L’umorismo è evidentemente una forma di espressione connaturata alla nostra mente.
Uno dei suoi prodotti più pregiati, la satira, combina l’intelligenza con la comicità, riuscendo ad elaborare sintesi fulminanti di realtà complesse, di situazioni, di caratteri umani, di vizi delle società e dei suoi vari regimi politici.
Autori come il greco Aristofane, vissuto in grecia quattro secoli prima di Cristo, o i romani Orazio, Giovenale, Marziale e Petronio, ci forniscono le prove delle origini remote della satira come genere letterario, e della sua universalità.
Rileggerli oggi ci restituisce intatta un’impressione forte di attualità, di vivezza e di modernità.
Nata dunque con l’uomo, nel corso dei secoli la satira si consoliderà sempre più, si affinerà costantemente, fino a che, nell’Inghilterra del XVIII° secolo, verrà inventata la vignetta satirica, che accrescerà enormemente la sua capacità di incisività, diffusione e penetrazione, già potenziate in precedenza dall’invenzione della stampa, dal suo espandersi e dal moltiplicarsi dei giornali e degli altri prodotti su carta stampata.
Il primo quotidiano satirico illustrato del mondo nacque tuttavia in Francia: “Le Charivari” (la fischiata) iniziò infatti le pubblicazioni nel 1832, dimostrando subito di voler prendere a bersaglio la monarchia.
Tra alti e bassi riuscì ad uscire per oltre un secolo, annoverando tra i suoi collaboratori caricaturisti di gran fama come Gustave Dorè e Honoré Daumier o fotografi eccelsi come Nadar.
Pochi anni dopo venne fondata in Gran Bretagna la rivista “Punch”, cardine dello humour inglese, sempre sottile e lontano dalle volgarità.
Da Thackeray a P.G. Woodehouse, nel corso del tempo, più sfumati o più taglienti che fossero, tanti brillanti scrittori ne hanno arricchito le pagine.
Quasi alla fine dell’Ottocento anche in Germania la satira politica si dotò di un suo settimanale principe: il “Simplicissimus” per parecchi decenni si distinguerà per il suo orientamento anticlericale e anticlassista, ospitando i contributi di scrittori come Thomas Mann e Rilke, e di artisti famosi come Barlach, Corinth, Kubin, George Grosz, Kathe Kollwitz e altri ancora.
Fu Wedekind, l’autore di “Lulù”, seppur restando anonimo, a coniarne il motto: “Svegliare la pigra nazione con parole brucianti”.
L’impegno fu mantenuto fino al 1933 quando la rivista, devastata dai nazisti, furibondi per una vignetta di scherno ad Hitler, fu costretta a chiudere.
E in Italia? Chi si assunse l’incombenza di fare satira nel nostro paese?
Prima ancora che il Simplicissimus in Germania, e precisamente nel 1892, nacque “L’Asino”, un settimanale satirico influenzato da simili pubblicazioni francesi.
Ne furono animatori Guido Podrecca, detto Goliardo, penna acuta e pungente, ed il disegnatore Gabriele Galantara, detto Rata Langa, aggressivo nel tratto ed impietoso nei temi.
Entrambi di orientamento socialista si schierarono contro Giolitti e contro la corruzione della classe politica, contro il Vaticano ed il clericalismo, ed infine, dopo la Grande Guerra, contro il fascismo.
Le leggi sulla stampa, varate dal governo Mussolini, permisero nel 1925 la soppressione del giornale, fatto già segno in precedenza di minacce e di aggressioni.
Nel 1924 il giornalista Alberto Giannini, un passato da redattore de Il Messaggero, fondatore nel 1921 del giornale antifascista “Il Paese”, soppresso quasi subito, iniziò a pubblicare un nuovo settimanale.
Si chiamava “Il Becco Giallo”, definito “organo dinamico di opinione pubblica”.
Giannini, socialista e, a suo tempo interventista, già nel primo numero manifestò chiare le sue intenzioni:
“(…) e appoggiamo perciò, con tutte le nostre energie l’opposizione la quale, al regime fascista di dittatoriale violenza che ha invertito tutti i valori morali e col terrorismo ha asservito l’Italia ad una banda di predoni, resiste eroicamente sfidando ogni giorno le più brutali aggressioni e lotta per la libertà soppressa, per la millenaria giustizia italiana conculcata, per la riconquista delle guarentigie costituzionali, per ridare prestigio all’Italia oggi isolata nel mondo”.
Il giornale era stampato su carta gialla e nella testata presentava il disegno di un merlo col becco aperto, ma dopo qualche tempo, visti i ripetuti sequestri e le censure fasciste, lo stesso merlo venne raffigurato col becco chiuso e serrato da un lucchetto.
Giannini per la sua nuova creatura aveva messo insieme un gruppo di intellettuali di prim’ordine, tra i quali i filosofi Guido De Ruggiero e Adriano Tilgher, uno dei firmatari del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, e lo scrittore Corrado Alvaro.
Il successo del giornale fu vasto e immediato e la pubblicazione arrivò quasi subito ad una tiratura di 450.000 copie.
Tra coloro che seguivano con simpatia ed interesse il lavoro del Becco Giallo, c’era il deputato socialista Giacomo Matteotti, che si recò più volte di persona nella redazione, spronando i giornalisti a “Coprire di ridicolo e denunciare all’opinione pubblica la banda gonfia di vanità e di appetiti che si è impadronita del Paese”.
Rispetto ad altri giornali antifascisti ancora attivi in quegli anni, come “Il Mondo”, fondato nel 1922 da Giovanni Amendola, “Il Popolo”, vicino al Partito Popolare di Don Sturzo, e “La Voce Repubblicana”, il Becco Giallo era certamente più diretto e risoluto.
Si colpivano senza troppi riguardi i gerarchi, i fiancheggiatori del fascismo, gli approfittatori e i voltagabbana.
Se gli squadristi in camicia nera venivano svergognati a dovere, certo non venivano risparmiati nemmeno gli alti papaveri di regime, che venivano sbeffeggiati anche per la loro vita privata: Farinacci era sfottuto per il suo incerto italiano e per la passione per una cantante lirica, mentre il quadrumviro Bianchi veniva pizzicato per la sua cotta per Anna Fougez, diva del varietà.
Anche le glorie letterarie erano coinvolte senza riguardi nel gioco satirico, così Luigi Pirandello fu ribattezzato P. Randello per le sue esagerate dichiarazioni pubbliche di ammirazione per Mussolini.
Naturalmente le reazioni del regime furono leste: nel corso della sua breve esistenza la rivista subì parecchie devastazioni e aggressioni.
Ci furono numeri del giornale che ebbero bisogno di cinque edizioni consecutive per arrivare a purgare progressivamente i contenuti quanto bastava a permetterne l’uscita.
Il fondatore Giannini collezionerà addirittura una ventina di sfide a duello, uscendo sempre quasi indenne dai relativi scontri, potendo contare sulla sua abilità di schermitore.
Dovette subire comunque anche numerose aggressioni fisiche, una delle quali portatagli dalla famigerata Banda Dumini, gruppo colpevole del rapimento e dell’assassinio di Matteotti.
Anche Corrado Alvaro sarà costretto ad interrompere per alcune settimane la sua collaborazione per riprendersi da un brutale pestaggio.
Il disegnatore Galantara sperimentò l’arresto, la reclusione ed infine il rilascio.
Quando venne ritrovato il corpo di Matteotti, il Becco Giallo non si perdette in fumose ipotesi: pubblicò subito una vignetta in cui un Mussolini pelato e mascelluto sedeva, con tutta la proverbiale protervia, sulla bara del deputato ucciso.
Sempre più spesso squadre di fascisti si impossessavano illegalmente delle copie del Becco Giallo che arrivavano alle edicole, bruciandole subito dopo.
Nonostante tutto, la tiratura della rivista riuscì a raggiungere la clamorosa tiratura di 600.000 copie.
Il successo di una iniziativa di questo genere divenne insopportabile per un regime totalitario come quello fascista: basandosi sulle leggi restrittive della libertà di stampa, strumento principe di tante soppressioni, anche per “Il Becco Giallo” arrivò il provvedimento di chiusura. Il 31 gennaio del 1926, dopo due anni di vita orgogliosa quanto spericolata, la rivista pubblicò il suo ultimo numero.
Era costituito da quattro pagine quasi completamente bianche e da un congedo in poesia, ironico ed amaro:
Lettori, che magnifica trovata!
Per tutelare i nostri sacri diritti
Questa pagina abbiamo destinata
Ad articoli non puranco scritti
Nonché a disegni spiritosi e belli
Rimasti chiusi nei nostri cervelli.
Basta la mossa! Noi ci comprendiamo:
quello che voi pensate, lo sappiamo.
Ragion per cui, a scanso di disgrazie,
Lettori cari, Arrivederci e Grazie!
Le pubblicazioni ripresero fuori d’Italia, a Parigi nel 1927, ma lo spirito e l’impatto della rivista originale non furono più recuperati.
Giannini, peraltro, nel 1931 virò di orientamento divenendo sostenitore del regime e, tornato in patria, sconfessò le sue precedenti posizioni politiche.
Molti collaboratori del “Becco Giallo” finirono per confluire prima in un altro periodico, il “Marc’Aurelio” e successivamente, nel “Bertoldo“, pubblicazione di gran qualità, ma prudentemente improntata più ad un umorismo surreale che alla rischiosa satira politico sociale.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.