Isaak Emmanuilovic Babel’
Nel 1934, in Unione Sovietica, nel bel mezzo dello stalinismo, il vertice del potere aveva più che mai bisogno di mantenere un controllo ferreo sui mezzi di informazione e sulla cultura.
Essere uno scrittore, in quel tempo e in quel contesto, significava per lo più essere costretto ad un adeguamento passivo ai desiderata del capo o all’autocensura praticata su quel residuo di libertà che la censura ufficiale, nella sua assoluta incisività, lasciava.
Così, ogni autore che tendeva a smarcarsi dalle tematiche e dallo stile realistico socialista che veniva caldeggiato dal regime, finiva per incappare in problemi molto seri, tali da minacciare, oltre che la sua libertà espressiva, anche la sua stessa esistenza.
Era una sorte che toccava anche a uomini che avevano ricoperto ruoli importanti nell’affermazione della rivoluzione e della sua difesa.
Gente che poteva a buon diritto rivendicare meriti notevoli, si trovava comunque soggetta ad accurati e costanti esami di conformismo ai modelli dovuti, e ad essere potenziale oggetto di sospetti continui.
Nel pieno di questa campagna sovietica contro il formalismo, e per di più nel corso di una occasione ufficiale quale il Primo Congresso dell’Unione degli Scrittori Sovietici, tenutosi appunto nel 1934, ci fu un autore capace di asserire, tra l’ironico e il malinconico, di essersi trasformato artisticamente, di essere diventato “il maestro di un nuovo genere letterario, il genere del silenzio”.
Quello scrittore coraggioso era Isaak Emmanuilovic Babel’, all’epoca un quarantenne che aveva già alle spalle una storia densa e complessa.
Nato ad Odessa nel 1894, da una famiglia ebraica, a causa soprattutto delle sue origini, subì precocemente le aspre vicende di un periodo di sommovimenti sociali e politici nell’Impero Russo.
Si producevano eventi burrascosi che per gli ebrei si trasformavano in costanti rischi e che di fatto portarono ad eccidi di massa e ed esodi forzati.
La precoce passione per i libri e per la lettura favorirono in Isaak l’accendersi di una grande fantasia e una grande capacità di immergersi dentro storie avvincenti e di concepirne a sua volta.
Leggere in ogni momento possibile, “durante le lezioni, nelle ricreazioni, lungo la strada di casa, di notte, a tavola”, faceva sì che il ragazzo rinunciasse ad altri divertimenti, come scappare da scuola per bighellonare per la città ed il suo porto, nuotare al fiume o giocare a biliardo.
Così il giovane Babel’, reso bizzarro agli occhi dei suoi coetanei dalle sue letture e dall’ambiente familiare particolare, non aveva amici.
Lui stesso in un racconto autobiografico asseriva: “E chi poteva aver voglia di frequentare un tipo simile?”.
Sarebbe dunque rimasto sempre un solitario pur vivendo, come vedremo, una vita avventurosa, spesso drammatica.
Nel 1905 grazie all’aiuto di vicini di casa cristiani che per giorni nascosero la sua famiglia, Babel’ sopravvisse ad un pogrom che provocò l’assassinio di circa trecento ebrei.
Tra le vittime ci fu suo nonno Sojl.
In quegli anni per gli ebrei tutto era complicato, era difficile anche iscriversi alle scuole pubbliche.
Per essere ammessi a frequentarle si doveva rientrare in una percentuale massima riconosciuta ai loro studenti.
Pur avendo superato gli esami di ammissione, Isaak non venne accettato nella Scuola Commerciale Nicola 1° di Odessa perché la famiglia di un altro studente aveva corrotto la commissione per farlo entrare, così lui fu costretto ad istruirsi in casa.
Oltre alle consuete materie, Babel’ studiò il Talmud e la musica.
Strimpellava il violino perché suo padre sognava per lui un avvenire di affermato strumentista, ma al posto degli spartiti il ragazzo leggeva Dumas o Turgenev, ne divorava i romanzi e di notte scriveva racconti che leggeva poi di giorno ai coetanei.
Tra gli altri docenti, un insegnante bretone ebbe su di lui un’influenza decisiva nel fargli amare la letteratura francese: Isaak adorava Flaubert e Guy De Maupassant tanto da cercare di scrivere racconti in francese.
La faccenda della quota massima prevista per gli studenti ebrei ancora una volta non gli permise di iscriversi all’Università di Odessa, così Babel’ si iscrisse all’Istituto di Finanza e Affari di Kiev, ed in quella sede incontrò la ragazza destinata a divenire la sua futura moglie, Evgenija Gronfejn.
Dopo la laurea, nel 1915 Isaak, nonostante dei divieti di residenza emessi nei confronti degli ebrei, si trasferì a Pietroburgo.
Continuava a scrivere.
Nel corso dell’infanzia e della giovinezza aveva assorbito l’atmosfera del suo quartiere di Odessa, la Moldavanka, il più pittoresco e vivace della città, coi suoi tuguri affollati, coi suoi traffici minuti e bizzarri, con malavitosi divisi tra generosità e truculenza.
Babel’ nei suoi racconti restituiva questo ambiente vitalissimo con un tocco di freschezza e di lieve umorismo che già testimoniavano di una sua felice vena letteraria.
Fu proprio a Pietroburgo che nel 1916 Babel’ fece un incontro decisivo per la sua vita e per la sua carriera letteraria, quello con Aleksej Maksimovic Peskov, meglio conosciuto come Gor’kij.
Il famoso scrittore pubblicò sulla sua rivista Letopis alcuni racconti di Babel’, suggerendogli anche di accrescere le proprie esperienze di vita, di andare tra la gente.
“Devo tutto a quell’incontro e continuo a pronunciare il nome di Aleksei Maksimovic con amore e devozione”, scrisse poi Isaak nella sua autobiografia.
Babel’ seguì in pieno il consiglio di Gor’Kij e nei successivi sette anni andò effettivamente tra la gente, collezionando esperienze non comuni.
Si immerse nel terremoto rivoluzionario e poi nella guerra civile, fu soldato sul fronte rumeno, lavorò per il servizio di controspionaggio e presso il Commissariato del Popolo e fu corrispondente di giornali a Pietroburgo e Tbilisi.
Nel 1919 si sposò con Eugenija e nel 1920 fu assegnato come giornalista alla Prima Armata a Cavallo del feldmaresciallo Budennyj, truppa che agli ordini del nuovo potere sovietico cercò di portare la rivoluzione oltreconfine, respingendo i polacchi, che avevano preso Kiev, fin quasi a Varsavia.
La sua immaginazione, fin troppo fervida quando era ragazzo, a contatto con realtà così peculiari e dure si asciugò, mettendosi al servizio di una più incisiva espressività.
Mettersi in gioco, vivere gli eventi turbinosi del suo paese e del suo tempo, traendone il succo, stare insomma tra le masse, dovette giovare alla sua maturazione letteraria, tanto che, dando in qualche modo ragione a Gor’kij, Babel, nella sua autobiografia scrisse: “Soltanto nel 1923 imparai ad esprimere i miei pensieri in modo chiaro e non troppo prolisso. Allora ripresi a scrivere”.
Molti dei racconti che vennero raccolti nel suo celebre “L’armata a cavallo”, furono prima pubblicati su LEF, la famosa rivista di Majakovskij, poi raccolti in volume.
Erano pagine che mostravano senza retorica un mondo rovesciato dalla guerra e dalla rivoluzione, parlavano di uomini capaci nella stessa misura di eroismo e crudeltà.
Lo scrittore descriveva le orde degli eterni poveracci che, invadendo le antiche città polacche, portavano da un lato l’orgoglio del verbo nuovo del bolscevismo, con la sua ricerca di una società più giusta, guidata dai lavoratori, dall’altro esprimevano anche tutto l’orribile armamentario di una guerra: violenza arbitraria, vendetta, saccheggi.
Lo scrittore, che era stato assegnato allo stato maggiore dell’armata in qualità di corrispondente, dovette più volte compilare denunce di azioni banditesche che portarono i colpevoli dinanzi ai tribunali militari.
Divenuti storie e letteratura nel suo libro, quei fatti renderanno una testimonianza unica di quel momento storico fatto di grandezza e di orrore, confluendo nello spazio amplissimo di un’opera epica.
Babel’, che pure aveva immolato così tanti anni della sua vita alla causa del suo paese e della rivoluzione, a causa della sua onesta descrizione della brutalità della guerra, si fece alcuni nemici influenti, primo tra tutti proprio il Comandante dell’Armata a cavallo, Budennyj.
Il libro rischiò così di essere bloccato, ma l’intervento di Gor’kij salvò l’opera che riscosse poi un vero successo e fu tradotta ben presto in molte lingue.
Tornato infine ad Odessa, Babel’ iniziò a scrivere una serie di racconti brevi ambientati nel quartiere dove era nato e che era stato il suo mondo da bambino, il ghetto di Moldavanka.
Ripescati dalla sua memoria personale, quegli scritti, pubblicati col titolo di “Racconti di Odessa”, raccontavano per lo più storie di vita minuta, di traffici illeciti, di banditi, del mondo della criminalità ebraica prima e dopo la rivoluzione russa.
Nacque in quel periodo anche la sua amicizia, durata per tutto il resto della sua vita, con lo scrittore e giornalista Il’ja E’renburg, divenuto negli anni successivi allo stalinismo una delle voci principali del cosiddetto “disgelo”.
Per tutti gli anni venti Babel seguitò a pubblicare con grande successo i suoi racconti.
A metà di quel decennio, nel 1925, sua moglie decise di espatriare, andando a vivere a Parigi.
Un viaggio che lo scrittore fece in Ucraina nel 1930 lo mise al corrente del metodo brutale col quale veniva generalmente pianificata la collettivizzazione, così quando Stalin decise di mettere sotto controllo la produzione di cultura in URSS imponendo il modello del realismo socialista, Babel’ rinunciò, neppure troppo gradatamente, alla vita pubblica.
Una progressiva disillusione si era ormai insinuata in lui.
Dopo che molte sue richieste a tal fine erano state rifiutate, nel 1935 lo scrittore ebbe il permesso di visitare la sua famiglia in Francia e nel corso di quel viaggio tenne un discorso dinanzi all’antifascista Congresso Internazionale degli Scrittori di Parigi.
Tornato in patria si dedicò ad alcune collaborazioni come sceneggiatore di film sovietici, lavorando anche con Sergej Ejzenstein per “Il prato di Bezhin”.
Non pubblicava, tuttavia.
Si sentiva ormai sempre più distante dal clima politico e culturale voluto da Stalin ed incline a chiudersi in un silenzio definitivo, che testimoniava però la sua disillusione per l’esito della rivoluzione e la sua estraneità al nuovo potere autocratico.
Un silenzio come il suo, in una situazione come quella sovietica, finiva per parlare troppo.
Colpito dalla morte sospetta di Gor’kij nel 1936, scrisse: “Ora verranno a cercarmi”.
Non si sbagliava: nel maggio del 1939 fu arrestato nella sua casa a Peredelkino con l’accusa, totalmente infondata, di spionaggio.
Portato nella famigerata Lubjanka gli fu estorta una falsa confessione.
Su quella base venne processato e giudicato colpevole.
Nel gennaio del 1940 il potente Berija con una lettera indirizzata direttamente a Stalin, chiese il permesso di giustiziare 346 nemici del PCUS e del potere sovietico che avevano condotto “attività controrivoluzionarie, trotzkismo di destra, complotto e spionaggio”.
Il nome di Isaak Babel’ era il dodicesimo della lista.
Stalin rispose positivamente.
Il 27 gennaio del 1940 lo scrittore venne fucilato nella prigione di Butyrka.
Una falsa versione ufficiale sostenne che Babel’ era morto in un campo di prigionia in Siberia nel marzo del 1941.
I manoscritti e l’archivio dello scrittore, requisiti e confiscati, andarono perduti per sempre.
Di lui, oltre alle opere citate, restano anche due opere teatrali: “Tramonto”, del 1926 e “Maria”, scritta nel 1935, prima di rinchiudersi nel silenzio.
Nel 1954, ad un anno di distanza dalla morte di Stalin, Isaak Babel’ venne pubblicamente scagionato dalle accuse per le quali era stato ucciso.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.