Ermengarda

“Sparse le trecce morbide sull’affannoso petto…”

Non sappiamo neppure quale fosse il suo vero nome, l’unico fatto certo è che Ermengarda, chiamiamola così, principessa e figlia di re Desiderio, nel 770 per rinsaldare l’alleanza tra Franchi e Longobardi, venne data in sposa al figlio di Pipino il Breve, Carlo che più avanti sarà detto Magno.

L’Italia era ambita da entrambe le potenze e di lì a poco Carlo nel 771 alla morte del fratello Carlomanno diventerà unico re franco. Poco prima, col pretesto che non riuscisse a dargli un erede, Carlo Magno ripudiò Ermengarda. Dopo il ripudio, Ermengarda tornò a Pavia: secondo lo storico tedesco Aventinus sarebbe morta dando alla luce un figlio.
Manzoni, nell’Adelchi, immagina che Ermengarda muoia nel monastero di S. Salvatore a Brescia, combattuta tra l’anelito alla pace e l’amore spezzato per Carlo e fa di lei la vittima innocente, destinata a espiare i soprusi e le violenze della sua gente e dello stesso Carlo, per mano del quale finiva il regno di suo padre.

La figura di Ermengarda sarebbe rimasta intrappolata per sempre nell’oblio, dimenticata dalla storia e condannata a una sorta di damnatio memoriae già dai cronisti contemporanei, concentrati sui personaggi maschili protagonisti del dramma che stava cambiando il volto dell’Italia, se Alessandro Manzoni, nella tragedia “Adelchi”, non le avesse conferito nuova dignità al suo dolore, facendola passare dalla stirpe degli oppressori alla schiera degli oppressi, tanto che, ancora oggi, la sventurata fanciulla sembra appartenere più alla poesia che alla storia.
Fu Manzoni a riscoprirla, a “inventarle” un’anima e un nome, raccontando la sua triste vicenda per così farla nascere a nuova vita. Ennesimo agnello sacrificato sull’altare della necessità politica divenne il simbolo di un destino infelice, suscitando sempre un senso di triste compianto.

Re Desiderio raffigurato sull’arengario di piazza Vittoria a Brescia

Ermengarda, anzi Desiderata, era figlia di Desiderio, ultimo re dei Longobardi, una tribù germanica insediatasi in Italia, che, pur essendosi nei secoli integrata nel tessuto sociale italiano, grazie all’emanazione di leggi scritte in latino, e alla conversione al cattolicesimo e allo sviluppo artistico, aveva conservato l’indole bellicosa, e sua madre era la regina Ansa, donna colta e intelligente, che con grande intuito ipotizzò la costituzione di un unico regno d’Italia in collegamento con tutta l’Europa, alla quale lo storico dell’età longobarda, Paolo Diacono, che l’appellò “pulcherrima et fulgens regina”, dedicò un epitaffio, i cui versi finali così recitano:

“ogni piena d’amore,
ogni lume d’intelletto,
ogni splendore di opere
tutti risiedevano insieme a te,
splendida Regina”.

Il re Desiderio ambiva estendere il proprio dominio su tutta l’Italia, ma il suo disegno era contrastato soprattutto dal papa, che aveva sostituito a Roma l’autorità del lontano imperatore d’Oriente, incapace ormai di far valere i suoi diritti.
Inevitabile il conflitto con i Longobardi, ma il papa da solo non sarebbe stato in grado di resistere al volere del sovrano longobardo se, a prestargli aiuto, non ci fossero stati i Franchi, che avevano costituito oltralpe un grande regno.

Pipino il Breve nell’interpretazione pittorica di Louis-Félix Amiel

Del resto al re dei Franchi, già con Pipino, sovente si erano rivolti i papi per respingere gli attacchi dei Longobardi.  Quando, nel 768, Pipino morì, lasciò il proprio regno ai figli Carlo e Carlomanno, che se lo divisero a metà; Desiderio pensò che fosse giunto il momento di tentare la conquista definitiva delle terre contese e di spingersi fino a Roma, togliendo al papa ogni possibilità di resistenza.
La regina franca Bertrada, vedova di Pipino, però non amava lo stato di perpetua guerra esistente tra Franchi e  Longobardi, convinta che i due popoli potessero convivere in pace senza scannarsi per gli interessi papali, venne in Italia e s’incontrò con Desiderio proponendo un duplice matrimonio pacificatore: come pegno dell’amicizia che d’ora in avanti ci sarebbe stata tra le due genti, offrì la propria figlia Gisla in moglie ad Adelchi, il primogenito di Desiderio, e chiese per suo figlio Carlo la mano di Desiderata.

Come detto, scarse sono le notizie pervenuteci sulla principessa longobarda, avvolta in uno strano silenzio, incerti sono l’anno di nascita e di morte e persino il nome. Incerto l’anno di nascita, forse il 754, ma è certo, come era uso a quei tempi, che fosse molto giovane e che l’idea delle prossime nozze col re dei Franchi le accendesse la fantasia come succede ancor oggi alle ragazze che vorrebbero essere principesse. Timida, remissiva, pare fosse l’opposto del padre e del bellicoso fratello, si era forse illusa di rappresentare davvero un simbolo di pace in quel mondo ancora tanto feroce, e durante il lungo e disagevole viaggio con le sue dolci maniere conquistò la futura suocera, che le fece da madre e le fu poi sempre amica.

Certo il suo matrimonio non era per amore, ma dovuto a ragioni politiche e lei non aveva avuto voce in capitolo; esso fu celebrato ad Aquisgrana in un giorno ignoto del 770, con Carlo (che era già stato sposato con Imitrude) che, noncurante della scomunica minacciata dal Papa, sposò la giovane e, in tale occasione, “pacem firmissimam ex utraque parte firmaverat”.

Ritratto di Carlo Magno, di Albrecht Dürer

Secondo la cronaca del “monaco di San Gallo”, vissuto un secolo dopo, Carlo, dopo averla avuta per un anno come regina, trovandola inabile a far prole (motivo di nullità delle nozze, poiché allora dovere precipuo della donna, e specie per una sovrana, era quello di assicurare figli) su consiglio di alcuni sacerdoti la ripudiò contraendo una nuova unione con la sveva Ildegarde.

Certamente al ripudio non fu estraneo papa Stefano III che, temendo che l’unione tra Franchi e Longobardi avrebbe potuto avere conseguenze disastrose per il potere papale, già aveva tentato di tutto per mandare a monte le doppie nozze proposte da Bertrada, con proposte e controproposte, scambi di missive, persino scrivendo ai due fratelli re franchi una lettera ingiuriosa verso i Longobardi definendo

“scioccheria l’idea di unirsi con la perfida gente dei Longobardi dai quali aveva avuto origine la schifosa malattia della lebbra”,

e inoltre minacciando la scomunica e l’eterna dannazione verso di loro, finché Bertrada fu stata costretta a rinunciare in parte alla sua “missione di pace” e a tornarsene in Francia portandosi dietro solo la povera Ermengarda, solennemente concessale da Desiderio. Ma l’incolpevole fanciulla che avrebbe dovuto sancire l’amicizia e la pace fra i due popoli nemici, dopo un anno fu rimandata in Italia con l’umiliazione del ripudio.

Giuseppe Bezzuoli, Svenimento di Ermengarda, 1837   –   Firenze, Uffizi

Confuse e varie sono le ipotesi sulla sua fine, certo è che non sopravvisse molto al crollo del suo sogno nuziale; secondo alcuni Ermengarda morì in Francia, o perché realmente ammalata o nel dare alla luce quel figlio che avrebbe smentito la sua presunta sterilità o perché il suo cuore non resse al dolore di vedersi rifiutata da un uomo che aveva intanto imparato ad amare. Quando morì aveva circa 20 anni.

La versione più attendibile sembra essere quella del suo ritiro nel monastero di San Salvatore vicino Brescia, dove era badessa la sorella Anselperga. Fu qui che, probabilmente, nel 774, cessò di vivere ma insieme a lei, dopo due secoli di dominio in Italia, sparì anche il regno longobardo, ad opera di Carlo che, chiamato in Italia dal nuovo Papa Adriano, trionfò definitivamente sui Longobardi, e si fece proclamare rex Francorum et Longobardorum, facendo imprigionare il re Desiderio e la regina Ansa nel monastero di Corbie in Francia dopo un lungo assedio della capitale Pavia.

Quale che sia la verità su questa fanciulla mite e fragile, creatura dolce in un mondo in guerra, simbolo del suo popolo che, da vincitore, divenne vinto, da oppressore oppresso, la sua sola comparsa sulla scena del mondo ingentilisce un’epoca tra le più tormentate nella storia d’Europa.

Ermengarda, o Desiderata, però di certo non aveva le ”trecce morbide” che le attribuisce Manzoni. Non poteva avere trecce, perche’ i Longobardi tagliavano i capelli cortissimi alle ragazze da marito, e le chiamavano ”tose” per questo: come ancora oggi resta testimonianza nei dialetti lombardi e del Veneto. Lo dimostra con dovizia di particolari lo scrittore e studioso del Medioevo Franco Cuomo nel suo ”Romanzo di Carlo Magno”, saga storica in 5 volumi. Crolla così un mito letterario che ha affascinato intere generazioni di studenti, obbligati a imparare i versi manzoniani. Il bel verso “sparse le trecce morbide sull’affannoso petto”, osserva Cuomo, certamente è solo una licenza poetica, come lo è l’eroica morte di Adelchi, che invece si salvò alla sconfitta coi Franchi fuggendo a Bisanzio.

R. Rocco, Adelchi morente

La triste vicenda di Ermengarda, principessa longobarda resa immortale dai versi del Manzoni, in cui incarna la purezza del cuore in contrapposizione alla ragion di stato, è legata profondamente alla fine del regno dei longobardi nell’Italia settentrionale.
Quando Carlomanno, il fratello di Carlo, si spense ancora nel fiore degli anni Carlo venne proclamato unico sovrano dei Franchi e la vedova di Carlomanno, Gerberga e i suoi bambini vennero cacciati dalla corte, senza tener in minimo conto i loro diritti e malgrado essa fosse una nobile franca. Essi si rifugiarono presso il re Desiderio, nella capitale longobarda Pavia, invocando aiuto.
Desiderio mandò a Roma, al papa Adriano I, ciocche di capelli dei piccoli, insistendo perché li incoronasse re dei Franchi. Ma il pontefice rifiutò, dicendo che Desiderio non poteva chiedere nulla poiché occupava ancora dei territori che la Chiesa riteneva suoi, ma nel frattempo chiese l’appoggio di Carlo.

Questi, che non volle più limitarsi a proteggere il papa dai longobardi ma voleva conquistarne il regno e perciò scese in Italia nel 773. Forzando uno stretto passo nella Val di Susa occupò una dopo l’altra le città della pianura padana ed espugnò Verona, vanamente difesa da Adelchi; poi si rivolse contro Pavia, la capitale, cingendola d’assedio. Nel 774 la città capitolò. Desiderio, il re vinto, finì i suoi giorni con la regina in un convento.

Dalle ricerche storiografiche la figura di Ermengarda esce avvolta più nella leggenda che nella realtà: se è stato ricostruito che effettivamente una delle figlie di re Desiderio andò sposa, per fini politici, al futuro re dei Franchi, il nome esatto della principessa longobarda rimane ignoto. L’appellativo di Ermengarda, infatti, si evince solamente in un testo posteriore del Quattrocento, mentre le fonti più antiche ne riportano il nome di Desiderata, quale figlia del re longobardo e della regina Ansa, sorella del principe Adelchi e di Anselperga.

Gli storici indagano ancora le analogie con l’epopea tragica e struggente dell’Ermengarda manzoniana. Fra le mura del monastero sono tuttora rintracciabili le atmosfere che dovevano caratterizzare la vita claustrale all’interno dell’edificio, tanto da intrecciare leggenda e realtà, e da far sembrare verosimile l’ipotesi della presenza di una sepoltura di Ermengarda a San Salvatore, dove il Manzoni la fa spirare.

Figura riscoperta dai Romantici, Ermengarda incarna da un lato la devozione e la pienezza della passione femminile, molto vicine alla sensibilità contemporanea, dall’altro la sconfitta dell’anelito del cuore davanti alla ragion di stato.

Alessandro Manzoni

Se per il Manzoni il dramma di Ermengarda, discesa dalla stirpe degli oppressori e purificatasi attraverso la sofferenza, per essere degna di un amore più alto e ultraterreno, tematizza il concetto della provvida sventura, per gli storici offre lo spunto per approfondire l’inedito ruolo delle donne vicine a re Desiderio.
Nella società del tempo, infatti, dove la condizione femminile era ancora di sottomissione estrema all’universo maschile, figure come quella della regina Ansa, donna colta e dalle sottili intuizioni politiche, o delle figlie Anselperga, badessa di San Salvatore, e Adelperga, andata sposa al duca di Benevento e animatrice della rinascita culturale del sud, rimandano invece a un protagonismo politico e sociale della donna dai tratti quasi moderni.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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