Da sempre è conosciuto per essere stato il padre e il primo maestro di Raffaello, erroneamente la critica del passato riteneva fosse noto più in virtù dell’eccellente figlio che non per la propria opera.
Recenti studi hanno ampiamente rivalutato la figura e l’opera di questo artista.
A tale più approfondita e ragionata analisi hanno contribuito anche la traduzione, per la prima volta in italiano, del testo del 1994 di Austen Henry Layard intitolato “Giovanni Santi e agli affreschi di Cagli”.
Nella chiesa di San Domenico in Cagli c’è la Cappella Tiranni la cui decorazione fu affidata da Pietro Tiranni a Giovanni Santi, opera che Pungileoni considerava “il suo capolavoro”.
La cappella quattrocentesca è fin dal secolo scorso una delle mete dei viaggiatori inglesi che transitano lungo la Flaminia. Ritenuta l’opera massima di Giovanni Santi tra quelle realizzate con la tecnica dell’affresco, la Cappella Tiranni racchiude nelle sembianze di un angelo il ritratto del giovane Raffaello ed in quelle di San Giovanni Battista l’autoritratto di Giovanni Santi.
Giovanni Santi, nacque a Colbordolo tra il 1440 e il 1445, nel 1450 la famiglia abbandonò la cittadina e si trasferì ad Urbino per sfuggire alle scorrerie deì Malatesta. Sono rare le testimonianze sulla sua attività giovanile, ma certo fu partecipe della cultura umanistica e ‘cortese’ presente nel ducato.
Nel 1474 fece rappresentare “Amore al tribunale della Pudicizia”, e nel 1469 ricevette dalla Confraternita del Corpus Domini, per la quale eseguiva con continuità lavori di doratura e di pittura, l’incarico di “fare spese” per Piero della Francesca, al quale la Confraternita aveva richiesto la pala della “Comunione degli Apostoli”, poi eseguita dal Giusto di Gand. Tale compito testimonia implicitamente la fama da lui raggiunta in cittá.
Fra il 1474 ed il 1480 Santi, per quanto documentato, non pare lavorare nelle Marche; si puó con ragionevolezza solo ipotizzare la sua presenza a Roma, Venezia e Firenze. La nuova esperienza gli fece riconoscere i limiti della civiltà “cortese”, rendendolo partecipe della cultura prospettica e dei risultati raggiunti dal Brunelleschi e dall’Alberti.
A noi manca la conoscenza delle sue opere giovanili, mentre quelle eseguite dopo il 1481 sono in gran parte ancora visibili nelle Marche.
Nel 1480 il pittore sposò Magia di Battista Ciarla, tre anni dopo, nel 1483, nacque il figlio Raffaello. Posteriori al 1481 sono gli affreschi “Pietá”, “Sacra Conversazione”, “Resurrezione” e “Annunciazione” della chiesa di San Domenico a Cagli e di quel periodo ricordiamo ancora almeno la “Pala di Gradara” del 1484, “la Visitazione di Fano” e “l’Annunciazione“, eseguita verso il 1490 per la moglie di Giovanni della Rovere, Signore di Senigallia.
Giovanni Santi, discendente da una famiglia di agiati mercanti e artigiani doratori, divenne un artista abbastanza noto. Nella splendida corte dei Montefeltro era pittore ma soprattutto uomo di teatro, scenografo, autore di poesie e di musica.
Si esibiva anche come “cantimpanca”, una specie di cantastorie che cantava i suoi versi con strumenti a corde, sui vari palchi del Ducato di Urbino. Ma era anche il “magister” ovvero il direttore di una sua bottega assai attiva con numerosi garzoni (cioè potenziali futuri artisti) da avviare in modo organizzato e preciso. Tra le opere che egli realizzò in un arco temporale ristretto (meno di un ventennio) annoveriamo anche “Le Muse” eseguite per il tempietto del Palazzo Ducale di Urbino, che danno il segno della stima del duca Federico nei riguardi del pittore.
Nel 1488 organizzò gli ingressi trionfali e gli spettacoli teatrali per le nozze fra Guidobaldo da Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga.
La sua fama come poeta fu presumibilmente alta se venne chiamato “novello Dante”, e della sua produzione lirica ci restano il testo di “Amore al tribunale della Pudicizia” ed un lungo poema in terzine, “La vita e le gesta di Federico da Montefeltro Duca di Urbino”, scritto fra il 1482 ed il 1487, testo al quale lavorò sino alla morte.
Una parte del poema era dedicata alla pittura ed il Santi indicava come suo modello Andrea Mantegna. Grazie alla fama di ritrattista fu invitato nel 1493 alla corte dei Gonzaga a Mantova, città in cui si ammalò, così, tornato in Urbino, morì il primo agosto 1494.
Ad Urbino Giovanni si era trasferito verso i dieci anni, entrando in contatto con l’ambiente di una delle più importanti e raffinate corti del Rinascimento, che divenne il centro della sua formazione culturale.
La sua personalità di umanista è infatti testimoniata da quella “Cronaca rimata” che scrisse nel 1492 in occasione delle nozze del duca Guidobaldo ed Elisabetta Gonzaga e che onorava del padre dello sposo, il duca Federico da Montefeltro.
Era un testo dal quale si desumeva l’acuta intelligenza del Santi dei fatti artistici riportati, tanto che alcuni suoi giudizi sui pittori suoi contemporanei fanno ancora testo.
Giovanni, che sin da giovane decise di dedicarsi all’arte senza però che nessuno lo sostenesse in questa scelta, era infatti ben consapevole di quanto fossero importanti gli insegnamenti ricevuti in tenera età. Così lo descrive Giorgio Vasari nelle Vite:
“pittore non molto eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno et atto a indirizzare i figliuoli per quella buona via che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua gioventù“.
Così, prima di affidare il figlio Raffaello al Perugino, lo introdusse nell’ambiente squisitamente raffinato della corte di Federico da Montefeltro, del quale era l’artista di fiducia e soprattutto l’organizzatore culturale di corte.
Se ogni bambino che viene al mondo è infatti portatore di un determinato talento, per far sì che questo si esprima c’è bisogno di un adeguato contesto ambientale e, ancor di più, di maestri all’altezza di questo compito, capaci di appassionare e mostrargli la strada giusta.
Giovanni Santi rappresentò questo per il giovane Raffaello, un padre capace di far emergere il naturale talento del figlio e guidarlo verso il suo destino.
Fu il percorso che lo portò dalla “Madonna di Casa Santi”, dipinta a soli quindici anni, alla “Scuola di Atene” delle Stanze Vaticane, fino ad assumere il ruolo di primo architetto della basilica di San Pietro e a dipingere la meravigliosa “Trasfigurazione”, l’opera conclusiva della sua immensa carriera artistica.
Tutto ha dunque inizio per Raffaello dall’immagine di una mamma con in braccio il suo bambino.
Portata nel cuore per tutta la vita a seguito della perdita della madre quando aveva solo otto anni, trasfigurava la mamma nella dolcezza della Madonna.
Ancor più intrigante è immaginare che Raffaello e Giovanni abbiano dipinto insieme l’opera, col padre che, orgoglioso del figlio, gli trasmetteva le sue conoscenze, lasciandolo poi libero di perfezionare la sua tecnica nella prestigiosa bottega del Perugino.
Sarà tuttavia proprio grandezza del figlio a causare il pregiudizio nei confronti del padre Giovanni, visto in seguito come un cortigiano di scadente qualità artistica.
Un pregiudizio che, tolti alcuni pionieristici contributi ottocenteschi (a cominciare da quello, risalente al 1822, di Luigi Pungileoni, che fu il primo a separare l’attività di Giovanni da quella dell’ingombrante figlio per proseguire con quelli di Crowe e Cavalcaselle) venne demolito solo nel Novecento, dapprima con le ricerche di studiosi internazionali come Johann David Passavant e Henry Austen Layard, poi con alcuni saggi degli anni Trenta (su tutti quello di Raimond van Marle), ed infine nella seconda metà del secolo grazie agli studî di storici dell’arte come Renée Dubos.
Ranieri Varese, autore della prima monografia dedicata all’artista, che fu pubblicata nel 1994, Pietro Zampetti e Rodolfo Battistini, hanno contribuito in seguito a ridisegnare la fisionomia di questo artista a lungo dimenticato, che venne poi giustamente riapprezzato con l’importante mostra monografica che la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino organizzò dal 30 novembre 2018 al 17 marzo 2019, e che segnò un’ulteriore, importante tappa nel percorso della sua rivalutazione.
Rodolfo Battistini ha definito Giovanni Santi “un artista non grandissimo ma di larga cultura”: e in effetti, come sappiamo, non fu solo valente pittore, ma anche letterato, drammaturgo (per il teatro si ricorda il suo “Amore al tribunale della pudicizia” del 1474, spettacolo da lui non solo scritto, ma anche diretto), ma anche storico dell’arte, dacché nella summenzionata cronaca rimata sulla vita e sulle gesta del duca d’Urbino non mancano giudizî su artisti che dimostrano quanto vaste fossero le sue conoscenze in fatto d’arte.
Su Mantegna, per esempio, scrisse che “et certamente la natura, Andrea / dotò de tante excelse e degne parte, / che già non so se più dar potea. / Perché de tucti i membri de tale arte / lo integro e chiaro corpo lui possede / più che huom de Italia e de le externe parte”.
Santi fu anche tra i primi ammiratori di Leonardo da Vinci, artista che paragonò al Perugino (quando Santi scrisse il poema su Federico, Leonardo aveva appena venticinque anni) in un elenco di pittori attivi a Firenze: “due giovin par d’etade e par d’amori / Leonardo da Vinci e ’l Perusino / Pier della Pieve che son divin pittori”.
Il tema del confronto tra il vero e la pittura appassionò molto Giovanni Santi, che dei pittori italiani di fine Quattrocento fu tra i più attenti ai linguaggi descrittivi dei pittori fiamminghi. C’è un passaggio particolarmente interessante della sua cronaca rimata, sul quale s’è concentrata l’attenzione degli studiosi, che recita:
“chi serra quel che possi el chiar colore / lucido e trasparente di un rubino / contrafar mai el suo vago splendore? / Chi è quel che possi el sol in sul matino / dipengere mai o un specchiar dell’acque / cum fronde e fior vicini al lor confino? / Qual mai sì eccellente al mondo nacque / che un bianco giglio facci o fresca rosa / cum quel bel pur ch’a natura piacque? / El paragon se trova ove ogni cosa / Vinta riman né si può causare / al paragon sufficiente chiosa”.
In questi versi, Santi si domanda se esistano davvero pittori che siano in grado di catturare il colore “lucido e trasparente di un rubino” riproducendo il suo splendore, se ci sia qualcuno capace di restituire perfettamente un giglio o una rosa e se l’arte possa davvero imitare ciò che si trova in natura.
Giovanni scrisse anche un elogio della pittura, anch’esso contenuto nel poema in terzine sulle gesta del duca Federico. Composto dopo il 1482, anno della morte del duca, fu dedicata al di lui figlio Guidobaldo. Questa disputa sulla pittura nasceva dall’ammirazione manifestata da Santi e dal Duca per le opere di Mantegna, durante un suo soggiorno a Mantova, e che definì vessillifero della pittura moderna.
Seguiva un elogio della pittura, per cui venivano addotti come testimoni Plinio e Vitruvio.
Un posto d’onore veniva assegnato alla prospettiva, “invention del nostro secul novo”, seguiva poi la enumerazione e la sobria caratterizzazione dei pittori illustri.
Al primo posto stanno Jan Van Eyck e il suo discepolo Rogier, di cui si metteva ancora una volta in rilievo il “colorito”. È chiaro come la stima per l’arte settentrionale fosse una costante di tutto il Quattrocento, e in particolare di Urbino, città nella quale aveva dipinto Giusto di Gand.
L’elogio di Giovanni Santi è, come si intuisce bene, un documento importante, che rispecchiava fedelmente le opinioni dell’arte che si avevano in uno dei più notevoli centri del Rinascimento italiano.
Uno degli aspetti più interessanti della produzione di Giovanni Santi è che, grazie alla mole del suo scritto, è possibile cercare d’individuare, nella sua pratica artistica, i riscontri delle sue idee.
Esemplificativo in tal senso è uno dei suoi maggiori capolavori, “l’Annunciazione”, oggi conservata alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino. Giovanni Santi eseguì il dipinto all’incirca nel 1489, su commissione di Giovanna Feltria della Rovere, ultima esponente della dinastia dei Montefeltro e madre di Francesco Maria della Rovere, futuro duca di Urbino.
L’opera fu commissionata proprio per celebrare l’arrivo del nascituro, secondogenito maschio di Giovanna, figlia di Federico di Montefeltro e del marito Giovanni della Rovere, duca di Sora, ed era destinata alla chiesa di Santa Maria Maddalena a Senigallia, città nella quale, peraltro, l’opera è temporaneamente tornata nel 2014. durante il periodo delle spoliazioni napoleoniche, e per l’esattezza nel 1809, “l’annunciazione” era stata infatti inviata alla Pinacoteca di Brera.
La scena riprodotta si svolgeva, come da iconografia rinascimentale, sotto un bel portico che dava su di un giardino recintato, “l’hortus conclusus”, simbolo delle virtù di Maria.
la Vergine stava sotto il portico, l’angelo appena fuori, giunto da poco (ha le ali ancora spiegate), e recava, anch’egli come da iconografia, in mano il giglio, simbolo di purezza alla Vergine che faceva per inginocchiarsi con le mani giunte sul petto in segno di rispetto. Sopra, il Padreterno osservava l’incontro da un grande tondo e, a fianco a lui, il piccolo Gesù Bambino, fattosi carne, scendeva su di una nuvola rosa reggendo una croce. Infine, alle spalle dei personaggi s’apriva un vasto paesaggio collinare, di quelli che erano familiari all’artista marchigiano.
Su questa Annunciazione, la critica si è espressa con pareri alquanto oscillanti, ed è stato Ranieri Varese nella sua monografia del 1994 a rendergli giustizia: “il quasi concorde giudizio negativo ci pare ingiusto e non corrispondente alla qualità reale del dipinto il quale dimostra un uso consapevole e sicuro degli elementi della costruzione prospettica e, pur attento alle esperienze dei pittori contemporanei, non rinuncia a scelte autonome”.
“L’Annunciazione” è, in effetti, un interessante compendio degl’interessi, delle teorie, degli spunti e, appunto, degli elementi autonomi che compongono l’arte di Giovanni Santi, artista che rimase fedele alle proprie idee per pressoché tutto l’arco della sua carriera e produsse opere con uno stile che nel corso degli anni non subì quasi mai variazioni: si consideri che la prima opera datata di Giovanni Santi è la “Pala di Gradara” del 1484, e che l’artista scomparve nel 1494.
Kim Butler ha svolto una severa analisi delle fonti iconografiche di Giovanni Santi, e tutto ciò che appare evidente dalla “pratica” del dipinto trova un puntuale riscontro in quella che possiamo considerare una sorta di “enunciazione teorica”, formulata dal pittore nel suo poema ‘La vita e le gesta di Federico di Montefeltro’.
Butler comincia la sua analisi dal Padre Eterno, la cui morfologia facciale richiamerebbe quelle di Melozzo da Forlì, la Vergine sarebbe stata una citazione della Madonna del Polittico di sant’Antonio di Piero della Francesca. Da Piero deriverebbe anche l’idea di posizionare i personaggi che appaiono nel cielo su una linea diagonale che conduce verso la Vergine: in Piero questo personaggio era la colomba dello Spirito Santo, in Giovanni Santi, invece, sono il Padre Eterno nel tondo e il Gesù Bambino fattosi carne.
Una scelta che, secondo la Butler, “si rivela proficua sia per la profondità prospettica sia per l’ordine geometrico della composizione, che propone un gioco quasi razionale di forme rettangolari, semicircolari, circolari e triangolari”: Giovanni Santi, in breve, fa sua la propensione di Piero a impostare su solidi schemi geometrici le composizioni.
E non sono estranee a certa sua produzione anche le importanti suggestioni provenienti dall’arte giovanile di Leonardo da Vinci, il giovane che, come s’è visto, Giovanni ammirò molto.
Segnata dal giudizio in parte negativo di Giorgio Vasari, svilita dal confronto con l’eccezionale statura artistica del figlio Raffaello, la figura di Giovanni Santi è rimasta in ombra per secoli ed ancora poco nota oggi, pur dopo gli studi fondamentali di Ranieri Varese.
Dal 30 novembre 2018 al 17 marzo 2019, con la mostra Giovanni Santi “Da poi … me dette alla mirabil arte de pictura”, la Galleria Nazionale delle Marche, sita nel Palazzo Ducale di Urbino ha contribuito a restituire il giusto ruolo all’artista in quel contesto urbinate che costituì un momento imprescindibile di avvicinamento alla formazione e alla cultura ‘visiva’ che sarà pure di Raffaello.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.