Il padre del vampiro: storia di John William Polidori

Nel giugno del 1816, a Villa Diodati, una casa che sorgeva sulle rive del Lago di Ginevra e che George Byron aveva preso in affitto, si incontrarono Mary Wollstonecraft, il suo futuro marito Percy Bysshe Shelley, lo stesso Byron, la sua amante Claire Clairmont, sorellastra di Mary, e John William Polidori, segretario e medico dello scrittore inglese.

Villa Diodati a Ginevra in un’incisione d’epoca

Questi illustri personaggi si erano trovati a soggiornare contemporaneamente nella bella zona del lago, ma erano stati costretti a rimanere al chiuso delle rispettive dimore a causa di quindici giorni di intemperie e di piogge torrenziali.
Fu proprio in quella casa che, su proposta di Byron, il titolato gruppetto, per trascorrere in modo interessante il tempo di quella involontaria clausura, in un primo momento si diede a leggere ad alta voce le storie dell’orrore degli scrittori romantici tedeschi raccolti nell’antologia “Fantasmagoriana”.
Poi, in seguito al prolungarsi del maltempo ed in virtù del clima stimolante che si era creato, Byron propose a ciascuno degli amici di scrivere a sua volta una storia di fantasmi.

Ritratto di Byron realizzato da Thomas Phillips, c. 1813
Mary Wollstonecraft Shelley

Questo invito si rivelò straordinariamente fertile e finì per incidere significativamente sulla storia della letteratura e non solo su quella.
Nella curiosa ed intrigante circostanza nacque infatti “Frankenstein”, scritto dalla Wollstonecraft Shelley, il suo futuro marito produsse un’operetta dal titolo “The assassin”

Percy Bysshe Shelley in un ritratto di Anonimo

e Byron scrisse una storia, “The Burial”, conosciuta anche come ”The fragment”.
Polidori, partendo dal medesimo spunto di Byron, scrisse “The Vampyre”, un racconto nel quale, per omaggiare il suo famoso datore di lavoro, introdusse anche elementi tratti da “Glenarvon”, un romanzo appena pubblicato quello stesso anno e in cui Caroline Lamb aveva ideato un personaggio crudele ricalcato sulla figura dello stesso poeta.

Ritratto di Claire Clairmont (Roma 1819 Amelia Curran)

La novella di Polidori venne pubblicata per la prima volta tre anni dopo, nel 1919, sul “New Monthly Magazine” e per un errore del direttore della rivista fu attribuita a Byron.

Una delle edizioni del libro di Polidori erroneamente attribuita a Byron

Lo scrittore protestò vibratamente negando di esserne l’autore e arrivando addirittura a sostenere, in una lettera indirizzata al responsabile di quella clamorosa svista, di non avere nemmeno mai sentito parlare dello scritto.
Un fatto, questo, che testimoniava indirettamente la fine burrascosa dei rapporti tra Byron e il suo segretario, medico e compagno di viaggi, conclusione dovuta ad una progressiva incompatibilità di carattere.
Intanto quell’errore di attribuzione aveva già prodotto svariate conseguenze, alcune delle quali decisamente gustose.
Goethe, ad esempio, che non aveva avuto alcun sentore della falsa attribuzione, sostenne addirittura che “Il vampiro” era il miglior lavoro del poeta inglese!
La breve opera presenta per la prima volta la figura del vampiro in ambito letterario, essendo questa precedentemente presente solo nelle tradizioni popolari di alcuni paesi. Il racconto fece scalpore in Inghilterra, portando scompiglio sia per la iniziale attribuzione a Byron che per il suo contenuto oscuro.

E dire che Polidori nel tratteggiarla aveva evitato di riprodurre il personaggio crudele e sanguinario presente nella mitologia popolare, modellando invece il suo vampiro proprio sui modelli byroniani dell’eroe tenebroso.
Quel suo primo prototipo letterario finì per influenzare tutta la letteratura gotica successiva che affrontò un analogo argomento.
La figura da lui inventata infatti dettò moda e venne puntualmente caratterizzata come la sua: aristocratica, bene inserita nell’alta società e ammantata di un fascino letale.

Illustrazione per la prima edizione de “La famiglia dei Vourdalak” di Alexsej Tolstoij, cugino del più noto Lev

Inutile aggiungere che nel tempo l’affermazione del racconto fu mondiale e che nelle opere di moltissimi autori di diverse nazionalità, da Nodier ad Alexsej Kostantinovic Tolstoij, per non parlare di Bram Stoker col suo “Dracula”, si rese evidente il debito contratto col personaggio ideato dal medico inglese.

Polidori, dal canto suo, visse un’esistenza decisamente più breve rispetto a quella della sua creatura letteraria, che oltre a parecchi  discendenti da romanzo ebbe anche infinite reincarnazioni cinematografiche.

F.G. Gainsford ritratto di John Polidori, ca. 1816

John William Polidori era nato a Londra nel Settembre del 1795. Era il figlio maggiore di Gaetano Polidori, un letterato italiano che fu per qualche tempo segretario di Vittorio Alfieri, e di Anna Maria Pierce, una istitutrice inglese.
I due ebbero otto figli, quattro per sesso. Emigrato in Inghilterra, Gaetano, che era stato il primo a tradurre in italiano “Il Castello di Otranto” di Horace Walpole, trasmise al figlio John la sua passione per gli intrighi e le storie del mistero.

Il ragazzo iniziò i suoi studi nel 1804 presso un Istituto di frati ad Ampleforth, risultando nel tempo uno degli studenti più brillanti del College.
Nel 1810 si iscrisse alla Facoltà di Medicina dell’università di Edimburgo, laureandosi nel 1815, a soli diciannove anni,  con una tesi sul sonnambulismo.

Ampleforth College

Fu in quel periodo che conobbe George Byron, impressionandolo favorevolmente, tanto da indurlo l’anno successivo a prenderlo al suo servizio come medico personale e segretario.
Come era costume nella nobiltà del tempo, Polidori accompagnò lo scrittore in tutte le sue peregrinazioni.
L’intesa tra i due, che in teoria avrebbe potuto essere stimolante, non funzionò affatto e la convivenza tra il poeta ed il petulante e rissoso medico, che Byron aveva ribattezzato Polly Dolly, si fece difficile al punto che, poco dopo le famose serate della sfida letteraria vissute nella casa sul lago di Ginevra, Polidori venne licenziato.

Villa Diodati a Ginevra in una recente fotografia

Tornò allora in Inghilterra e nel 1820, con una lettera al Priore di Ampleforth, il luogo dei suoi studi giovanili, manifestò l’intenzione di intraprendere il percorso ecclesiastico.
La risposta negativa del religioso fu netta: il tenore scandaloso della sua attività letteraria non gli avrebbe in nessun modo consentito di realizzare tale proposito.
L’anno successivo Polidori, in piena depressione, scrisse un poema a sfondo religioso: “La caduta degli angeli”.

La sua condizione psicologica peggiorò notevolmente anche per l’accumularsi di debiti di gioco che finirono per rovinarlo, proprio come se in lui si fosse incarnato uno dei suoi personaggi romantici.
Nell’agosto del 1821, stanco e sempre più depresso, decise di togliersi la vita.
Mise davvero in atto questo suo ultimo volere con un preparato letale, da lui stesso distillato: un veleno a base di acido prussico.

Byron, dopo aver ricevuto la notizia della morte del suo ex segretario e medico, scrisse:

“…Ecco, il povero Polidori se n’è andato! Quando era il mio medico, parlava sempre di acido prussico… di misture velenose; ma per fini diversi da quelli del re del Ponto, poiché egli si è prescritto una dose da uccidere cinquanta Mitridati”.

Quasi un secolo dopo la scomparsa dello scrittore, nel 1911, l’editore Elkin Mathews di Londra pubblicò “The Diary of John Polidori”,  ovvero il suo diario, in un’edizione curata da Michael Rossetti.

William Michael Rossetti, fotografato da Julia Margaret Cameron

Quest’ultimo era discendente di Polidori. La sorella dello scrittore, Frances, aveva infatti sposato Gabriele Rossetti avendone quattro figli, uno dei quali era Michael.

Un altro di questi fratelli, Dante Gabriel Rossetti, divenne il maggior pittore della corrente dei Preraffaelliti.

Il diario di Polidori conteneva vari materiali autobiografici e numerosi aneddoti riguardanti i suoi viaggi con Byron.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *