Figura controversa nel panorama europeo tra la fine del Quattrocento e la metà del secolo successivo, Giovanna nacque a Toledo il 6 novembre 1479, terzogenita del re d’Aragona Ferdinando II e della regina di Castiglia e León, Isabella I la Cattolica.
La politica matrimoniale, tipica per l’epoca, dei Re Cattolici, come li aveva titolati papa Borgia, era sempre attenta a intrecciare unioni utili agli interessi della casata sul piano internazionale.
Per quanto riguarda Giovanna fu deciso che sarebbe diventata moglie di Filippo d’Asburgo, detto il Bello, figlio dell’imperatore Massimiliano I.
Questa unione fu considerata una delle scelte di politica matrimoniale meglio riuscite nella storia europea: i due si piacquero sin da principio e il loro figlio Carlo V, sarebbe divenuto possessore di un territorio vastissimo oltre che imperatore di un “regno su cui non tramontava mai il sole”.
Ricordiamo tuttavia Giovanna per la questione, vera o presunta che fosse, della sua follia.
Gli studi di Gustav Adolf Bergenroth e di Karl Hillebrand hanno gettato nuova luce su un fatto storico archiviato frettolosamente sotto la voce pazzia.
Quel fatto vide vittima non solo una regina ma una donna sacrificata non solo alla ragion di Stato, ma anche all’egoismo personale di un padre prima e di un figlio poi, con un breve intermezzo coniugale in cui un marito colpiva negli affetti una donna, la cui vera colpa era di essere regina e che fin da ragazza dimostrò di avere un carattere anticonformista, anche in ambito religioso, e questo in una fase storica in cui la religione era uno degli elementi portanti dell’identità nazionale ispanica.
Infatti una volta ultimata la Reconquista, ovvero il lunghissimo periodo di tempo nel quale gli eserciti cristiani riuscirono a sconfiggere i regni moreschi insediati nella parte meridionale della penisola iberica, permanevano comunque delle tensioni politico-religiose.
Si era nella fase di consolidamento del potere reale E sotto l’aspetto socio-religioso rimaneva insoluto il problema dei musulmani (moriscos) e degli ebrei, problema che venne poi risolto drasticamente con l’espulsione delle due comunità prendendone i patrimoni.
La freddezza di Giovanna nei confronti della Chiesa e l’insofferenza per i metodi clericali, in un contesto simile, si rivelarono una miscela esplosiva.
Questo atteggiamento le scatenò contro la madre Isabella e la parte più retriva della gerarchia cattolica e non ultimo il re Ferdinando II d’Aragona, che faceva della Chiesa lo strumento di costruzione del consenso nella recente unità nazionale.
L’infanzia di Giovanna fu solitaria ed infelice come quella di tanti principi sacrificati, ancora bambini, alla ragion di stato.
Era una bambina silenziosa e molto sola, divenne poi un’adolescente ribelle e problematica per via della citata conflittualità con la madre.
Fu indubbiamente nell’adolescenza che cominciarono a manifestarsi segnali di quel disturbo alimentare, che oggi sarebbe definito come un alternarsi di bulimia e anoressia, un problema che poi la accompagnerà per tutta la sua vita.
All’età di 17 anni Giovanna venne data in sposa a Filippo d’Asburgo: il viaggio per raggiungere la sua nuova corte fu lungo e Giovanna si separò dalla sua terra nell’agosto del 1496, quando il mare lo permise: partire via terra attraversando la nemica Francia era impensabile.
Il 21 ottobre 1496 a Lier furono celebrate e consumate le nozze perché Filippo era rimasto talmente affascinato dalla bellezza di Giovanna da volerla sposare nel giorno stesso del suo arrivo nelle Fiandre.
I cortigiani vedevano già Filippo e Giovanna come una coppia perfetta.
Giovanna si trasferì presso la corte fiamminga, trovandola molto raffinata, molto più vivace di quella dall’austerità bigotta cui era abituata in Spagna.
Gli sposi si insediarono a Bruxelles dove nacque la loro prima figlia, Eleonora.
La prematura morte di suo fratello Giovanni, pochi mesi dopo la nascita di Carlo, secondo figlio di Giovanna, fecero sì che Giovanna divenisse l’unica erede al trono di Castiglia.
Se il matrimonio era stato un successo diplomatico, all’inizio lo era stato anche sotto l’aspetto coniugale, poi le cose pian piano cambiarono.
Giovanna era solita respingere il marito quando questo dava troppa attenzione alle altre dame della corte, riuscendo così ad allontanarlo per mesi dal talamo nonostante le sue scenate da fedifrago.
Nel novembre del 1504, alla morte della madre, si aprì il problema della successione che per Giovanna ebbe sviluppi drammatici e con esso si acuirono anche i problemi coniugali.
Reso folle dall’ambizione, Filippo voleva a tutti i costi impossessarsi del trono che spettava legittimamente alla consorte.
Alla nascita del figlio Ferdinando, Giovanna rimase in Spagna, mentre Filippo tornò nelle Fiandre per motivi politici, e se l’amore è eterno per alcuni, non lo è per altri. Non lo fu per Filippo, ad esempio, che per le cronache cominciò presto ad avere innumerevoli amanti, a frequentare feste e taverne e a dedicarsi ad ogni piacere.
Giovanna non accettava i tradimenti e le scenate si ripetevano eclatanti anche nelle occasioni ufficiali; Filippo rispondeva a volte con indifferenza, a volte, secondo ciò che raccontano gli storici coevi, alzando le mani sull’infelice consorte.
La rabbia di Giovanna fu presto sostituita dall’indifferenza affettiva verso Filippo.
Poi il marito si ammalò, ma Giovanna si rifiutò di abbandonarlo, nonostante fossero ormai nemici dichiarati, e quando lui morì, cominciarono le storie circa le patologie della presunta follia di Giovanna, causata dal dolore per la sua scomparsa.
È facile comprendere che Giovanna, fanciulla diciassettenne, avesse vissuto il matrimonio con Filippo il Bello come un atto liberatorio e, oltretutto, avesse sviluppato un forte sentimento d’amore verso lo sposo, sentimento che si accorse ben presto essere ricambiato con tanta ipocrisia e calcolo.
Inoltre lei aveva manifestato anche nelle Fiandre il proprio temperamento poco ortodosso verso la religione, così aumentò il disappunto della madre Isabella, puntualmente informata dal frate Tommaso di Matienzo che aveva inviato dalla figlia per recuperarla alla religione e controllarla.
Ai suoi occhi Giovanna appariva quasi un’eretica, pertanto, secondo i canoni del tempo, non poteva essere nel pieno delle sue facoltà mentali.
Questa situazione conflittuale faceva il gioco del padre Ferdinando, che non voleva perdere la Corona di Castiglia a favore della figlia, e del genero, ma anche degli ambienti religiosi collegati al re.
Filippo, d’altra parte, voleva gestire da solo il regno che la moglie avrebbe ereditato e che un’opportuna demenza della stessa gli avrebbe consegnato.
Forse è per questo che Isabella nominò nel suo testamento il marito Ferdinando reggente incondizionato della Corona di Castiglia.
Alla morte di Isabella, nel 1504, Ferdinando assunse immediatamente la reggenza facendola proclamare dalle Cortes.
Immediata ci fu la protesta del genero Filippo che non voleva perdere la Castiglia ed era pronto allo scontro che venne evitato dall’arte diplomatica di Ferdinando.
Si arrivò così all’accordo di Villafáfila col quale Ferdinando cedeva la Castiglia a Filippo, convenendo con un secondo trattato l’esclusione di Giovanna dal governo a causa del suo presunto stato mentale alienato ma, subito dopo, dichiarò di avere subìto un ricatto da parte del genero, che accusò di tenere prigioniera Giovanna, e smentì il trattato appena firmato, affermando che Giovanna doveva mantenere i propri diritti di Regina della Castiglia.
Come detto sopravvenne provvidenziale la morte di Filippo nel 1506, per la quale si sospettò del re Ferdinando, mentre Giovanna diveniva un’ambitissima vedova, erede di una prestigiosa Corona.
Da qui cominciò davvero la tragedia di Giovanna di Castiglia: il padre Ferdinando, reggente, scrisse alle Cortes lamentando la demenza della figlia, causata dall’improvvisa morte dell’amato sposo.
Nacque la leggenda, opportunamente esaltata e diffusa principalmente a corte, degli strani comportamenti di Giovanna, vedova inconsolabile, verso il feretro del marito, comportamenti di cui non vi è documentazione o testimonianza che non provenga dagli ambienti di corte.
Un cronista di corte scrisse:
“In nessuna epoca si è mai visto un cadavere, estratto dalla tomba e imbalsamato, portato da un tiro di quattro cavalli, in una processione funebre così solenne, circondato da una torma di sacerdoti che intonano la preghiera dei defunti”.
Giovanna avrebbe infatti deciso di portare le spoglie funebri del marito a Granada, dove la madre Isabella aveva fatto costruire un mausoleo ed avrebbe deciso di accompagnare il feretro lei stessa, a piedi, circondata da sacerdoti in preghiera.
Era questa una voce piuttosto azzardata, dato lo scarso amore di lei per il clero.
Secondo altre dicerie Giovanna avrebbe rifiutato di far seppellire il marito, che venne imbalsamato e conservato vicino a lei: secondo tali fonti, leggermente di parte, Giovanna parlava per ore con il cadavere, lo accarezzava e lo baciava.
Dalla morte della madre fino alla sua, Giovanna detenne solo formalmente il titolo di regina di Castiglia, in quanto il vero potere fu esercitato da una serie di reggenti, già a cominciare dal padre.
Dopo essere rimasta vedova e fino al 1520, Giovanna venne confinata, per ordine del padre Ferdinando, nel castello di Tordesillas, completamente isolata dal mondo, e vi rimase anche quando la Spagna, ormai unita, passò al figlio Carlo di Gand, diventato imperatore, con il nome di Carlo V.
Il 4 novembre 1517 Carlo si recò in visita alla madre che non vedeva da dieci anni, essendo stato allevato nelle Fiandre dalla zia Margherita.
Di lei non ricordava neppure le sembianze e l’incontro, più che altro, era dettato dalla necessità di ottenere la legittimazione all’assunzione del potere in Spagna, ma la situazione per la povera Giovanna non cambiò.
Carlo temeva le idee poco convenzionali della madre, specie riguardo la religione.
Un governo della madre avrebbe avuto effetti dirompenti sugli interessi del clero e della nobiltà che si erano consolidati con la reggenza di Ferdinando, e avrebbe altresì escluso dalla gestione della corona lui e l’entourage fiammingo di cui era circondato, che si stava arricchendo alle sue spalle.
Una incapacità mentale di Giovanna avrebbe fatto comodo a molti e gli interessati ne erano ben consapevoli.
Carlo continuò la politica familiare del nonno e lasciò la madre prigioniera a Tordesillas.
La reclusione di Giovanna, regina di Castiglia, fu estremamente dura, resa ancora più pesante sia dal rigoroso isolamento a cui fu sottoposta, sia dai tentativi di costringerla a pratiche religiose che lei rifiutava.
Il marchese di Denia, soprattutto, manifestò uno zelo esemplare nella sua funzione di carceriere,
come dimostra la corrispondenza con Carlo V, nella quale ricordava all’imperatore che prima dei sentimenti filiali dovevano venire gli interessi politici.
Denia a volte suggeriva di applicare alla regina la tortura perché questa era utile alla sua salvezza spirituale, affermando di operare nell’esclusivo interesse della corona.
Alla fine del maggio 1520 scoppiò la cosiddetta rivolta dei Comuneros, a capo della quale emerse la figura di Juan de Padilla.
Nell’agosto dello stesso anno i rivoltosi occuparono Tordesillas liberando Giovanna, convinti del suo buono stato mentale e cercando di farla passare dalla loro parte. Giovanna ricevette diverse volte i rappresentanti degli insorti ma non accettò mai di mettersi in contrasto con il figlio.
Fu in questa situazione che con il suo comportamento dimostrò di non essere affatto folle, preservando gli interessi del figlio.
Adriano di Utrecht, vescovo di Tortosa e futuro papa, scrisse a Carlo che tutti potevano testimoniare della sanità mentale di Giovanna precisandogli che:
“vostra altezza ha usurpato il titolo reale e ha tenuto come prigioniera a forza la regina, che è del tutto assennata, sotto il pretesto che è folle”.
La rivolta comunque fu domata e i capi giustiziati.
Giovanna fu ricacciata in una seconda prigionia, ancora più dura e crudele della precedente, sempre sotto la custodia del Denia e fu ridotta in uno stato tale da cui solo la morte potè liberarla: il 12 aprile 1555 smise di vivere, dopo avere rifiutato per l’ennesima volta la confessione.
Morì assistita da Francisco de Borja, che testimoniò della sua lucidità, e fu sepolta nella Cappella Reale della cattedrale di Granada.
Terzogenita dei re Cattolici, Juana di Trastámara è passata ingiustamente alla Storia come la Loca, la Pazza. In realtà, protagonista delle sue tristissime vicende non fu la demenza, bensì la lotta per la corona di Castiglia, da lei legittimamente ereditata da sua madre, ma che troppo faceva gola agli uomini della sua famiglia.
Di bell’aspetto, Juana si distingueva per una cultura superiore alla media delle giovani del suo rango: scriveva in latino, parlava francese, suonava il clavicembalo e la spinetta, sapeva di filosofia, apprezzava la pittura del suo tempo.
Ma si faceva notare anche per essere indisciplinata, volubile, ribelle, vera spina nel fianco della cattolicissima Isabel, la santa, la guerriera, che tentò invano di educarla secondo i suoi principi austeri, dettati da una fede tanto forte da averla voluta difendere da mori, ebrei e miscredenti, istituendo il Tribunale dell’Inquisizione in Spagna.
Lei, però, l’infanta, le teneva testa come nessun altro.
Quella di Giovanna insomma è la storia di una donna sfortunata, che nata figlia di re, fu trattata per più di 45 anni come una reclusa e la cui fiducia fu tradita tante volte, in particolare, dalle tre persone che più aveva amato: il padre, il marito e il figlio!
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.