Bret Easton Ellis, Less than Zero e la generazione perduta

                     

Cos’è giusto? Se si vuole una cosa è giusto prendersela.
  Se si vuole fare una cosa è giusto farla

Meno di zero, romanzo d’esordio di Bret Easton Ellis, è uno spaccato arido e crudele di quella che è stata definita la MTV Generation della metà degli anni ’80. Un libro che ha quasi quarant’anni ma che riesce a raccontare ancora molto bene una delle età più complicate, prendendo come riferimento una Los Angeles in cui i giovani che frequentano l’ambiente degli studios cinematografici hanno tutto e non desiderano più niente; essi vivono una condizione che li porta a perdere di vista qualsiasi tipo di valore: non temono alcuna conseguenza, non sono spaventati dall’idea di morire e il confine tra ciò che è giusto e ciò che invece è mostruoso diventa sostanzialmente inesistente.

Per buona parte del libro ci viene descritto questo mondo che, oltre ad essere crudamente veritiero, è anche abbastanza inquietante; più la storia si dipana e più i ragazzi che popolano questo universo, all’apparenza patinato, cadono in un vortice di depravazione e orrore che non sanno assolutamente riconoscere; anche il protagonista, Clay, che in fondo riesce a vedere le cose più lucidamente dei suoi amici, non è in grado di opporsi a questa situazione, che lo ha reso totalmente apatico.

In breve la trama: Clay è tornato a Mulholland Drive, Los Angeles, per le vacanze di Natale insieme al suo amico di corso Daniel, e ritrova gli amici di sempre: Blair, la sua ex ragazza ancora innamorata di lui, il fotomodello Trent, suo padre che si è fatto il lifting e il trapianto di capelli, le sorelle che consumano abitualmente cocaina, alla tenera età di tredici e quindici anni, il pusher Rip e un panorama di personaggi, feste, situazioni che fotografano la “vita da buttare” degli anni ‘80 del jet-set americano. Clay però appare l’unico che cerca di capire che cosa lo ha reso così indifferente; la sua tragedia è che non riesce a darsi una risposta che sappia di soluzione, seppur minima.

I genitori di questi ragazzi sono più o meno persone di successo che vivono a Hollywood, concentrati esclusivamente su loro stessi. Sono descritti con denti rifatti, capelli trapiantati, facce e seni al silicone; consultano astrologi, ingoiano pillole, sorseggiano vino come acqua e mandano avanti i loro sordidi piccoli e grandi affari, completamente dimentichi del fatto che i loro figli si stanno autodistruggendo, forse perché sono i primi ad averli educati ad una cultura dell’apparire, del disimpegno, della disillusione, del divertimento facile, del “qui e ora”. Per questo, piuttosto che ribellarsi a loro o criticarli, i figli in questione sembrano imitarli in peggio.
Edonismo e narcisismo, le stelle polari degli anni ottanta sono illustrate nelle ore passate a fare shopping, a chiedersi se i capelli sono a posto e gli occhiali storti: tutti devono vestire alla moda e indossare i Ray-Ban, tutti hanno corpi scolpiti dalla palestra e dai bagni di luce per abbronzarsi…

Bret Easton Ellis

L’unico avvenimento che sembra turbare Clay è la scoperta che il suo amico d’infanzia Julian, eroinomane, è costretto a darsi alla prostituzione per pagare un debito con il suo spacciatore, ma è uno sconvolgimento solo apparente, perché Clay accetta perfino di presenziare ad uno degli incontri di Julian, solamente per vedere “se cose del genere succedono davvero”.
Nonostante quello che può sembrare, le giornate di Clay -che nel libro parla in prima persona- passano in maniera completamente distaccata e afasica, niente sembra più colpirlo, o avere una pur minima importanza.

Le pagine descritte da Ellis rappresentano il lento progressivo affondare nel pantano di un nulla, che avvolge le vite di questi giovani senza emozioni; ogni tanto un barlume di “sentire” sembra farsi largo, ma è più che altro un rimpianto dell’infanzia perduta (il ricordo dei nonni) che un vero bisogno; sullo sfondo una Los Angeles immateriale, fatta di non-luoghi, dove il lusso della famiglia di Clay e delle famiglie dei suoi amici sembra essere una sorta di muro di cinta, oltre al quale c’è ben poco da desiderare, o da cui doversi difendere.

“Everything means less than zero”, è la citazione da una canzone di Elvis Costello, che fa da titolo e filo conduttore, e racconta proprio l’impossibilità di provare qualcosa, dove tutto è stato già vissuto, rimasticato e riproposto in una forma che non può più appartenere né emozionare, nulla che valga la pena di essere provato “dentro”; persino i desideri non hanno più significato, generati come sono da una società che, dando un valore economico a tutto, ha privato quel tutto di ogni valore.
I personaggi vivono, infatti, nella continua ricerca di ogni tipo di esagerazione: auto e abiti costosi, serate a base di eccessi nei locali più in voga, alcool, musica e sballo, che riempia illusoriamente la totale mancanza di interesse per la propria vita.

Pubblicato nel 1985, questo libro divenne subito un caso letterario e il merito fu principalmente dello stile con cui Ellis ha confezionato le vicende di Clay: minimale, oggettivo, efficace a tal punto da consentire all’autore di “scomparire” dalle pagine e lasciar posto solo ai fatti narrati. Una tecnica narrativa esemplare, oltre che stupefacente, visto che Ellis all’epoca aveva poco più di 20 anni e il suo era un romanzo d’esordio sulla MTV Generation, che è la sua generazione.
Ellis riesce, forse per primo, a raccontare i drammi dei giovani degli anni 80, vere e proprie vittime, ma anche carnefici, di un vuoto culturale ed esistenziale che pareva essere il netto contrappasso del fermento vissuto dai giovani nei decenni precedenti. Quello che è certo è che Ellis, nel realizzare il manifesto di una categoria -quella dei giovani degli anni 80- è riuscito (a soli vent’anni) a universalizzare la percezione di un disagio che c’era in quegli anni ma che trascende le generazioni: la realtà descritta ricalca ciò che succede in tanti posti nel mondo, a molti ragazzi normalissimi, con famiglie normalissime, ma talmente investiti di tutto da non riuscire più a emozionarsi per nulla. 

Il libro lascia senza fiato: sgomenta e atterrisce.

Meno di zero significa niente, nulla, né positivo, né negativo. Qualcosa che sia meno di zero è qualcosa di inimmaginabile, eppure questa è la condizione in cui vivono i protagonisti, tutti o quasi, di questo romanzo, giovani e poco più che adolescenti, che semplicemente si lasciano vivere (o sopravvivere?)  tra un locale e l’altro, tra un tiro di coca e una pasticca di acido, una sbronza pesante e una notte di sesso ai limiti.

Zero relazioni vere, zero amore, zero famiglia, zero empatia, zero rimorsi, zero rimpianti, ma soprattutto zero futuro, zero aspettative, zero ambizioni, zero sentimenti e zero vitalità.

C’è tutta la devastazione esistenziale dell’essere intrappolati in un eterno presente, in cui ci si muove continuamente, ma invano, alla ricerca di qualcosa che sia migliore e sempre più emozionante, e che inevitabilmente non si trova mai!

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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