Artaud, ovvero il teatro della crudeltà

“Dichiaratamente o no, consciamente o no, ciò che in fondo il pubblico cerca nell’amore, nel delitto, nelle droghe, nella guerra o nell’insurrezione è uno stato poetico, una trascendente esperienza vitale”

(Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio)

A tanti anni dalla sua scomparsa, la voce di Antonin Artaud continua inquietarci, accecandoci d’illuminazioni oscure con la potenza di un sole nero. L’influenza della sua ricerca radicale sui limiti del linguaggio e sul recupero del valore sacro del teatro è stata determinante su figure straordinarie della cultura del Novecento, da Carmelo Bene a Demetrio Stratos, da Julian Beck a Jerzy Grotowski, fino agli esperimenti contemporanei del teatro off.

La Crudeltà a teatro è un concetto fondamentale quando si parla di Artaud: egli ha continuato a sviluppare questa teoria per buona parte della sua vita, a partire dai primi anni ’30 fino alla morte, nel 1948.

Il suo Teatro della Crudeltà si può dividere in due fasi: il Primo Teatro della Crudeltà, sviluppatosi negli anni ’30 e il Secondo Teatro della Crudeltà, teorizzato in seguito alla reclusione presso due ospedali psichiatrici, prima a Parigi e in seguito a Rodez.

“Propongo dunque un teatro in cui delle immagini fisiche violente distruggano e ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze superiori”. Un Teatro della Crudeltà, in quanto “tutto ciò che agisce è una crudeltà. È su questa idea di azione estrema e spinta fino in fondo, che il teatro si deve rinnovare!”

Il primo manifesto del suo Teatro della Crudeltà risale al 1932, come chiariva in una lettera a Jean Paulhan: “Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta. Quello che l’autore chiama l’appello alla crudeltà e al terrore ha lo scopo di sondare la nostra vitalità interna per metterci davanti a tutte le nostre possibilità”.

Antonin Artaud -1926-

Crudeltà va intesa come volontà di liberarsi di qualunque elemento non fosse prettamente attinente al testo teatrale. Per scrollarsi di dosso la tirannia esercitata da testi spesso opprimenti, Artaud vuole un teatro integrale, che fonda il gesto con il movimento, la luce con le parole. Una nuova forma radicale e sovversiva, che spianerà la strada ad esperienze successive come quelle del Living Theatre.
Nel Secondo Teatro della Crudeltà, del ’33 si reputa che Artaud abbia raggiunto livelli di consapevolezza estremamente complessi, sul teatro e su se stesso, che sarebbe utile riprodurre anche nel teatro contemporaneo. Come nel caso del Primo Teatro anche in questo secondo momento Artaud scrive e pubblica un Manifesto, nel quale descrive i suoi obiettivi, i suoi progetti, parla dei mezzi e delle modalità che vorrebbe utilizzare, dei risultati cui vorrebbe giungere. Il tutto senza risparmiare un’acuta critica al teatro e alla società del suo tempo.

Ciò che muove Artaud nella teorizzazione di questo Secondo Teatro della Crudeltà sono le esperienze di cui è stato vittima durante i nove anni di ricovero. Si è convinto dell’esistenza di un complotto ordito contro di lui e che aveva causato il suo ingiustificato internamento.
questo Manifesto Artaud esprime il bisogno di una rifondazione del teatro su basi nuove e che tuttavia guardino all’autenticità ormai andata perduta di un teatro che sta scomparendo sotto il peso del cinematografo e delle nuove tecnologie.

Il Manifesto artaudiano è diviso in due parti distinte: quello che vuole creare è un teatro che si occupi della contemporaneità, dei problemi degli uomini e delle donne del suo tempo, un teatro che possa curare le anime e i corpi, ma al tempo stesso che per fare ciò non usi i mezzi propri del suo tempo ma guardi a mezzi antichi, presi dalle culture orientali ancora legate a tradizioni ancestrali. Questa tecnica dovrebbe, secondo Artaud, permettere alla cultura teatrale di non scomparire sotto la sempre maggiore forza dei nuovi media.

Artaud

Un tema molto caro ad Artaud è quello circa l’uso della parola a teatro e la funzione che essa ha o può avere. In particolare, la critica che Artaud muove al teatro del suo tempo è quella di basarsi troppo sulla parola, di renderla l’unica e vera protagonista e di lasciare in disparte tutto il resto. Artaud teorizza una forma spettacolare basata più su ciò che fisicamente avviene in scena, sulla presenza degli attori, sulla loro espressività, su ciò che il pubblico vede e percepisce. La parola in questo modo non è più il punto cardine dello spettacolo, ma diventa un mezzo, al pari di luci, gesti e movimenti. Artaud inoltre teorizza la creazione di spettacoli in cui non vi sia alcun tipo di divisione tra attori e pubblico. Lo spettacolo, secondo Artaud, dovrebbe svilupparsi non davanti agli spettatori, ma in mezzo a questi.
Per questo scopo egli teorizza la scomparsa della scena come veniva concepita allora: non più palcoscenico, non più costumi, non più scenografia, ma solo presenza di attori che si muovono in mezzo al pubblico, presenza di luci e suoni in grado di veicolare i sentimenti agli spettatori e da loro, presenza infine degli spettatori stessi che, accerchiati dallo spettacolo, entrano a farne parte al pari degli attori, vivendo quasi un’esperienza mistica, o totalizzante. Un teatro, quello teorizzato da Artaud, che abbia la capacità di “rendere attuali gli antichi conflitti”.

Un teatro che diventa cura attraverso la partecipazione emotiva degli spettatori, che sono qui chiamati a sentire lo spettacolo a cui partecipano. La loro sarà una partecipazione reale, autentica, che gli lasci qualcosa, che arrivi a cambiarli, a modificare ciò che sono e il loro modo di vedere il mondo. Un teatro insomma che non sia spettacolo, ma cura. Cura per il singolo così come per il gruppo; per l’attore così come per lo spettatore o il regista. Un teatro, infine, in grado di rifondare quella stessa società di cui fa parte in modo da poter contrastare le nuove malattie dello spirito divenute ormai endemiche.

Antonin Artaud fotografato da Man Ray

Si ritiene che la necessità manifestata da Artaud di creare un teatro utile ed efficace sia nata primariamente dai suoi stessi bisogni, dal suo aver trovato una cura in quello stesso teatro con cui aveva avuto un rapporto conflittuale per tutta la vita.

Così composto e così costruito, lo spettacolo, grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera del teatro, e, partito dal suolo, si arrampicherà sui muri mediante leggere passerelle, avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori. La scena sarà costituita dai personaggi stessi, cresciuti sino alle dimensioni di giganteschi fantocci, e da paesaggi di luci mobili, agenti su oggetti e maschere in continuo spostamento” (Artaud, Il Teatro e il suo doppio)

Antonin Artaud nasce nel 1896 a Marsiglia in una famiglia borghese, che però già ha in sé i germi della futura malattia. Il padre è capitano di lungo corso e la madre una turca di Smirne. A soli quattro anni lo prende una grave forma di meningite, che in seguito lo trascinerà in crisi di nevralgie alla testa e di depressione grave. Un periodo buio di reclusione in sanatorio si incastra con due mesi di arruolamento nell’esercito, dal quale è allontanato per episodi di sonnambulismo. Legge Rimbaud, Baudelaire e Poe, che ne modellano la formazione. Nel 1919 il direttore del sanatorio gli prescrive il laudano, che lo risucchia nel vortice degli oppiacei. I vagabondaggi nella sua psiche lo avvicinano al surrealismo, a cui si rapporta al Théâtre de l’Œuvre parigino, diretto da Lugné-Poe.

Antonin Artaud nel ruolo di Marat nel Napoléon di Abel Gance,1925

Mettendo in scena Alfred Jarry e Oscar Wilde, il teatro vuole svincolarsi dalla rigida tradizione del teatro francese del tempo, ingabbiato dai repertori del Secondo Impero, per ridare vita pratiche ormai dismesse. Artaud rivela subito un grande talento, come attore e come artista; egli sente intensamente e fa di questo suo percepire tormentato il materiale per la sua scrittura che lotta contro l’incompiuto e scava nei meandri delle sue ossessioni. La sua mano guida anche una fitta corrispondenza con Jacques Rivière, direttore della Nouvelle Revue Française, che rifiuta la pubblicazione della prima raccolta dei suoi scritti, ma piacevolmente si diverte in uno scambio prolifico e che affascinato dalla lucidità pazzesca delle diagnosi di Artaud, Rivière pubblica la corrispondenza sulla sua rivista!

Dal teatro passa al cinema, per cui scrive sceneggiature di sapore surrealista. Il surrealismo per lui è un ideale che non scende a compromessi, che non fa rivoluzioni politiche, ma che respira nella totalità dello spirito, più in alto rispetto alle contingenze umane. Per questo Artuad si oppone con convinzione all’iscrizione al partito comunista, che cozza con l’idea di una rivoluzione culturale e spirituale.

Il SURREALISMO non è un movimento espressivo nuovo o più facile, né una metafisica della poesia; è un mezzo di liberazione totale dello spirito”

Artaud nel picco della sua rivolta cita René Guenon e la sua critica all’impoverimento spirituale dell’Occidente, sancendo nella sua visione culturale il superamento dei concetti convenzionali di Tradizione e Rivoluzione.
Nell’affrontare infatti il suo distacco dai Surrealisti, e “il loro inginocchiarsi davanti al Comunismo”, egli spiega: “Una Rivoluzione che ha messo al primo posto delle sue preoccupazioni le necessità della produzione, e che di conseguenza si ostina a fare affidamento sulla meccanizzazione come un mezzo per facilitare la condizione degli operai, è secondo me una rivoluzione di eunuchi”.
Di conseguenza, egli afferma che “la Rivoluzione più urgente da compiere è in una sorta di regressione nel tempo”. Solo che la regressione nel tempo proposto non è per niente una reazione passatista, bensì un ritorno alle origini archetipiche di una sapienza interiore: “La massa, oggi come un tempo, è avida di mistero: non chiede altro che prendere coscienza delle leggi attraverso cui il destino si manifesta…”.

Il 1926 lo vede fondatore, con Roger Vitrac e Robert Aron, del Théâtre Alfred Jarry, in omaggio all’autore della scienza delle soluzioni immaginarie, “la patafisica”, che con l’arte e la letteratura sosta sulle eccezioni che si insinuano nelle teorie della scienza, impastando nonsenso, ironia e assurdo.

Intenso è poi anche il sodalizio con il Teatro Balinese, vivificato da una forma espressiva sua particolare, che si compone di gesti, atteggiamenti, grida lanciate all’aria, che abbraccia e lavora lo spazio scenico, che respira di qualunque stimolo possa venire dal tutto teatrale che circonda l’attore. Da questa esperienza Artaud matura la convinzione che il teatro debba avere un suo proprio linguaggio, che non si perde nella labilità delle parole, ma affonda nella “pasta solida del gesto”.

Nel 1932 nasce il teatro della crudeltà, cui si è prima accennato.

La sua vita si chiude nel vortice di serrati elettroshock: cinquantuno cadute in coma da elettroshock in nove anni, fino al 1945.

Per denunciare questa società disumana e malata, più dei malati contro cui si accanisce, Artaud scrive “Van Gogh, il suicidato della società”, allo scopo di riabilitare il grande artista, pazzamente forsennato forse, ma geniale, come lui.

Antonin Artaud muore il 4 marzo del 1948 nella sua piccola abitazione di Ivry-sur-Reine. Muore in estrema solitudine, come aveva trascorso gran parte della sua vita interiore: verrà ritrovato con una scarpa in mano, probabilmente stroncato da un’iniezione letale di sedativi.

          “Le idee che ho le invento soffrendole io stesso, passo dopo passo”

Antonin Artaud, autoritratto
Dicembre 1946

BIBLIOGRAFIA:

  • Teatro della crudeltà, in Dizionario dello spettacolo del ‘900, a cura di Felice Cappa e Piero Gelli, Baldini e Castoldi, 1998;
  • AA.VV. Artaud, verso una rivoluzione culturale. Bari, Dedalo Libri, 1974;
  • Giovanni Macchia, La caduta della luna. Milano, Mondadori, 1973;
  • Antonin Artaud. Opere Complete, Paris, Gallimard, 1964;
  • Martin Esslin, Artaud e il teatro della crudeltà, Roma, Abete, 1980.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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