Franz, Max e l’immortalità di una amicizia

Pomeriggio di un giorno primaverile dei primi del Novecento.

Franz Kafka è in casa dell’amico Max Brod. È andato a trovarlo, come fa spesso del resto: avendo svariati interessi comuni loro trovano sempre molto da dirsi.
I due ragazzi parlano sottovoce, l’appartamento a quell’ora è silenzioso perché quello è il momento del giorno in cui il vecchio Brod, padre di Max, è solito schiacciare un pisolino. 
Dopo qualche tempo Franz avverte la necessità di andare al bagno. Non ne è felice, questa è una cosa che lo mette sempre in qualche imbarazzo perché per raggiungere quel locale si deve passare necessariamente per lo studio in cui il padrone di casa, ben sistemato in una comoda poltrona, la sua favorita, gusta appieno il suo riposo pomeridiano. 
Il giovane Kafka, come sempre in quelle circostanze, è obbligato a prendere coraggio. Si avvia. Pochi passi e la luce del sole, che vivace vivifica la stanza di Max, cede il posto alla penombra densa dello studio del vecchio, apparecchiata per favorire il suo sonnecchiare placido, sottolineato da un discreto, monocorde russare.
Franz, passato dalla luce a un mezzo buio, deve aguzzare la vista: cammina in punta di piedi, con una cautela amplificata dalla sua proverbiale buona educazione. Mentre attraversa lo studio muovendo verso la stanza da bagno, urta leggermente un oggetto, forse un piccolo mobile, qualcosa insomma che la penombra ha tenuto nascosta.
Si produce un rumore, non forte, ma che alle orecchie del ragazzo risuona come il rombo di un tuono. Il russare del vecchio Brod si arresta immediatamente, scivolando in un piccolo rantolo. La sua testa si muove leggermente, la bocca si apre e si chiude più volte, sembra assaporare qualcosa di invisibile, e gli occhi si aprono quel tanto da mostrare pupille spente, acquose.
Kafka per un istante è paralizzato, poi si rende conto che l’uomo è sospeso nella terra di confine tra sonno e veglia e non si può ancora intuire verso quale delle due sponde approderà. Franz riprende allora a camminare sulle punte, ancora più cauto, e mentre sfila come un fantasma davanti al vecchio Brod, che vaga nelle nebbie del suo stato incerto, gli sussurra con un filo di voce:

“Scusi, mi consideri un sogno”.

Questo è il riassunto del ricordo che ho, lontano ma vivissimo, di un meraviglioso colpo di genio. Devo questo regalo alla lettura della biografia di Franz Kafka, scritta da Max Brod.

Già, Max Brod.

Max Brod

Al Signor Brod, figlio del distinto russatore e amico più stretto di Kafka, tutti noi dobbiamo eterna gratitudine per aver disatteso, in qualità di suo esecutore testamentario, le volontà dello scrittore praghese che prevedevano la distruzione di tutti i suoi scritti inediti. Si trattava, in sostanza, della maggior parte della sua opera.

Prima edizione de “La Metamorfosi”

Fu così che la parola disattesa, data ad un moribondo, invece di evocare il puzzo di un tradimento, si rivelò, invece, la più straordinaria delle dimostrazioni di amicizia.

Franz Kafka e Max Brod si conobbero a Praga, la loro città, nel 1902, nell’ambiente universitario, e più precisamente in occasione di una conferenza che Brod tenne su “Schopenhauer e Nietzsche”.

Quello fu l’inizio di un legame d’amicizia profondo, con molti alti e qualche basso, che Brod nella sua fondamentale biografia di Kafka non omise di riportare. 
I due condivisero molte passioni intellettuali e personali, viaggiarono insieme e sempre si fidarono del reciproco giudizio. Fu Brod ad insistere sulla tesi, ripresa da molti critici ed avversata da altrettanti, che definiva Kafka uno scrittore sostanzialmente religioso.

E se di Franz Kafka sappiamo quasi tutto, molti di noi ignorano il nome e la storia personale del suo amico più caro, l’uomo che ne rese possibile l’immortalità.

Praga

Brod era nato a Praga nel 1884, un anno dopo Kafka. Si era laureato in Legge, adattandosi in seguito a lavorare presso la Direzione delle Poste. Ebbe spesso a lamentarsi delle ristrettezze di quella occupazione che riuscì infine ad abbandonare dedicandosi ad una attività che certamente gli era più consona. Fu infatti critico letterario ed artistico per diversi giornali tra cui il Prager Tagblatt.

Aderente all’idea sionista, pubblicò numerosi saggi sulla rivista di Martin Buber “Der Jude” e, come Kafka stesso, collaborò agli “Herder-Blätter”, i Fogli di Herder, la rivista diretta da Willy Haas, Presidente dell’Associazione Herder.

Brod scrisse soprattutto libri di ambiente praghese ed ebraico, interessandosi ai problemi dell’assimilazione degli ebrei tedeschi di Praga. Considerò il sionismo come un momento di autonomia e autoconsapevolezza della minoranza ebraica. In seguito alla morte di Kafka, avvenuta nel 1924, Brod, come si è già ricordato, fu per nostra fortuna l’infedele esecutore testamentario del genio praghese, il curatore dei suoi libri e il suo principale biografo.

Nel 1939, avvertendo distintamente il pericolo incombente rappresentato dalla follia antisemita nazista, fuggì da Praga portando in salvo con sè le opere di Kafka, arrivò in Palestina e vi si stabilì. Tutto il resto della sua famiglia morì in campo di concentramento. Visse in Israele dirigendo il teatro di Stato fino alla morte, avvenuta nel 1968.

La scomparsa di Max Brod diede l’avvio ad una complessa vicenda riguardante le opere di Kafka in suo possesso. In tutto il mondo, non appena si seppe dell’esistenza di molte casse di opere di Kafka, forse sconosciute, si cominciò a fantasticare sul contenuto di quel materiale, favoleggiando l’esistenza di moltissimi, pregevoli inediti.

Il lascito letterario di Kafka, ciò che per suo volere avrebbe dovuto essere distrutto, era in realtà contenuto in dieci bauli.
Essi sono stati aperti nel 2010, dopo essere stati per oltre cinquant’anni nascosti in un caveau dell’Ubs di Zurigo e in una banca di Tel Aviv.

Max Brod

Brod aveva provvisoriamente affidato quei documenti alla sua segretaria, o forse amante, Esther Hoffe, morta nel 2007 a 101 anni di età. Tutto era finito nelle mani delle due figlie della donna.
In precedenza la Hoffe, disattendendo le disposizioni di Brod che stabilivano che tutte le carte di Kafka, da lui salvate, fossero affidate alla Biblioteca Nazionale di Israele, vendette il manoscritto de “Il processo” per due milioni di dollari. In Israele si cominciò fondatamente a temere che quello fosse solo l’inizio di un percorso di dispersione di quelle carte importantissime.

Manoscritto de “Il Processo”

Cominciò allora una disputa legale per stabilire chi avesse diritto di proprietà sui dieci bauli.

Fu un procedimento lunghissimo, complicato al punto da essere definito kafkiano, che solo recentemente è giunto a sentenza, assegnando allo Stato di Israele la proprietà definitiva del materiale giacente in quei bauli.

L’inventario del contenuto non è stato ancora reso ufficialmente noto, e siamo ancora molto lontani dal dissipare il velo di mistero che lo riguarda, ma qualcosa intanto si è saputa.
È trapelato che tra quelle carte c’è una miniera di lettere indirizzate a grandi scrittori europei come Thomas Mann, Arthur Schnitzler, Stefan Zweig e Jaroslav Hasek, album di disegni inediti, bloc notes con esercizi per imparare l’ebraico, appunti di vita quotidiana, il manoscritto del racconto “Preparativi di nozze in campagna”, una bozza del romanzo “Il castello” e il manoscritto del racconto incompiuto “Riccardo e Samuele”.

Non rimane che la pazienza a tenerci buoni mentre attendiamo che un nuovo, rivelatore capitolo prosegua il racconto di un’amicizia tale da prolungarsi ben oltre la morte fisica dei protagonisti.

“Ho notato spesso che molti ammiratori di Kafka, i quali lo conoscono soltanto dai libri, si fanno di lui un’idea errata. Credono che anche nei contatti umani debba essere stato triste o addirittura disperato.
È vero il contrario.
Vicino a lui si provava un senso di benessere. L’abbondanza di pensieri che egli esponeva di solito con serenità, lo rendeva, per indicare soltanto il gradino più umile, uno degli uomini più divertenti che io abbia conosciuto, nonostante la sua modestia e la sua calma.
Parlava poco, in presenza di molta gente taceva spesso per ore intere. Ma quando diceva qualcosa attirava subito l’attenzione. Erano parole ricche di significato e colpivano nel segno.
Nelle conversazioni confidenziali la lingua gli si scioglieva talvolta in maniera stupefacente, era capace di entusiasmarsi e di lasciarsi andare, e allora non la smetteva di scherzare e di ridere. Anzi, rideva volentieri e cordialmente e sapeva far ridere gli amici.

Dirò di più: in situazioni difficili si poteva affidarsi con sollievo e senza scrupoli alla sua saggezza, al suo tatto, ai suoi consigli, che raramente erano sbagliati. Era un amico meravigliosamente pronto ad aiutare. Soltanto per sé era impacciato e irresoluto: quest’impressione che nei contatti personali con lui si riceveva soltanto in casi rarissimi, perché sapeva sempre dominarsi, è indubbiamente confermata dalla lettura dei Diari”.

(da Max Brod: “Kafka”)

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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