuata dalle circostanze della sua vita e dalla qualità della sua cifra poetica.
Una specie di predestinazione fece sì che, ben prima della nascita di Guido, fosse rintracciabile nella famiglia Gozzano una decisa attrazione per la letteratura.
Suo nonno Carlo, che fu medico militare nella guerra di Crimea e amico personale di Massimo D’Azeglio, vantava una condizione benestante, basata sulla sua fiorente proprietà terriera, accresciuta dal possesso di varie ville ad Agliè, nel torinese.
Pur essendo, come si è detto, un medico, e provenendo quindi dal campo della cultura scientifica, fu anche un appassionato cultore della letteratura romantica.
Una simile passione per le arti segnò anche la personalità della madre del poeta, Diodata Mautino, seconda moglie di suo padre Fausto, anch’essa di famiglia agiata e colta, che aveva temperamento artistico e amò il teatro fino ad essere un’ottima attrice dilettante.
Guido fu il quartogenito di questa seconda famiglia paterna, già numerosa per via di cinque figlie nate dalle prime nozze, che, dopo di lui, vide nascere ancora un altro bambino, Renato.
Il futuro poeta nacque a Torino nel dicembre del 1883 nella casa cittadina dei genitori, un palazzo non distante da quello in cui abitò un altro grande torinese, Piero Gobetti, e sentì sempre forte il rapporto con la sua città natale, che conobbe bene, abitando negli anni quattro diverse case.
Frequentò la scuola elementare in due istituti diversi perché si rivelò presto uno scolaro problematico: decisamente svogliato fu affiancato quasi subito da un’insegnante privata.
Più faticati ancora furono i suoi studi superiori, partiti dal Liceo Classico Cavour e proseguiti in un collegio di Chivasso nel quale era stato spedito in seguito ad una bocciatura.
Ritornò poi a studiare a Torino e dopo due anni, nel 1900, subì la perdita del padre, morto di polmonite.
Risale all’anno successivo la sua prima poesia conosciuta, “Primavere romantiche”, che, dedicata alla madre, venne pubblicata postuma solo nel 1924.
Il lutto non cambiò molto Gozzano e la sua scarsa attitudine allo studio, compensata, per così dire, dalla propensione, al contrario, spiccata, per le monellerie.
Il raggiungimento nel 1903 della travagliatissima maturità presso il Collegio Nazionale di Savigliano, coincise con la pubblicazione dei suoi primi versi sulla rivista “Il venerdì della Contessa” e di un racconto, “La passeggiata”.
Sin dai titoli di quelle prime prove poetiche: “La vergine declinante”, “L’esortazione”, “Vas voluptatis”, “Suprema quies”, ecc, si mostrava evidente il debito verso D’Annunzio ed il suo stile.
Iscrittosi successivamente alla facoltà di legge, il giovane Gozzano preferì piuttosto frequentare le sale da ballo studentesche e i corsi di letteratura tenuti dal poeta e critico letterario Arturo Graf, seguendolo anche nelle conferenze che teneva il sabato presso le sedi di riviste, come “La Donna” e nei locali della “Società della Cultura”, un circolo fondato nel 1898 da un gruppo di importanti intellettuali, come Luigi Einaudi, Guglielmo Ferrero, Gaetano Mosca ed altri ancora.
Oltre ad una biblioteca circolante, fornita delle più recenti novità librarie, l’associazione aveva anche una sala lettura di giornali e riviste, un luogo di conversazione e di conferenze molto e ben frequentato, nel quale si coltivava un’idea positivistica e pedagogica della cultura.
Massimo Bontempelli, Giovanni Cena, Francesco Pastonchi, Carola Prosperi, Achille Loria, Luigi Pirandello, Piero Gobetti: questi alcuni nomi di personaggi che si facevano vedere in quella sede.
Gozzano vi divenne capofila di una vivace congrega di giovani, una “brigata matta”, secondo il suo amico giornalista Mario Bassi, composta da gente di lettere come Carlo Calcaterra, Salvator Gotta o Attilio Momigliano, ma
si diceva pure che, altrettanto serrate di quelle culturali, furono in quel periodo le sue frequentazioni coi camerini delle attrici.
Testimonianze a proposito di questo periodo della sua vita, rivelano varie impertinenze e scherzi goliardici ad opera del giovane poeta, fornendone un ritratto decisamente contrastante con l’immagine più diffusa di Gozzano, quella cioè che lo descrive come un giovane dal temperamento riservato, dai lineamenti aristocratici, gentile ed incline più al sorriso che al riso.
Seppur prendesse con una certa diffidenza l’idea più austera della cultura, alcune delle sue frequentazioni di quel periodo, soprattutto quelle letterarie, segnarono in profondità i suoi destini personali e poetici.
Si fece strada in lui una considerazione più seria di sé, mentre la conoscenza dei poeti francesi contemporanei, quella di altre voci poetiche europee e, soprattutto, l’influenza di Pascoli, lo favorirono nel distaccarsi dai suoi primissimi debiti letterari.
E’ il percorso che lo porterà ad essere avvicinato a quella forma di poesia intimista che nel 1910 venne definita, non del tutto benevolmente, “crepuscolare” da G.A. Borgese:
“Si direbbe che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte”
La curiosità filosofica per Schopenauer e Nietzsche, che si accese in lui nel medesimo periodo, portarono parallelamente al consolidarsi in Gozzano di una sorta di decadentismo ribelle, fuori dal flusso del suo tempo.
Del resto, anche Torino, la sua città, fornirà materia di vita e materia poetica a Gozzano, contribuendo a tratteggiarlo, come riporta Natale Tedesco in un suo contributo critico alla Storia Generale della Letteratura Italiana, come
“la figura dell’intellettuale novecentesco chiaroveggente, ma abulico, posto ai margini della società cui tuttavia appartiene, anche se ne avverte e segnala l’esaurimento”.
In effetti è proprio a Torino, che all’epoca della giovinezza di Gozzano, si imponeva come prima capitale industriale italiana, che matura la contraddizione tra l’antico mondo patrizio piemontese e la nuova società borghese e popolare, tra il mondo della vecchia proprietà terriera e quella della città che sviluppa tutto un nuovo agglomerato intorno alle fabbriche.
Guido, senza peraltro frequentarla davvero, ma sentendola più come suggestione, si riconoscerà piuttosto nella realtà del vecchio assetto sociale e negli ideali ad esso legati.
A causa anche dell’eredità culturale familiare, sarà dunque ben lontano dall’apprezzare l’idea di città che andava affermandosi, slegata dalla terra circostante, di cui si era sempre nutrita, e dedita ora al nuovo e veloce tipo di sviluppo industriale.
Per lui dunque, da un certo punto della sua crescita in poi, la città rimase il simbolo del Mondo che lui rifiutava in blocco, e che, non confortandolo affatto, finiva solo per alimentarne il turbamento.
In altri versi de “La signorina Felicita, ovvero la Felicità” scrive:
“Ecco – pensavo- questa è l’Amarena
ma laggiù, oltre i colli dilettosi
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi
la cosa tutta piena di quei “cosi con due gambe”
che fanno tanta pena…”
La biografia di Guido Gozzano, come si vede, è dominata da diversi elementi di una certa rilevanza.
Uno di questi, al quale ancora non abbiamo accennato, fu la sua salute cagionevole a causa di una seria malattia polmonare, la tubercolosi, che gli fu diagnosticata fin dal 1907 e che lo affliggerà per tutto il corso della sua breve vita, portandolo a morire a soli trentadue anni.
La malattia cambierà la sua vita, la sua percezione del mondo, come pure, inevitabilmente, la sua poetica.
Fu proprio la spinta a cercare un clima più favorevole che portasse sollievo alla sua sofferenza fisica, che lo spinse a fare un viaggio in India nel 1912, nel corso del quale scrisse una serie di articoli che vennero raccolti in un volume che uscì postumo nel 1917, col titolo “Verso la cuna del mondo”.
Altro evento fondamentale per la vita e per l’opera di Gozzano fu l’incontro nel 1906 con la scrittrice Amalia Guglielminetti, con la quale intraprenderà una tormentata relazione.
L’anno successivo, come sbocco di un lungo lavoro di revisione e sistemazione del materiale lirico accumulato, uscì la sua prima raccolta “La via del rifugio”, trenta poesie tra le quali, oltre a quella che dava il titolo al libro, figurano “Le due strade” e “L’amica di nonna Speranza”.
Il libro, che venne accolto favorevolmente dalla critica, usciva, come si è detto da una sostanziale rettifica della poetica gozzaniana, una sorta di svolta decisa che dalle atmosfere decadenti dannunziane aveva condotto i suoi passi verso un approdo crepuscolare.
Sparivano in quei versi gli accenni mondani e superomistici in favore dei sentimenti più semplicemente umani, come la malinconia o una dolce nostalgia.
Il poeta, non più eroico, si rivelava uomo comune, consapevole della modestia dell’esistenza.
La diagnosi della sua lesione polmonare venne a turbare la soddisfazione del successo letterario conseguito, portandolo a viaggiare in direzione di luoghi di mare, di climi più caldi che potessero portarlo a guarigione.
Prese a soggiornare a San Francesco d’Albaro, vicino a Genova, alloggiando presso l’Albergo San Giuliano e frequentando un gruppo di poeti che collaboravano con la rivista “La Rassegna Latina”, sulla quale Guido scriverà tra le altre, la recensione ad un libro della Giglielminetti.
Preso dalla suggestione ricevuta da quei soggiorni compose la bellissima poesia “Nell’Abazia di San Giuliano”.
Di tanto in tanto rientrava ad Agliè, nella villa dei genitori, per poi tornare a Torino, poi in Liguria ancora, a cercare un inverno più mite.
Nella primavera del 1908 Gozzano visse il momento più intenso della sua relazione con la Guglielminetti, rapporto che tuttavia i due interruppero, vedendo nel “distacco la soluzione più leale”.
Da quel momento in poi il rapporto proseguirà soprattutto per via epistolare, in una corrispondenza che durerà per il resto della sua vita.
Il 1908 fu anche l’anno in cui Gozzano scrisse la maggior parte dei versi che formeranno il corpus poetico della sua seconda e maggiore opera, “I colloqui” che, pubblicata nel 1911, susciterà molti consensi e qualche critica contraria.
Saranno ventiquattro le poesie che figurano nel libro, divise in tre parti: “Il giovenile errore”, “Alle soglie” e “Il reduce”.
Nella prima di queste sezioni Gozzano, seguendo l’illusione giovanile, canta episodi di vagabondaggio sentimentale, altrettante promesse non mantenute dalla vita.
Le sette poesie di “Alle soglie”, trattano degli amori che gli si offrivano, resi impossibili dalla minaccia della morte, la “Signora vestita di nulla”.
Molte composizioni celebri appaiono in questa seconda parte: la già citata “La signorina Felicita” e “L’amica di nonna Speranza”:
Nell’ultima serie, “Il reduce”, si cantano sentimenti come la rassegnazione, l’indifferenza, e l’accettazione di una vita senza spessore.
Temi presenti soprattutto in “Totò Merumeni”, alter ego del poeta, figura di intellettuale del suo tempo che dal nulla proviene e verso il nulla va.
“I Colloqui” segnarono una svolta decisa nella poesia italiana novecentesca: la figura del poeta, demitizzata definitivamente, guarda alla vita come un onesto borghese, critico, ma con ironia e affetto nei confronti della società a lui contemporanea.
Il distacco dal modello dannunziano non poteva essere più netto, sottolineato in un suo scherzo da un’ironia che allude anche ad un diverso e più realistico uso del linguaggio:
“…Invece che farmi Gozzano
un po’ scimunito ma greggio
farmi gabriel-dannunziano
sarebbe stato ben peggio”
Dopo il già ricordato viaggio in India, compiuto con l’amico Giacomo Garrone, viaggio che lo tenne fuori d’Italia per quasi tutto il 1912, Gozzano iniziò nuovamente a comporre.
Lavorava alle “Epistole entomologiche”, un’opera singolare, pubblicata solo in parte e rimasta incompiuta, scritta in endecasillabi sciolti, ed ispirata ai poemi didascalici settecenteschi.
Osservando la vita degli insetti, quei versi trattavano in realtà della fragilità e della delicatezza della poesia con un lessico tecnico e filosofico innovativo e calzante.
Fu in quel periodo che Guido iniziò una regolare corrispondenza con due sorelle triestine, Silvia e Alina Zanardini, che organizzavano a Torino eventi molto seguiti, serate di musica e poesia.
Gozzano spedì loro “Prologo”, un componimento poetico scritto espressamente per l’inaugurazione della rassegna, poi, nel 1915, dedicò alle sorelle il poemetto “Carolina di Savoia”, e successivamente l’altro lavoro, “Ah difettivi sillogismi”.
Nel 1916 il poeta prese l’impegno di scrivere la sceneggiatura di un film, una pellicola che avrebbe trattato la vita di San Francesco, poi, prima di partire come di consueto per la riviera ligure, spedì a Silva Zanardini un poemetto drammatico destinato ad essere la sua ultima prova poetica: “La culla vuota”.
In luglio, infatti, Gozzano ebbe un forte sbocco di sangue in seguito al quale venne ricoverato all’ospedale di Genova.
L’aggravarsi delle sue condizioni lo portò a morire il 9 agosto di quello stesso anno. Aveva solo trentadue anni.
Per via della Grande Guerra, che era nel pieno del suo corso, ai suoi funerali, oltre ai familiari, parteciparono quei pochi suoi amici che non erano stati spediti al fronte.
Venne sepolto nel cimitero di Agliè.
Oltre alla produzione poetica, essenza stessa della sua opera, Gozzano ci lascerà anche una nutrita produzione in prosa: moltissime fiabe, delle recensioni e i già citati articoli che scrisse nel corso del suo viaggio in India.
Un anno dopo la scomparsa di Guido, sua madre pubblicherà una raccolta di fiabe, “La principessa si sposa”, con un’appendice nella quale figuravano poesie inedite dedicate ai bambini, tra le quali la delicatissima “La notte santa” in cui si descrive la nascita di Gesù.
Poeta solitario, come si è detto, attraverso la lirica di Giovanni Pascoli corresse la sua prima influenza dannunziana, avvicinandosi invece ai poeti del crepuscolarismo, cantori della sfera più intima, esprimendo una poetica dominata dall’attenzione per “Le buone cose di pessimo gusto”, come ironicamente definì lo stesso Gozzano l’oggetto dei suoi versi.
Dopo la prima giovinezza, vissuta con baldanza e vivacità, la consapevolezza della sua malattia lo rese un’anima sofferente, che aspirava a vivere un’esistenza diversa da quella che gli era toccata: questo dissidio interiore rimarrà uno dei motivi cardine della sua opera.
L’aspirazione a piaceri quotidiani che la vita arida che conduceva gli negava, perchè minato dalla malattia, fu per il Gozzano uomo, come per il Gozzano poeta, la ragione del doloroso rimpianto che impregna tutta la sua opera.
La discrepanza tra vita vissuta e vita agognata è chiaramente avvertibile in diversi componimenti, come, ad esempio, “Pioggia d’agosto” nel quale definisce la sua giovinezza “squallida e sola”, mentre del suo sognato amore “per attrici e principesse” ci parleranno per sempre i versi della sua “Totò Merùmeni”
“La Vita si ritolse le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.
Quando la casa dorme, la giovinetta scalza
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino…”.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.