Franco Sacchetti, il mercante novelliere

Tutti gli ex studenti hanno reminiscenze dei loro trascorsi scolastici che li accompagnano vita natural durante.
O almeno dovrebbe essere così se in quel periodo magico, si sono presi la briga di aprire qualche libro.
Come quasi sempre accade, però, le conoscenze acquisite, quando non siano state in seguito corroborate da un’ulteriore frequentazione post scolastica, stingono nella mente, anno dopo anno.
Svaniscono, inesorabilmente.
Tuttavia quelli che spesso permangono in età adulta, matura o senescente, sono brandelli di memoria che a volte testimoniano unicamente il bizzarro lavoro svolto dalla nostra personale selettività.
Sì, perché, paradossalmente, è difficile che si salvino proprio i concetti cardine di tante discipline, l’essenziale insomma, invece, al contrario, è facilissimo che sopravvivano meravigliosamente in noi certe buffe nozioni, citazioni e memorie di fatti trascurabili della storia o di altre materie, piccole parti avulse dal contesto in cui sono avvenuti.
Il superfluo, in una parola.
“Merde!”.
Moltissimi, alla faccia delle studiate italiche glorie e dei nostri “Tiremm innanz”, frasi che dovrebbero essere murate per sempre nella memoria, vanno invece a ricordare nientemeno che un colonnello straniero, il francese Cambronne, che pare abbia strillato questa brutta parola al nemico che gli chiedeva di arrendersi.

In tanti ricordano quella scheggetta di fatto, ma magari non sanno affatto chi fosse Pierre Cambronne e in quale circostanza ebbe a pronunciare il celebre, scatologico insulto.
Un classico di questi mozziconi residui di cultura scolastica, è il frammento di poesia errante, quell’unico verso che ti rimane in testa per sempre, ma che invariabilmente galleggia nell’oblio totale del resto dell’ode.
Io sono stato perseguitato tutta la vita da questo incipit:

“Quando Orion dal cielo declinando imperversa
e pioggia e nevi e gelo
sopra la terra ottenebrata versa…”

Sì, bello tosto come incipit, niente da dire, tempestoso ed incisivo, fico, insomma, ma poi??
Di tanto in tanto mi veniva in testa, ma di quel che seguiva quell’incipit non ricordavo nulla, nulla di nulla.
Spesso, senza un motivo che non spettasse ad uno psicologo rintracciare, ricominciavano a girarmi in mente quei versi: “Quando Orion dal cielo…”
Buio su tutto il resto, come ho già detto: ricordavo solo che l’ode, che era di Parini.
Ora, nell’era della rete, posso permettermi di non andare a scartabellare tutte le mie storie della letteratura o le antologie, per rintracciare il titolo della poesia, che, per la cronaca, è “La caduta”, e leggerla per intero.

Giuseppe Parini

Un discorso diverso riguarda le meteore, cioè quegli autori che dalla dottrina letteraria mainstream vengono considerati minori e che all’epoca del nostro liceo, se avevano fortuna venivano appena nominati, senza naturalmente divenire oggetto di studio, altrimenti i meschinelli non li trovavi nemmeno menzionati nei testi.
Soprattutto nell’ambito affascinante della letteratura italiana delle origini e dei primi secoli, tra i tanti che si provavano a scrivere in volgare, emergevano figure destinate ad una comoda immortalità, i giganti: Guittone, Dante, Petrarca, Boccaccio e compagnia bella.
Molti altri, invece, finivano in un agglomerato di autori che dato il poco tempo a disposizione per portare avanti il programma di un anno scolastico, erano destinati a rimanere un pulviscolo di nomi che si aveva licenza di dimenticare.
Uno di questi, un poeta e novelliere trecentesco, Franco Sacchetti, mostrava sufficiente forza letteraria per figurare nei libri di testo, ed esservi nominato, (accomunato in genere al suo predecessore Dino Compagni), ma restava comunque in una posizione marginale della classifica di merito: oggi, in gergo calcistico, diremmo che a stento avrebbe potuto trovare un posto per disputare l’Europa League.
Ma perché, visto che dietro questi nomi ci sono spesso fior di scrittori, traditi solo dalla fretta imposta dai programmi di studio, non occuparsi, per una volta, di uno di essi, perché non conoscere qualcosa di più su di lui?
E allora, forza, concediamocelo questo lusso, impossibile all’epoca dei nostri sforzi scolastici.

Franco Sacchetti nacque verso il 1332 e il 1334, non è ben noto l’anno preciso, a Ragusa in Dalmazia, la città che oggi è la bella Dubrovnik, sita in Croazia, ma allora appartenente alla Repubblica della Serenissima.
Venne al mondo in un ambiente mercantile, suo padre, fiorentino, era appunto un mercante, così Franco fin da giovane esercitò la mercatura, compiendo lunghi viaggi, echi dei quali affiorano qua e là nelle pagine delle sue opere.
Da subito esperto del mestiere, costituì una società con Antonio Sacchetti e Antonio Corradi, società che durò fino al 1354, quando lui era appena ventenne.
Visto il suo precoce impegno nel lavoro, presumibilmente non fu in grado di compìere studi regolarissimi, ma il talento per la scrittura e le esperienze di vita che gli permisero di venire a contatto con ambienti e contesti diversissimi, furono per lui elementi assai formativi culturalmente.
Il periodo in cui si trovò a vivere vedeva il primo declinare della letteratura in volgare, un tratto di storia letteraria che dopo la morte di Boccaccio, avvenuta nel 1375, non vide emergere per un bel pezzo opere degne dei capolavori del periodo precedente, tanto che il lasso di tempo che va da quel 1375 al 1475, anno in cui Poliziano pubblicò le sue “Stanze”, cento anni esatti, venne definito “il secolo senza poesia”.

Poliziano ritratto dal Ghirlandaio

Già nel 1354 Sacchetti portò a termine la sua prima opera giovanile, “La battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie”.
A causa della carente educazione culturale, non fu in grado di cogliere i segni della svolta in corso nella società e nella produzione letteraria: sorgeva l’umanesimo, ma lui in quel che scriveva tendeva sempre a riproporre i gloriosi modelli del recente passato.
Compose infatti cacce, madrigali e ballate, materiale che nel 1363 iniziò a raccogliere in quello che sarà il “Libro delle rime”, in cui riversò i componimenti lirici elaborati durante tutta la vita, partendo dalle composizioni già ricordate, per finire alle “frottole¹ e agli scritti morali e civili che predomineranno nella parte finale del libro.

Nel 1354, intanto, Sacchetti aveva sposato Felice Strozzi, sua prima moglie, dalla quale ebbe molti figli.
Nello stesso anno in cui iniziò la raccolta delle sue rime, il 1363, dopo quella puramente mercantile, ebbe inizio anche una seconda fase della sua vita, quella dedicata all’attività politica, fase che negli anni successivi lo vide assumere diverse cariche di rilievo: fu rettore a Montevoltraio, castellano ad Avena, podestà a Mangona, nel Valdarno inferiore, fu capitano della Lega a Cascia (all’epoca, come si può vedere, i “capitani” della Lega si presentavano decisamente meglio di quelli odierni) e nel 1372 divenne podestà a Firenze.
La peste del 1374 segnò per sempre il suo indirizzo letterario, unitamente ad altri eventi per lui significativi, come la morte dei due grandi, Petrarca e Boccaccio, o lo scoppio della guerra degli Otto Santi².
Da queste vicende gli venne un contraccolpo morale che lo portò a stemperare l’aspetto di puro diletto presente nella sua produzione letteraria e ad incrementare quello di carattere etico e civile.

La peste in una immagine medioevale

Nel corso della guerra ebbe funzioni di ambasciatore a Bologna e le stragi a cui assistette lo portarono a suggerire, con sempre maggiore impegno, la via diplomatica.
Mentre fungeva da podestà nel Casentino, nel 1377, morì sua moglie, che era stata ispiratrice e destinataria di gran parte delle sue rime giovanili.
Seguì per lui un periodo di silenzio, dettato da rilevanti eventi pubblici e da fatti privati, quali il tumulto dei Ciompi³, tra i primi e la condanna a morte di Giannetto, suo fratello, tra i secondi.
Le sue “Sposizioni dei Vangeli”, del 1381, scritte a Firenze, divenuta stabilmente la sua città, pagine di meditazioni morali e religiose, denunziavano nel frattempo un fatto importante: il suo progressivo accostarsi alla prosa, alla narrativa.
La nuova vena la coltivò intensamente negli anni successivi, anni in cui ricoprì anche diverse cariche pubbliche in altrettanti comuni.
Pare accertato che fu nel periodo in cui fu podestà di Bibbiena, ovvero gli anni 1385/86, che Sacchetti concepì l’architettura, il disegno generale della sua opera più importante, il “Trecentonovelle”.

L’opera constava di 228 novelle sulle 300 progettate, alcune delle quali incomplete, e precedute da un proemio.
L’antologia vedeva questi racconti raccolti tra loro solo in virtù dell’argomento o dei personaggi
Le novelle erano precedute, come si è detto, da un’introduzione dell’autore e frequentemente chiuse da una spiegazione di Sacchetti medesimo, una loro interpretazione autentica, una sorta di valutazione morale, ad opera dell’autore, dell’episodio narrato.
Nel 1396 lo scrittore perse anche la seconda moglie, Ghita di Piero Gherardini, e lo stesso anno si sposò per la terza volta, con Giovanna di Francesco di ser Santi Bruni.
L’anno successivo, la sua tenuta di campagna subì le scorribande devastanti delle bande di Alberico da Barbiano, un celebre capitano di ventura.
Ne conseguì uno stato finanziario dissestato, tanto che, oppresso dal fisco, il letterato chiese che gli fossero ridotte le tasse.
Nel 1400, verso la metà di agosto, mentre era vicario a San Miniato, morì, presumibilmente durante la peste che colpì quei luoghi, revivescenza della tremenda epidemia di una cinquantina di anni prima.
Di Franco Sacchetti, oltre alle voluminose opere già citate, ci resta anche una specie di “Zibaldone” contenente materiale vario: appunti, note, esercitazioni ed un bestiario.
Non c’è dubbio che il meglio della produzione partorita da questa figura eclettica di mercante letterato e diplomatico, stia nel vasto corpus dei suoi racconti.
Il suo “Trecentonovelle”, apice letterario dello scrittore, comprende novelle antiche e moderne, svariate per genere, alcune delle quali narrano storie da lui realmente vissute.

La Firenze del Trecento

E’ un’opera che senz’altro è debitrice del “Decameron”, ma nella quale, oltre al riferimento al capolavoro di Boccaccio, si avverte certamente anche il debito con la tradizione orale dei racconti popolari.
Se nel “Trecentonovelle” molti sono i motivi di derivazione boccaccesca, l’opera, che contrariamente a quanto avveniva nel capolavoro che ne fu modello, era priva di cornici che racchiudessero le varie novelle.
Sotto quell’aspetto si discostava nettamente dal “Decameron”, ed era semmai più rivolta alla tradizione duecentesca della raccolta disorganica, caratterizzata dal gusto per l’aneddoto e per il tono comico-realistico.
Protagonisti delle novelle sono dei signori, funzionari comunali, giullari di professione e burlatori d’occasione: la beffa, genere comico tipico della cultura fiorentina, assume un rilievo peculiare nel corpo dell’opera principale di Sacchetti.

Alcuni protagonisti sono ricorrenti, come il giullare Dolcibene, e molte sono le dediche dell’opera ad illustri personaggi del tempo , quali Bernabò Visconti, Guglielmo di Castelbarco e Ludovico Gonzaga.
Essendo stato Sacchetti per lungo tempo mercante, uomo di commerci, vissuto quindi a contatto con gente d’ogni ceto, conseguentemente trasse da quell’esperienza viva la lingua che adottò nello scrivere, immersa nel gergo popolare e nei dialettismi, ricca dei modi di dire del linguaggio corrente, libera da troppo stringenti vincoli sintattici.
Alla conclusione di quasi tutte le novelle, figura, come si è già osservato, la chiusa morale, la “moralisatio”, cioè l’appendice nella quale l’autore giudica i suo personaggi e e loro azioni.
In questo finale Sacchetti si concede l’ultima parola, la sentenza con la quale può condannare i vizi di avarizia o l’ipocrisia di alcuni dei suoi protagonisti: clero, magistrati corrotti e le donne, che sono spesso rappresentate come tronfie e piuttosto maltrattate da un autore che le considera benignamente solo in relazione alle loro doti economiche o alle loro virtù domestiche.
Le piccole vicende quotidiane, le storie di fatti curiosi o di buffi personaggi, sono quasi sempre racchiuse tra le mura cittadine, così a noi lettori, insieme con il piacere della trama e l’insegnamento della morale finale, si offre un quadro realistico delle realtà municipali e sociali di un’importante città italiana del XIV secolo.

Ritratto di Franco Sacchetti

Note:

¹ Frottole. Erano composizioni popolaresche a più voci, in forma di filastrocche, con motti, pensieri e detti buffi, o volutamente senza senso, accompagnate spesso da strumenti musicali.

² La Guerra degli Otto Santi, che prese gli anni compresi tra il 1375 e il 1378, fu una guerra scoppiata tra lo Stato Pontificio e le città alleate del centro Italia, alla vigilia del rientro papale nella penisola, subito dopo l’esilio avignonese. Capofila della rivolta contro il Papa fu soprattutto Firenze. Gli Otto Santi erano magistrati che rappresentavano le città che avevano stretto alleanza con Firenze, ed erano chiamati così per evidenziare la caratura morale della ribellione.

³ il “Tumulto dei Ciompi fu una rivolta popolare avvenuta a Firenze tra il giugno e l’agosto del 1378. I ceti più bassi e derelitti della città, privi di ogni rappresentanza politica, e sui quali erano stati scaricati i costi della crisi dovuta alla epidemia di peste nera e quelli della Guerra dei Papi, si sollevarono violentemente prendendo il controllo della città e riuscendo a nominare un loro rappresentante al vertice delle cariche repubblicane e a creare tre nuove arti, legate ad altrettanti lavori bassi.
I ciompi, ovvero i battitori e cardatori della lana, ebbero una parte di primo piano nella rivolta.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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