Ho sempre pensato che non si possa non amare una città particolare e splendida come Trieste e men che meno, ne sono certo, la dovrebbe trascurare chi apprezza la cultura, intesa nel senso più largo del termine, quello che tiene insieme fatti storici, artistici, musicali e letterari.
Sembra quasi presuntuoso il mettersi ad elencare i vanti triestini, ovvero tutti gli elementi culturali, i movimenti, le figure di intellettuali, letterati, poeti, artisti e musicisti che hanno contribuito a donare a quella città italianissima, che è stata anche il porto dell’Impero austroungarico, una fisionomia che è la risultante di tante diverse culture. La sua identità di frontiera, come la chiama Claudio Magris, che mostra il suo volto complesso e seduttivo a chi, con piena soddisfazione, va a cercare di scoprirne la bellezza dei lineamenti.
Ci sono tornato l’anno scorso dopo decenni di assenza, anche se per ragioni personali, mi sono sempre sentito vicino alla cultura della Venezia Giulia, alla Mitteleuropa di tanti miei amatissimi scrittori.
Pur non essendoci nato né vissuto, insomma, per via di alcuni lasciti culturali dovuti ad un mio ramo familiare, mi sento in rapporto con Trieste, o per lo meno avverto la mia non estraneità al luogo.
Girare per le strade della città, piccole o ampie che siano, passeggiare per i portici nobilitati dai caffé storici, attraversare le sue bellissime piazze dall’aspetto asburgico, imperiale, o percorrere i moli consumati dai passi dei tanti Zeno espressi dalla sua letteratura, costituisce per il cacciatore di atmosfere un esercizio rinvigorente.
Meravigliarsi felicemente: ecco qualcosa che è ancora possibile fare a Trieste, gran signora nonostante la volgarizzazione generale, vero emblema dell’epoca attuale, col suo segno inelegante che si posa su tutto, che tutto “normalizza”, perfino in un paese come il nostro, straricco di arte e storia.
Tra il tramestio di un turismo che rimane comunque piuttosto limitato e scelto, praticato coi ritmi frettolosi della contemporaneità, si coglie comunque una palpabile nostalgia per un passato di ben altri fasti, si comprende il genius loci della città, e non si possono non percepire le tracce, perfettamente visibili, della grande eredità culturale e sociale che le scorre dentro.
Sedersi al Tergesteo o in uno qualsiasi dei caffè storici di Trieste, davanti alla tua tazza di caffé o di cioccolata, che tu abbia o meno un libro in mano, ti colloca comunque in una rassicurante dimensione di cura verso te stesso, ti sistema per un po’ in un pezzo di tempo differente, un tempo sospeso dal quale è bandita ogni sciatteria mentale, proprio il tempo che normalmente ci viene sottratto, un tempo di qualità.
Mille pensieri buffi, da feticista letterario, inevitabilmente ti balenano in testa, così capita che stando in questa città ti ricordi del dialetto triestino, conosciuto e usato da Joyce, legatissimo a Trieste, dove visse dando lezioni di inglese.
Ci pensi e poi lo incontri, in versione bronzea, che cammina disinvolto su Ponte Rosso, con una mano in tasca, e subito ti viene in mente che l’irlandese fu uno dei primi ad accorgersi del talento e della statura di Ettore Schmitz, meglio conosciuto come Italo Svevo, lo scrittore che per vivere faceva affari vendendo in tutta Europa ed oltre, la vernice per navi prodotta dall’industria della famiglia della moglie. Era quella una famiglia concreta di imprenditori, che non lo capiva bene, ritenendolo un originale per via della sua vocazione letteraria. Cammini e pensi a Trieste: troppi ricordi di letture ti assediano, le letture che ti hanno reso come sei.
E trovandomi a guardare, ancora una volta senza fiato, il grande spazio scenografico di Piazza dell’Unità d’Italia, capace di coniugare a meraviglia grazia e grandiosità, la prima cosa che mi è venuta in mente, stando dinanzi alla magnifica sede delle Assicurazioni Generali, è stata che un loro dipendente si chiamava Franz Kafka.
Non c’è limite al gioco di rimandi culturali che Trieste è in grado di lanciarti addosso. Passando davanti ad un liceo, sono riandato immediatamente col ricordo al bellissimo romanzo di Stuparich “Un anno di scuola”, ambientato nel ginnasio triestino del 1909/1910. Chi non si è innamorato, divorando quelle pagine, della figura di Edda Marty, unica studentessa in una classe maschile?
Una classe di studenti seri e spensierati che stavano per essere sacrificati nell’orrido e sanguinario imbuto della Grande Guerra.
Ma quanti triestini scrivevano e quanti scrivono?
Sembra che in città non sia mai fatto altro che stare al caffé, guardare il mare e scrivere.
E Slataper? E Pahor? E Benco? E Bazlen, vero fondatore dell’Adelphi? E Kezich, Magris, la Tamaro e tanti altri? Sono tantissimi e a ciascuno di essi dobbiamo qualcosa.
Trieste, crocevia e crogiuolo, non ha certo avuto un destino culturale da normale città di provincia, ma da grande capitale. Doveva succedere, naturalmente, era porto, sbocco degli austriaci sul mare.
E il mare c’è sempre, di un azzurro scuro, immenso davanti alla città. Mare che si fa sistema venoso coi canali che le entrano dentro, facendo da specchio a splendide chiese e magnifici palazzi.
Il mare porta in dote a Trieste una ricchezza da essa mai sguaiatamente ostentata.
Un patrimonio di merci, di idee, di suggestioni e di sogni.
Il mare, senza sabbia, si snocciola verso Miramare e Duino, lungo come una cantilena, striscia sottile di bagni e di bagnanti avvezzi all’uso saggio del poco spazio.
Non ci si perde nella stordente vastità di spiagge sterminate: anche la balneazione a Trieste si fa concentrazione.
Due care amiche, Anna e Gioia, triestine di recente adozione, che venendo da terre nuove di zecca non rischiano l’abitudine alla intensa e antica malia che la città esercita ed ai suoi quieti incanti, mi hanno portato in Via San Nicolò, una delle strade più eleganti e percorse di Trieste, fino alla libreria antiquaria che fu di Umberto Saba.
Come era prevedibile sono andato in una sorta di trance feticistico–libraria.
Per un’ora e più il mondo circostante è svanito, cianfrusaglia kitsch buttata via senza rimpianto.
Ho guardato e respirato più che potevo, tentando vanamente di esplorare ogni angolo, di vedere il titolo di ogni singolo libro, di migliaia di libri.
Tutto è rimasto com’era in quel posto del cuore e della mente: i volumi arrivavano fino al cielo, impreziositi dalla penombra austera del locale, fittissimi, messi disordinatamente e felicemente a produrre e spargere ossigeno intellettuale da scaffali infiniti, curvi sotto il peso di una folla di ingegni diversi.
Il pavimento, quello originale, mai sostituito, in alcuni punti è sconnesso e può facilmente tradirti; un bel ritratto del poeta e la sua macchina da scrivere ti convincono definitivamente che sì, quello era il suo regno, sede della passione fattasi mestiere. Libraio antiquario, un mestiere da poeta, appunto.
Mario Cerne, figlio del giovanotto che fu lo stretto collaboratore di Saba, si può dire sia nato tra gli scaffali della libreria e gestisce questa immensa eredità con passione e competenza.
Figlio d’arte e libraio di razza antica. Libraio testimone che lamenta, a buona ragione, che un tale patrimonio, una “libreria d’autore”, segnalata perfino dalle guide turistiche giapponesi, non abbia ancora indotto alcuna istituzione pubblica ad investire un soldo nel suo opportuno restauro.
Ci immalinconiamo: il destino della cultura in una ignorantocrazia ben diretta non può purtroppo essere diverso.
Poco lontano, all’incrocio di due delle vie salotto della città, accenna a fare due passi proprio lui, Umberto Saba, pseudonimo del poeta ebreo Umberto Poli.
Apparentemente ignaro di tutto, o forse di tutto troppo consapevole, si fa sfiorare dal via vai continuo della gente, bronzeo e distante come Joyce.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.