Periodicamente mi prende l’uzzo di rianimare la mia conoscenza della storia della letteratura italiana, restaurando, per quel che si può, la base della vecchia costruzione, oggi pericolante per anzianità, che venne edificata a suo tempo dalla scuola dell’obbligo nei suoi vari passaggi: elementare, media e liceale.
Così, pur avendo costante la pulsione a farlo a causa dell’imperituro amore per i libri, solo ogni quattro o cinque anni, vinta la muffa pigrizia, metto mano davvero ai non pochi libri sull’argomento che ho in casa, sia a quelli in cui la materia viene trattata in maniera capillare e ampia, ovvero le storie della letteratura che si dilatano in parecchi volumi, che ai compendi che sintetizzano l’argomento in un solo libro, più o meno brillantemente esaustivo.
Così, messo il naso tra le nobili polveri, passo lietamente dai secoli in cui il latino scritto andava sempre più divergendo da quello parlato, a quelli in cui da quel punto di partenza si andavano formando in Europa le lingue romanze, buon ultimo tra esse, il nostro volgare.
Mi diverte sempre ripercorrere in pochi capitoli il cammino di uno strumento fondamentale per la nostra vita, come quello della lingua, che nel suo modificarsi, strutturarsi e infine consolidarsi, ha avuto bisogno, in realtà, di svariati secoli.
Sfoglio altre pagine, proseguo nella lettura: serve solo un po’ di attenzione e concentrazione, ed eccomi trasportato velocemente dai primi rozzi contratti d’affari, stilati per necessità in volgare, all’estatico canto di San Francesco, passando dall’aspra fede di Jacopone ai primi ai tentativi di usare artisticamente la nuova lingua, poetando d’amore.
Mi trovo così a passeggiare tra le opere dei tanti italiani attirati da ogni regione d’Italia nel meridione svevo di Federico II, che furono come lui rimatori sulle tracce della poesia provenzale e che in virtù del loro impiego presso la Corte Imperiale, vennero tutti definiti “siciliani”. Continuo a leggere, l’interesse stimolato dalle prime pagine si attizza.
Mi imbatto nei primi nomi di qualche notorietà, quelli di Jacopo da Lentini, Giacomino Pugliese e Percivalle Doria e cerco di rinfrescare vecchi ricordi scolastici quando incontro quelli dei poeti di maggior talento, come Rinaldo d’Aquino e Cielo d’Alcamo. Ecco, sì, mi pareva di aver già sentito parlare più volte del suo “contrasto”.
In un battibaleno seguo le tracce dei siciliani e vedo arrivare in Toscana l’influenza del loro lavoro che, lì giunto, va modificandosi, innestato su elementi linguistici locali, e arricchirsi in virtù di uno scambio più robusto di temi e stili col linguaggio quotidiano.
Mi appunto altri nomi, alcuni dei quali oggi suonerebbero bizzarrissimi: Meo Abbracciavacca di Pistoia, Pucciandone Martelli da Pisa, Folcacchiero dei Folcacchieri e infine Guittone d’Arezzo, il più noto di essi. Poesia d’amore e di ispirazione religiosa risuonano entrambe nei suoi versi.
Sono ormai ben piantato nel Milleduecento, e per il tramite di una figura letterariamente intermedia, come Chiaro Davanzati, già intravedo quel gruppetto di poeti che compose liriche amorose e che nel canto XXIV del Purgatorio venne definito da Dante, che vi fu compreso, come quello del Dolce Stil Novo.
A questo punto, remotissima, una nozione che stazionava nel limbo della mia testa prendendo polvere, raffiora improvvisa nella mia mente: è un mezzo miracolo che me ne rammenti.
Compariva tra queste figure di poeti una donna e, oltre che per il fatto di essere l’unica in un consesso del genere, ne ricordo bene il nome perché all’epoca dei miei studi liceali mi suonava particolarmente aggraziato: Compiuta Donzella.
La trovo in effetti citata nella storia della letteratura che sto leggendo ora, ma è un cenno breve in cui semplicemente la si riconosce come apprezzata autrice di tre sonetti.
Non mi basta: stiamo parlando in sostanza della prima donna della letteratura italiana nascente e sento la necessità di sapere di più sul suo conto. Ed ecco che, cercando, qualcosa di lei, non moltissimo in verità, viene restituito dal profondo di così tanti secoli.
Sappiamo dunque che nella seconda metà del 1200 Firenze fu la città che aveva acquisito una netta predominanza politica sulle altre forti città toscane, come Lucca e Siena, piegandole alla propria egemonia.
Di conseguenza assunse anche la funzione di maggior guida culturale del suo tempo: la sua classe dirigente faceva della raffinatezza e dell’arte una questione di status, favorendone concretamente la fioritura.
Lo Stil Novo vi si era affermato ed era un genere che accomunava alcuni poeti che parlavano d’amore attraverso uno stile ricercato, legando l’eros alla elevazione religiosa, tipica del medioevo.
Alla donna oggetto d’amore si attribuiva natura angelica adorandola, e rendendola uno strumento di ricongiungimento tra il poeta, preso da amore, e Dio.
Tra gentilezza d’animo e amore si stabiliva un legame indissolubile. È in questo periodo e in un tale contesto che nacque Compiuta Donzella, la prima figura femminile della nostra storia che abbia composto versi poetici in volgare.
È difficile stabilire se il suo fosse un nome reale oppure uno pseudonimo, perché quel nome, Compiuta, cioè perfetta, piena di virtù, era abbastanza comune a Firenze e Donzella stava ad indicare di solito una ragazza ancora non maritata.
D’altro canto gli studiosi orientati a considerare Compiuta Donzella uno pseudonimo ipotizzavano addirittura che dietro vi si celasse un letterato maschio, forse lo stesso Chiaro Davanzati.
Questa ipotesi è risultata tuttavia minoritaria, poco attendibile.
È del tutto evidente che in un’epoca nella quale imperava l’analfabetismo, soprattutto quello femminile, la perizia nel verseggiare di questa poetessa lascia pensare fondatamente che ella abbia ricevuto un’istruzione di livello tale da essere del tutto inusuale per una donna.
E altrettanto insolito è il fatto che il raffinato e vivace ambiente letterario fiorentino, un universo tutto maschile, sia stato così prodigo di riconoscimenti verso la sua persona e la sua opera.
Per lei spesero elogi Il Maestro Rinuccino, Il Maestro Torrigiano, che la definì “divina sibilla”, Guittone d’Arezzo e Chiaro Davanzati.
Due dei suoi tre sonetti, le uniche composizioni che ci siano pervenute, ci dicono che Compiuta Donzella sentì costantemente la vocazione religiosa e di una vita appartata, ma che fu fatta maritare suo malgrado dal padre:
Lasciar vor[r]ia lo mondo e Dio servire
e dipartirmi d’ogne vanitate,
però che veg[g]io crescere e salire
mat[t]ezza e villania e falsitate,
ed ancor senno e cortesia morire
e lo fin pregio e tutta la bontate:
ond’io marito non vor[r]ia né sire,
né stare al mondo, per mia volontate.
Membrandomi c’ogn’om di mal s’adorna,
di ciaschedun son forte disdegnosa,
e verso Dio la mia persona torna.
Lo padre mio mi fa stare pensosa,
ca di servire a Cristo mi distorna:
non saccio a cui mi vol dar per isposa.
Non dubitando più della sua reale esistenza, sappiamo oggi che la stima che la circondò fu tale che i suoi sonetti furono raccolti nel pregevole Codice Vaticano Latino 3793, un’antologia dei più importanti poeti in volgare del tempo, che comprendeva gli autori della Scuola Siciliana ed i toscani prestilnovisti. Conosciamo anche il plauso di Guittone, che così si rivolgeva a lei in un famoso panegirico:
Soprapiacente donna, di tutto compiuto savere,
di pregio coronata, degna mia Donna Compiuta,
Guitton, vero devotissimo fedel vostro, de quanto el vale e po’,
umilmente se medesmo raccomanda voi.
Parole e versi che esprimevano altrettanta considerazione vennero spesi anche da altri poeti di fama, come Davanzati, proprio quello sospettato per qualche tempo di aver fatto di lei una sua proiezione femminile, ma sembra anche che piacesse a Guido Guinizelli, il primo degli stilnovisti.
Quello di cui godeva Compiuta Donzella era tuttavia un prestigio che concretamente non doveva comportare nulla di positivo in termini di emancipazione femminile, visto che non riuscì ad evitare la sorte che per lei era stata predisposta dall’autorità paterna e che la sua attività di poetessa, ad onta dell’ammirazione dei grandi letterati nei suoi confronti, non la mise al riparo dall’incomprensione della maggioranza dei suoi contemporanei.
Ma l’arte aggraziata che connotava i tre suoi sonetti conosciuti ci è giunta intatta nei secoli, commovente anche per una sensibilità contemporanea.
I suoi componimenti rivelavano una perfetta conoscenza dei trovatori provenzali e dei poeti siciliani, accogliendo anche elementi del repertorio popolare dei “contrasti”. Tralasciando tuttavia il fattore per così dire solo “tecnico” nel guardare a queste opere, sul piano della sua riuscita artistica si può concludere che Compiuta Donzella affiancò agli stilemi classici dell’amor cortese, una grande e felice limpidezza espressiva nel descrivere i propri sentimenti.
Una tale felicità lirica la possiamo osservare pienamente nel bellissimo sonetto “A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora”, nel quale la donna usa l’arma della poesia per esprimere ancora una volta il suo rifiuto a maritarsi, contrapponendo la gioia con la quale i giovani amanti vivono il risveglio della natura a primavera, alla sua amarezza per un destino avversato, che le impedisce di goderne a sua volta:
A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut[t]i fin’ amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;
la franca gente tutta s’inamora,
e di servir ciascun trag[g es ‘ inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n’abondan mar[r]imenti e pianti.
Ca lo mio padre m’ ha messa ‘n er[r]ore,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore,
ed io di ciò non ho disìo né voglia,
e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia
Le scarse notizie biografiche in nostro possesso, che la vedono nascere nel corso del 1200, sono altrettanto nebbiose per quanto attiene alla data della sua scomparsa, che genericamente viene indicata come avvenuta a Firenze agli inizi del secolo successivo.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.