Cresciuto in una casa piena zeppa di libri e spinto così da un’emulazione facile a spiegarsi, divenni prestissimo un lettore onnivoro ed insaziabile che, esaurita l’enorme scorta dei libri per ragazzi, trovò subito, vicino e disponibile, sia per quantità che per qualità e varietà, tutto il materiale librario necessario ad arginare una costante fame di letture.
I miei genitori che, come ho appena detto, possedevano una ricca biblioteca domestica, nei primi anni Sessanta presero anche ad acquistare settimanalmente, in edicola, i romanzi pubblicati negli Oscar, la neonata collana di narrativa contemporanea, che nel campo potenzialmente ricchissimo delle pubblicazioni tascabili, fu la risposta editoriale che la Mondadori diede alla famosa Biblioteca Universale della Rizzoli.
Una volta che le ebbi scoperte, tante delle opere pubblicate in quella collana segnarono il mio passaggio dalle letture infantili a quelle adulte, con tutto ciò che un passo di questa rilevanza poteva comportare.
Tra i primi romanzi che ricordo di aver letto in quel frenetico periodo di formazione, c’era senz’altro “Un amore”, di Dino Buzzati, un testo che mi mise addosso un po’ di subbuglio per via del tema che trattava, ma soprattutto per il tratteggio della personalità della sua giovane protagonista, Laide, capace di introdurmi ai turbamenti dell’età adolescenziale.
Quei turbamenti, ancora in bozzolo, deflagrarono e divennero veri e propri tumulti, quando lessi “Claudelle”, un romanzo dello scrittore americano Erskine Caldwell.
Quel nome mi era del tutto sconosciuto e se scelsi di leggere quel libro i motivi, piuttosto che nella notorietà, per me inesistente, del suo autore, erano da ricercarsi nelle brevi frasi stampate sul suo dorso, che ne tratteggiavano il contenuto, e nell’attraente immagine femminile disegnata in copertina.
Lo divorai e, com’era naturale che fosse alla mia età, più che dalla cruda descrizione dell’ambiente di una piccola cittadina del sud degli Stati Uniti, fui infiammato dall’aria di sensualità accesa che dominava la narrazione.
Ci vollero più tempo ed altre letture della sua produzione, perché riuscissi a farmi un’idea più completa ed obiettiva del’opera di Caldwell, apprezzandola infine come meritava.
E’ singolare che uno scrittore così attuale ed incisivo, un’autore che a suo tempo vendette decine di milioni di copie in tutto il mondo, sia attualmente così poco ristampato da noi, e così poco conosciuto dalla maggioranza dei lettori italiani di oggi.
Per il posto che ha occupato in una generazione importantissima di scrittori americani e per la qualità e la forza del suo discorso narrativo, penso che valga assolutamente la pena di ricordarlo, raccontandone brevemente la vita e le opere.
Erskine Preston Caldwell nacque nel 1903 a Moreland, frazione di White Oak, una piccola località della Georgia vicina ad Atlanta, in una casa in mezzo ai boschi
Era figlio di Ira, un pastore presbiteriano discendente da antenati scozzesi e irlandesi che avevano combattuto contro gli inglesi nella Rivoluzione americana; sua madre, invece, una donna molto colta, apparteneva ad una importante famiglia di latifondisti della Virginia.
La vita dello scrittore fu direttamente influenzata da un’infanzia senza radici a causa dei trasferimenti ai quali era soggetto il suo nucleo familiare, che seguiva gli spostamenti del padre, continuamente assegnato a nuove chiese.
I Caldwell vagarono quindi per tutti gli Stati Uniti del sud e questo ebbe notevoli conseguenze sul corso degli studi di Erskine, che non furono mai completati anche se il ragazzo frequentò prima una scuola presbiteriana, poi dei corsi di scienze sociali all’Università di Virginia.
Pur non avendo fatto un percorso di studi regolare, Erskine avvertì presto la vocazione dello scrittore, cosicchè, nel suo caso, avvenne quello che capitò a molti altri romanzieri americani: avendo comunque talento nello scrivere, il suo fu forgiato più dall’esperienza di vita che dalle sue letture.
Alto, atletico e di aspetto gentile, nella prima giovinezza il ragazzo passò da un lavoro all’altro.
Lui stesso raccontò in un libro autobiografico, “Call it experience; the years of Learning how to Write” (Chiamiamola esperienza; gli anni dell’apprendimento del come si scrive) che nel 1926 lasciò infine il giornale di Atlanta per il quale lavorava, per recludersi in una fattoria semiabbandonata nel Maine e cominciare a scrivere.
Per lui quelli furono anni molto duri, anni di privazioni di ogni genere, nei quali tuttavia, riordinandolo prima nella sua mente, cominciò poi a buttar giù tutto il materiale che avrebbe caratterizzato i romanzi del suo cosiddetto “Ciclo del sud” e, più in generale, tutta la sua opera narrativa.
Politicamente, e di conseguenza, tematicamente, le sue simpatie andavano alle rivendicazioni operaie, al mondo dei meno fortunati, al novero, insomma, di quelli che avevano pescato la pagliuzza corta, ovvero i “poveri bianchi” che non avevano trovato spazio nell’opera degli altri narratori southern.
Erano i soggetti rimasti fuori, in particolare, dall’attenzione del maggiore di essi, quel William Faulkner, che aveva cantato semmai la grandezza e la rovina delle grandi famiglie del sud, quelle che componevano la decadente aristocrazia meridionale americana.
Caldwell, al contrario, è stato il cronista dei dannati della Georgia, di quell’umanità povera, sporca, ignorante, svilita e violenta, costretta a misurarsi con le sue pulsioni più primordiali: fame, sesso, prepotenza, paura e vigliaccheria.
La realtà, nei suoi romanzi, veniva descritta senza alcun filtro e priva, com’era, di ogni accento enfatico, metteva sotto gli occhi del lettore un realismo senza alcuna traccia di moralismo.
Protagonista assoluta delle sue storie era dunque la cosiddetta “white trash”, la spazzatura bianca, che nella sua miseria, ignoranza e degradazione, non aveva nulla di eroico, rimanendo lontana nella concezione di Caldwell, anche dai protagonisti dei libri del suo contemporaneo Steinbeck, mai privi di un certo alone epico.
Quanto allo stile, lo scrittore, sia pure in modo ancora più diretto e disadorno, poteva invece essere accostato in parte a quello di Steinbeck, o di Scott Fitzgerald.
Il risultato della sua solitaria elaborazione nel Maine fu, come si è già accennato, l’inizio del “Southern Cyclorama”, il ciclo di romanzi che avrebbe fatto di Caldwell uno dei maggiori esponenti della letteratura sociale americana, quella che avrebbe narrato senza aggiustamenti le conseguenze che la Grande Depressione del 1929 ebbe sulla massa della popolazione più indifesa.
I primi due libri ad essere stampati furono “Il Bastardo”, che uscì proprio nel 1929 e “Un povero scemo”, pubblicato nel 1930.
In quello stesso anno lo scrittore aprì una libreria nel Maine, insieme con Helen, la sua prima moglie.
Se le sue uscite di esordio non avevano ricevuto una particolare attenzione, il successo e la notevole fama che Caldwell ottenne in seguito, si dovettero in gran parte ai due romanzi successivi: “Tobacco Road”, “La via del tabacco”, uscito nel 1932, una storia che ebbe fortuna anche nella sua trasposizione teatrale, ed il seguente “God’s Little Acre”, “Il piccolo campo”, del 1933, dal quale, molti anni dopo, nel 1958, il regista Anthony Mann trasse la sceneggiatura del film, omonimo.
C’è da ricordare che quei suoi romanzi non ebbero mai vita facile con le autorità: le copie de “Il bastardo”, solo per via del titolo, che senza alcun approfondimento fu preso per un insulto, vennero sequestrate.
La vicenda toccata al “Piccolo campo” fu ancora più complicata: su istigazione della New York Society for the Suppression of Vice, che non aveva troppa simpatia per Caldwell e per le sue tematiche, gli venne intentata una causa legale che portò addirittura al suo arresto, eseguito mentre in una circostanza pubblica, stava autografando alcune copie del libro.
Dopo un secondo sequestro delle copie del romanzo, il processo che ne seguì scagionò del tutto lo scrittore, che potè rivalersi sporgendo una controdenuncia per l’arresto subito e per la persecuzione immotivata alla quale era stato sottoposto.
Contemporaneamente alla pubblicazione dei suoi romanzi di quel periodo, Caldwell scrisse e pubblicò anche due volumi di racconti.
Il suo nome e la sua opera, alla luce dello scalpore che avevano destato, erano divenuti sinonimo di scandalo nell’America di quegli anni.
Le polemiche causate dal “Piccolo Campo”, proseguirono anche in relazione ad un successivo romanzo, uscito nel 1935, “The Journeyman”, “Il predicatore vagante”.
Lo scrittore non se ne curò più di tanto, ma quando lo “scandalo” arrivò infine al Congresso degli Stati Uniti, finalmente Caldwell si decise ad intervenire, e lo fece alla sua maniera: prima con un articolo uscito sul New York Times, poi con un libro inchiesta, “You have seen their faces”, “Voi avete visto le loro facce”, che denunciava le condizioni in cui versava la gente del sud in seguito alla Grande Depressione.
Quel libro documento era corredato dalle immagini scattate da una grande fotografa, Margaret Bourke White, che Caldwell sposò nel 1939, inaugurando un menage matrimoniale che durò appena tre anni.
Sulla falsariga di “You have seen their faces”, lo scrittore successivamente produsse altri libri che rimanevano a metà tra la saggistica e la cronaca, opere come “North of the Danube” e“Say is This the U.S.A.?”.
Al culmine del secondo conflitto mondiale, Caldwell ebbe dall’Unione Sovietica il permesso di lavorare in Ucraina come corrispondente estero, documentando gli effetti terribili della guerra in quel paese.
Il risultato furono altri due libri inchiesta ed un racconto breve, “Sylvia”, scritto al ritorno in patria, che testimonia la sua delusione per lo stalinismo, i suoi intrighi ed i suoi crimini politici.
Negli anni Quaranta lo scrittore riprese anche la sua produzione letteraria.
Altri romanzi andarono quindi ad aggiungersi a quelli che avevano inaugurato il suo ciclo più importante, titoli come “Trouble in July”,“Fermento di luglio”, una cruenta storia di razzismo; “Tragic Ground” “Terra tragica”; “A Place Called Estherville”, “Un luogo chiamato Estherville” e “Episode in Palmetto”, “Episodio a Palmetto”, pubblicato nel 1950
Dopo la guerra Caldwell si era intanto stabilito a San Francisco.
Negli ultimi vent’anni divise equamente il suo tempo tra una vita abbastanza ritirata in California ed una fatta di molti viaggi per il mondo.
In queste sue peregrinazione portava abitualmente con sé delle agendine sulle quali segnava gli spunti di riflessione che i vari paesi visitati gli suggerivano, ma nessuna di quelle agendine venne mai pubblicata.
Erskine Caldwell morì nel 1987 per le conseguenze di un tumore ai polmoni e fu sepolto in Oregon.
Staccatosi da molta parte della narrativa sua contemporanea, lo scrittore, come si accennava, viene ricordato per aver descritto il mondo aspro dei perdenti per nascita, caratterizzato da spinte estreme: fame, precarietà, depravazione come sfogo di esistenze schiacciate, delirio religioso, razzismo, linciaggi e alienazione del diverso.
I suoi romanzi e le sue tematiche, la sua capacità di descrivere il lato più disperato e basso di un’umanità senza speranza, fanno, insomma, di Caldwell un narratore dalla spiccata modernità, una lettura che sorprenderebbe gli innumerevoli appassionati della letteratura americana di oggi.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.