Boris Vian, un grande francese del XIX secolo

È uno di quei personaggi che una volta conosciuti,
si vuol approfondire a tutti i costi.

Dalla vita misteriosa e quasi leggendaria, Boris Vian sembra uscito direttamente da un romanzo; con i suoi amori appassionati, le amicizie famose, il suo saper restare nell’ombra, ma anche il suo saper scandalizzare, con i suoi problemi fisici e la sua precoce morte di crepacuore.
Boris Vian è stata una delle personalità più brillanti e originali della cultura francese del ‘900: di formazione scientifica (era ingegnere), si dedicò invece soprattutto alle sue due grandi passioni, la musica e la letteratura.

Apprezzato jazzista (ottimo suonatore di tromba, introdusse in Francia il grande Miles Davis), scrisse una delle più belle canzoni pacifiste, Le déserteur, che fu a lungo proibita in Francia, impegnata nelle guerre coloniali di Algeria e Indocina.

La produzione letteraria di Vian va dalla poesia al teatro e al romanzo: L’Ecume des Jours (La schiuma dei giorni) è considerato il suo capolavoro, Queneau lo definì

‘la più “spezzacuori” e commovente storia d’amore moderna mai scritta‘,

e Daniel Pennac sottolineò come questo romanzo fosse un libro da leggere più volte nel corso della vita: a venti anni si resta rapiti dalla narrazione della passione amorosa, a quaranta dalla critica sociale, a sessanta dal pessimismo e dal senso della fine.

Vian è stato il primo traduttore francese di Raymond Chandler ed ha svolto un ruolo di primo piano nell’introdurre nella letteratura europea la scuola poliziesca americana.

Scrittore, poeta, traduttore ma anche musicista e cantautore, conosce gli esistenzialisti, vive nella Parigi del dopoguerra, tra artisti e filosofi. Ha però un’esistenza breve, ma intensissima. Compone musica sin da bambino e suona la tromba nonostante i problemi cardiaci. Ama il jazz e il teatro, si laurea in ingegneria, si occupa di matematica, ma soprattutto di arte. Un’arte strana, surreale e struggente.

Boris Vian suona la tromba

Alcuni titoli come “Lo strappacuore”, “La schiuma dei giorni”, “L’autunno a Pechino” e “Sputerò sulle vostre tombe” parlano da soli. Quest’ultima opera, scritta sotto pseudonimo, venne sequestrata negli Stati Uniti per oscenità e offesa alla morale perché parlava di razzismo, sesso e violenza.
Oltre ai romanzi, Vian scrive poesie frizzanti, crude ma malinconiche, che riassumono splendidamente il suo vitalismo e la sua “filosofia” di vita; perché Boris se la godeva la vita, consapevole dei propri limiti fisici, per cogliere ogni attimo, ma senza inutili struggimenti.

Il suo rapporto con Sartre e soprattutto con Simone de Beauvoir è molto strano. Con la coppia avrà un’amicizia che non sarà mai però una venerazione, ma che, anzi, è caratterizzata da tanta ironia sul padre dell’esistenzialismo, che era allora quasi una rock star. Nella schiuma dei giorni, lo chiama Jean-Sol Partre, nominando una sua presunta opera “Il vomito” (chiaro riferimento a La nausea) e mette sulla scena un personaggio che ne è letteralmente ossessionato e che spende tutti i soldi che guadagna per gli articoli che il filosofo pubblica continuamente.                   

Vian è legato alla Patafisica, chiara parodia della vecchia metafisica, definita inizialmente come “un’ipotetica scienza delle soluzioni immaginarie” e ancora oggi una corrente artistica e letteraria che si sofferma sul non senso e l’ironia. Le opere di Vian sono sature di patafisica, con situazioni e scene assurde: i suoi personaggi camminano sulle nuvole, suonando nei piano cocktail e hanno le ninfee nei polmoni. La patafisica si trova anche nel linguaggio particolare e spesso di difficile traduzione in italiano, fatto di giochi di parole e pieno di riferimenti esterni.

Pose buffe di Boris Vian

L’assurdo, però, non è solo nella sua opera, ma anche nella sua vita, che non pare una ricerca continua del senso nel nonsenso – com’è, in fondo, per la maggior parte di noi – ma piuttosto l’esatto contrario. C’è in lui tanto surrealismo, ma anche tanto crudo realismo. Non è solo un sognatore romantico, come parrebbe in ‘La schiuma dei giorni’, ma sa essere anche crudele e osceno. Lo testimoniano il suo scandaloso romanzo ‘Sputerò sulle vostre tombe’, ma anche le forti e feroci parole delle sue poesie, come ad esempio:

Morirò di cancro alla colonna vertebrale/ Accadrà una sera orribile/ Chiara, calda, profumata, sensuale,/ Morirò della putrefazione/ Di certe cellule poco conosciute/ Morirò per una gamba amputata/ Da un topo gigante sbucato da una fogna gigante/ […] Morirò annegato nell’olio di spurgo/ Calpestato da bestie indifferenti/ E, subito dopo, da bestie differenti/ Morirò nudo, o vestito di tela rossa/ O cucito in un sacco con delle lame di rasoio./ Morirò forse senza preoccuparmi / Di verniciare le unghie delle dita dei piedi/ E di lacrime piene le mani.

[…] Morirò nel vedere torturare bambini/E uomini sbigottiti e lividi.

Morirò mangiato vivo/ Dai vermi, morirò/ Con le mani attaccate sotto una cascata/ Morirò bruciato in un incendio triste/ Morirò un poco, molto/ Senza passione, ma con interesse/ E poi quando tutto sarà finito/Morirò.

Di lui ci restano i suoi romanzi, dolci, fantasiosi ma, a volte, brutali. Le sue canzoni, tradotte anche in italiano, e le sue poesie, che ognuno di noi potrebbe lasciare come ultime volontà. Di lui restano anche testimonianze di amici, come quella del grande poeta Jacques Prevért:

Boris giocava alla vita/ come altri giocano in Borsa/ a guardie e ladri/ Ma non come un baro/ signorilmente/ come il topo col gatto/ nella schiuma dei giorni/ tra i bagliori della felicità./ Giocava con la tromba/ come giocava col crepacuore/ Era un buon giocatore/ ininterrottamente rimandava la morte/ all’indomani/ Condannato in contumacia/ sapeva bene che un giorno/ lo avrebbe rintracciato/ Boris giocava alla vita/ e aveva per lei delle attenzioni/ La amava/ come amava l’amore/ da vero disertore dell’infelicità.

Jacques Prevért

Non si può ignorare la difficoltà di trovarsi davanti un cubo dalle troppe facce, poiché dalla matematica alla narrativa, dal teatro alla poesia, dalla musica alla regia fino all’impresariato, Vian si è proiettato lungo le direzioni più bizzarre, con un gusto della novità che sempre diventava una febbre. E alle prese con un fenomeno del genere, era fatale che gli stessi interpreti più volenterosi, fossero costantemente esposti al rischio di confondere nella sua dimensione operativa il superfluo con i motivi profondi ed essenziali.
Si aggiunga il gusto della beffa che l’induceva ad abusare della sua vena creativa per allontanare il fantasma inquietante dell’addio che ogni tanto si affacciava nella sua fantasia lanciandolo in avventure mozzafiato: Vian era malato di cuore sin dalla nascita e visse tutta la vita con la consapevolezza che la morte potesse arrivare da un momento all’altro. Un destino da poeta maledetto, ma è un destino sempre rifiutato in cui il dramma finisce sempre con un sorriso.

I suoi romanzi più seri, Lo strappacuore, La schiuma dei giorni e L’autunno a Pechino, sono un fiasco. Celebrità e grande scandalo gli verranno invece dal breve, crudele pulp a sfondo erotico, ‘Sputerò sulle vostre tombe’, e dagli altri romanzi che pubblica con lo pseudonimo di Vernon Sullivan, fingendo di esserne il traduttore.

Una bella foto di Boris nel 1950

Jazz e Patafisica influirono certamente sulla sua scrittura, che è una scrittura caratterizzata da un flusso di coscienza esasperato, quasi imprevedibile. Occorre spiegare bene lo scopo comunicativo di Vian: sdoganare le impressioni dell’inconscio e armonizzarle secondo la legge armonica classica. È una questione di riconoscimento del valore del non detto abitualmente, del recupero e del dispiegamento dei motivi di quel valore in potenza. Siamo nel Surrealismo, che il nostro scrittore adopera con grande disinvoltura, a volte troppa, nel senso che Vian si lascia prendere dal ritmo della creazione liberata.

C’è, nella “Schiuma dei giorni” una chiara critica al mondo tradizionale, prigioniero, secondo Boris, della superficialità, dell’utilitarismo volgare. Dunque, evviva la fantasia, nel cui cuore esisterebbe la soluzione del problema della conoscenza: tutto è possibile nel suo nome e tutto deve avere udienza e voce. Vian demolisce, con una ingenuità sincera, spontanea, e al tempo stesso sottile, i codici di pensiero e di comportamento che formano il vivere tradizionale.

Vian si manteneva con le canzoni, riprese poi da molti chansonnier durante gli anni a venire: fra gli altri: Joan Baez, Serge Reggiani, Leonard Cohen, Yves Montand, Ivano Fossati, Luigi Tenco, Juliette Grèco, Nana Mouskouri. In Europa, egli, per quanto riguarda il jazz, fu il riferimento di Miles Davis e di Duke Ellington. Boris Vian scrisse “Il Disertore” nel 1954, quando la controffensiva francese contro l’attacco del generale Giap, in Indocina, si risolse nella disfatta di Dien Bien Phu. L’esercito francese, accerchiato in questa conca, perse 1500 uomini. Pierre Mendès France avviò allora i negoziati per porre termine alla “sporca guerra”. Gli accordi di Ginevra, firmati il 21 luglio 1954, riconobbero l’indipendenza del Vietnam, della Cambogia e del Laos.

Miles Davis e Boris Vian a Parigi nel 1949

La canzone di Boris Vian ‘Il Disertore’ interpretava con splendida crudezza la stanchezza generale e il sentimento condiviso che occorreva farla finita una volta per tutte con la fatalità della guerra. Dal 1939, infatti, erano stati assai rari i momenti di tregua (“Da quando sono nato/ho visto morire mio padre/ ho visto partire i miei fratelli/ e piangere i miei figli”). Il testo della canzone ha la forma di una lettera indirizzata al Presidente da un uomo che ha ricevuto la cartolina precetto. L’autore della missiva spiega perché sceglie di disertare. Nel testo si moltiplicano le provocazioni e si incita anche l’auditorio a seguire il suo esempio di rifiuto di obbedienza (“Non obbedite/non fatelo/non andate alla guerra/non partite”). Giunge a porre la più alta autorità del paese di fronte alle sue contraddizioni ed alle sue responsabilità (“Se occorre versare del sangue/versi il suo/ sia un buon apostolo/signor Presidente”).

Vian non appare mai del tutto pessimista: la sua forza sta nel non preoccuparsi minimamente del dilemma annoso che divide il mondo in pessimisti, ottimisti e realisti. Lui si autoproclamava possibilista, pur sapendo benissimo che è un autoinganno, ma poi non se ne curava.

Meglio la possibilità di sognare a occhi aperti: così non si vedranno neppure gli orrori.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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