Da almeno vent’anni il culto della personalità del leader ha spazzato via la Politica, ma il processo è iniziato anche prima.
La propaganda e il mito, l’immagine come archetipo, la “divinizzazione” del potere e poi la sua legittimazione oltre valori di riferimento, ai quali si è sostituita via via la forza del condizionamento e degli slogan: i muscoli e la pancia.
In tempi moderni siamo passati dall’investitura dall’alto a una pretesa investitura dal basso con delega in bianco, tutto e sempre in nome dell’elettorato e per il suo bene; ci siamo ridotti alla politica del televoto, alla conta dei voti come patrimonio personale e misura del potere, a suffragio di un leaderismo spinto sino a sconfinare nella dittatura della maggioranza, supportata da fedelissimi, a volte al leader altre alla carriera, dove l’assenza di Politica aumenta il rischio di scadere nel fanatismo di tifoserie.
Sulla scena si sono avvicendati individui che hanno puntato tutto sul proprio carisma mediatico, parlato alla pancia delle persone, mortificato idee e progetti, ridotto la comunicazione a slogan elettorali, i contenuti a promesse e semplificazioni, tanto per nascondere incompetenza e assenza di idee, a dominare sono i tatticismi che animano il teatrino della politica.
Intanto la povertà, la mancanza di lavoro e di stabilità, un futuro sempre più incerto, attanagliano il Paese. Sono tutte urgenze incalzanti eppure mancano risposte adeguate, neanche la necessaria empatia perché la politica le faccia proprie.
Nella crudezza del reale si moltiplicano proclami da difensori della patria e tutti indistintamente si dicono pronti a pensare agli italiani, ciascuno con la ricetta giusta in posa elettoral-popolare, presto contraddetti nei fatti quando si ritrovano a dover governare. E nel fermento rumoroso e instancabile dei vari tour elettorali, continuano a precipitare le sorti dei tanti giovani disoccupati, costretti a emigrare, di chi perde il lavoro a cinquant’anni e non ha possibilità di essere rioccupato, di chi non ha i mezzi necessari per sopravvivere a una realtà sempre più competitiva, che taglia fuori gran parte dei cittadini che non possiedono le risorse per reggere lo scontro.
Quando la Politica non mette più al centro i problemi delle persone, quando non sa dare risposte e gioca a rimpiattino per schivare le proprie responsabilità, quando non ha gli strumenti e le necessarie capacità, quando è asservita a logiche di mercato e di potere, allora si tende a proporre falsi problemi, si distrae la cittadinanza e si fa deragliare il pensiero cercando di smorzarne la capacità critica: si sceglie cioè di continuare con la propaganda, svolgendo operazioni di facciata per gettare il fumo negli occhi.
Allora mi chiedo e vi chiedo, cosa diventa un Paese la cui Costituzione all’articolo 1 afferma essere fondato sul lavoro se il lavoro non c’è o se quando c’è non è sicuro e di lavoro si muore, oppure è talmente precario che nei molti più disparati casi lede la dignità della persona?
È un Paese senza fondamenta. Infondato, traballante, morente, infelice.
Ma se questo nostro Paese non sa o non può perseguire la piena realizzazione della persona, perché a governare la politica sono logiche di mercato, una economia rapace che delocalizza il lavoro nel nome del profitto, unico dio, quanto potrà durare ancora l’agonia?
Il Paese invecchia in modo irreversibile.
Quanto ci si può sentire ancora cittadini, intesi come parte viva e vitale di questo corpo-paese, piuttosto che degli esclusi che faticano a credere nelle Istituzioni democratiche e a considerare l’esercizio del voto un diritto/dovere, una scelta importante che possa tradursi davvero nella concretezza di una vita migliore?
Non c’è passione se manca un sentimento collettivo che la politica non sa riaccendere, se latita la coscienza di impegnarsi per costruire una società buona, più giusta, e riportare al centro la felicità delle persone. Siamo accomunati dall’apatia piuttosto che dall’empatia, dalla percezione malevola che le comuni sorti e progressive non possano più tradursi attraverso scelte elettorali.
L’individualismo diffuso è il contraltare del leaderismo politico.
E l’attivismo? La partecipazione? Si rischia la pantomima, lo svuotamento, come accade per l’istituto del Referendum e per tante altre espressioni democratiche che perdono di valore e restano relegate nell’ambito di una finta partecipazione. Svuotata la Democrazia del suo valore, ridotta a contenitore di celebrazioni, prassi burocratiche, pratiche da evadere e archiviare.
E se in un Paese così ridotto si fa strada l’antistato?
Quando il limite della sopravvivenza viene oltrepassato ci si trova a scivolare nei rivoli delle tante collusioni, esiste un altro potere occulto e organizzato che si infiltra agevolmente quando vengono a mancare gli anticorpi.
Questa è una delle tante conseguenze letali in un Paese stanco di leggere sondaggi e di misurare le sue forze nella cabina elettorale.
L’agonia della Politica toglie a sua volta ossigeno a una intera comunità.
L’astensionismo si espande e si sa che meno si vota più spazio avrà il potere occulto, ma è anche vero che l’abitudine a votare il meno peggio, senza passione, in assenza di visione, sta indebolendo la capacità di scegliere e di opporsi, producendo una altrettanto pericolosa assuefazione al ribasso.
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale