Partecipare all’All Star Game della NBA è sinonimo di classe, ma giocare le finali per il titolo, seppure da comprimario e lasciare l’impronta per la grinta e le ginocchia sbucciate merita rispetto. E’ la sintesi della carriera cestistica di Kurt Rambis, uno dei giocatori che ha avuto l’onore di vivere l’epoca dorata dei Los Angeles Lakers negli Anni Ottanta, quelli dello Showtime¹.
“If you told Kurt to run through a brick wall to win a basketball game, he would do it.”
(“Se dicessi a Kurt che passando attraverso una parete di mattoni vincerai una partita, stai sicuro che lo farebbe”) ha detto di lui Kobe Bryant
Ci sono sempre stati giocatori talentuosi ma non eccelsi perfino nella dorata Nba, si pensi a Mark Landsberger che finì la sua carriera in Italia segnando vagoni di punti e caterve di rimbalzi, tanto per capire la differenza di livello; poi c’erano quelli come Paul Mokeski e Manute Bol utili per l’altezza: cioè stoppate e rimbalzi, poi vi erano quelli come Marvin “bad News” Barnes che il talento ce l’avevano e tanto ma alla cui cervice mancava qualche rotella, infine c’era Rambis che non aveva il talento cristallino dei suoi compagni ma possedeva forse il fuoco sacro dei suoi antenati, quelli che in 300 avevano fermato il potente esercito di Serse alle Termopili…!
La prima cosa che si guardava di lui, quando negli anni Ottanta esordì nella mitica NBA, era il paio di occhiali legati con un filo dietro la testa! Nessuno nel mondo dei professionisti USA li portava e i tifosi dei Lakers ben presto lo chiamarono con affetto “il Clark Kent del parquet” e questo oggetto non identificato entrò nell’ammirazione anche degli avversari perché dimostrava che, pur avendo una buona altezza (era alto due metri e cinque) ma non un talento alla Erving o alla Jabbar, con umiltà e usando la testa ci si poteva ritagliare un ruolo importante anche tra i pro.
Kurt era idolatrato a Los Angeles soprattutto per il suo lavoro “sporco” sotto ai tabelloni e diciamo pure che se non ci fosse stato Rambis, non ci sarebbe stato dopo neanche Dennis Rodman accanto a Michael Jordan. Ha fatto parte negli anni ’80 del mitico Showtime dei Los Angeles Lakers e c’era un gruppo di tifosi che si presentava allo stadio con i suoi occhiali da nerd: erano la “Rambis Youth”.
Il suo punto più alto come realizzatore fu nel 1988, quando nei playoff contro i San Antonio Spurs, fece il suo record di punti, 19 tutti in un solo quarto, grazie al genio negli assist di Magic Johnson.
Altro episodio epico fu durante le finali del 1984 contro i Celtics, lanciato in un contropiede da Worthy, venne letteralmente abbattuto da McHale che lo afferrò per il collo e per poco tra le panchine non scoppiò una rissa da Far West.
Di lui c’è poco da dire, era il simbolo del giocatore che lavorava duramente per la squadra, amato a Los Angeles e in tutti quei campetti dove i ragazzini, che non avevano il talento di Magic ma solo una gran voglia di giocare e migliorare, vedevano in lui un modello da seguire. Kyriakos Rambidis è stata la giovane ala forte americana (con cittadinanza greca) dell’AEK Atene nella memorabile stagione 1980-81, quando i gialloneri vinsero la loro prima Coppa di Grecia, battendo l’Iraklis Salonicco alla storica Glyfada Indoor di Atene.
Kurt è nato nel 1958 a Terre Haute, Indiana, la storia del giovane e della sua famiglia è comune a quella di migliaia di famiglie di migranti europei del XX secolo: arrivati negli Stati Uniti un paio di generazioni prima alla ricerca di fortuna e una paziente costruzione di qualcosa di buono nella vita, cioè un’attività commerciale per la famiglia con minimo di sicurezza per il futuro.
Trasferitosi a Cupertino, California, ancor prima di cominciare a frequentare la scuola, sviluppò le doti fisiche che lo spinsero a scegliere la pallacanestro, Kurt si fece notare alla Cupertino High School per la dedizione, guadagnandosi una borsa di studio alla vicina Santa Clara University, nel 1976.
Per Rambis a Santa Clara furono quattro anni di college ricchi di soddisfazioni: fu Freshman of the Year, Player of the Year della West Coast Conference per l’anno da senior, e parecchi occhi di scout NBA erano puntati su di lui e sulla sua naturale tendenza a farsi carico del lavoro meno appariscente della squadra, pur essendo anche un grande realizzatore nei suoi quattro anni di università.
Quello fu solo l’inizio della sua straordinaria carriera di cestista. Ha segnato 1.736 punti diventando capocannoniere di tutti i tempi di Santa Clara ed è anche stato il secondo rimbalzista dell’università di tutti i tempi. Nel 1980 Kurt fu poi scelto dai New York Knicks come 58a scelta del Draft. Nonostante le rosee premesse, fu snobbato alle scelte del Draft 1980.
Ricordiamoci che se per il modo pro non aveva abbastanza talento in Europa avrebbe fatto furore anche giocando con una mano legata dietro come diceva nelle sue celebri telecronache NBA Dan Peterson sulle TV italiane!
Prima di lui nella scelta c’era gente che ha fatto la storia della NBA come Kevin McHale, Andrew Toney o Kiki Vandeweghe, ma anche giocatori che mai vi hanno messo piede come David Lawrence, il “pesarese” Roosevelt Bouie o come Monti Davis, scelto al primo giro dai Sixers e in campo solo in due partite per un totale di dieci minuti. O come l’ormai famoso “Big Mistake” James Ray, scelto col numero 5 da Denver e protagonista di una non proprio sfavillante carriera.
Furono i Knicks a scegliere Rambis, per poi tagliarlo prima della stagione 1980-81, costringendolo così a trasferirsi oltreoceano con la casacca dell’AEK di Atene.
Nell’estate successiva Rambis tornò ai Knicks, che lo girarono ai Lakers.
Dopo 11 partite nella stagione 1981-82 il coach Paul Westhead lasciò l’incarico al giovane assistente Pat Riley, che, dopo un periodo di assestamento e nonostante la totale inesperienza alla guida di una delle più importanti squadre della lega, portò i Lakers alla vittoria del titolo NBA battendo 4-2 in finale i Philadelphia 76ers.
In squadra, oltre a Kurt, c’erano Kareem Abdul-Jabbar, Magic Johnson, Jamaal Wilkes, Bob McAdoo, Norm Nixon e Michael Cooper, grandissimi campioni.
Pat Riley, che diventerà uno dei più blasonati coach dei professionisti, comprese che in una orchestra di tanti solisti era indispensabile che qualcuno si prendesse quei compiti meno appariscenti e duri che le star non amavano fare.
Kurt Rambis era come una granitica bodyguard che scortava i grandi campioni sul campo, vegliando su di loro e se qualcuno si dimostravo troppo duro nei loro confronti, lui risolveva tutte le questioni.
Ben presto a Los Angeles scattò la Rambis-mania: il contrasto tra il fisico, senza tatuaggi, possente e quegli occhialini da nerd era la prima cosa che saltava agli occhi guardando l’ala dei Lakers dello Showtime. In effetti se c’era un giocatore che “apparentemente” stonava in quella perfetta macchina da pallacanestro era proprio il numero 31, un giocatore con tanto cuore, uno di quelli di cui però hai bisogno per vincere, a dimostrare che anche in mezzo ai campioni ci deve stare uno che fa il lavoro sporco e i suoi compagni famosi lo hanno sempre per questo amato e stimato.
Tutto questo, e molto, molto di più, era diventato in pochi mesi Rambis per i L.A. Lakers, tutto grazie al suo sapersi adattare, al suo spirito di dedizione e alla voglia di “osare” di coach Riley, alla ricerca di qualcuno di estremamente tosto e fisico e che usasse la testa per proteggere l’area difensiva gialloviola.
Fece appena 4.6 punti e 5.4 rimbalzi a partita da rookie NBA, ma l’importanza strategica della sua presenza in campo fu subito chiara a tutti, il meccanismo perfetto dello Showtime non poteva prescindere dal lavoro di Rambis e le cose più importanti, come la sua difesa arcigna e i tagliafuori non si potevano riportare coi numeri.
Nella stagione 1982-83 i Lakers raggiunsero ancora la finale, ma vennero cappottati 4-0 dai Philadelphia 76ers del neo arrivato Moses Malone e da Erving.
Los Angeles arrivò ancora una volta in finale, e ancora una volta viene sconfitta, stavolta dai Boston Celtics nella stagione successiva, che per Rambis era durata soltanto 47 partite di regular season, a causa di un fastidioso infortunio.
Ai playoff invece ci arrivò in piena forma, giusto in tempo per essere atterrato in contropiede dal celebre “lazo al collo californiano” di Kevin McHale, in uno dei più cruenti episodi caratterizzanti la rivalità tra i Celtics e i Lakers.
Come detto furono gli uomini di coach K.C. Jones a prevalere per 4-3 in quel 1984, ma nella stagione successiva la truppa di Pat Riley si prese la rivincita sui biancoverdi, aggiudicandosi le NBA Finals per 4-2.
Ormai il meccanismo dei Lakers era perfetto, e il ruolo di Rambis al suo interno era fondamentale. Nonostante l’intensità difensiva e a rimbalzo, Kurt riusciva anche a ritagliarsi uno spazio importante in attacco, evidentemente sottostimato dalle difese avversarie ed era facile esserlo quando sei in squadra con ‘cecchini’ come Magic, Abdul-Jabbar, Bob McAdoo, Jamaal Wilkes, Byron Scott e l’astro nascente da North Carolina, James Worthy e quindi capace di mantenere sempre alta la percentuale di realizzazione dal campo.
Dopo la sconfitta nella Western Conference Finals nel 1985-86 contro gli Houston Rockets, poi sconfitti dai Celtics in finale, i Lakers sembravano ormai logori, con Kareem alla soglia dei quarant’anni e un super impiego per Magic, ma invece, ecco arrivare i due ultimi capolavori di coach Riley, il titolo NBA nel 1986-87 su Boston e nel 1987-88 ai danni dei Detroit Pistons.
Soprattutto il titolo del 1987 è stato vinto grazie al duro lavoro difensivo di Rambis perché Abdul-Jabbar ormai si concentrava solo sulla fase offensiva, e toccava all’uomo da Santa Clara pattugliare l’area, anche in virtù del fatto che James Worthy non amava giocare sotto i tabelloni, e che il futuro erede di Rambis in mezzo all’area, l’allora rookie AC Green, aveva ancora poca esperienza.
Nell’estate del 1988, a trent’anni, Rambis fu messo a disposizione per l’Expansion Draft della neonata franchigia degli Charlotte Hornets, e da quel momento iniziò la parte finale della sua carriera NBA che lo vide transitare oltre che a Charlotte, a Phoenix e a Sacramento, prima di tornare ai Lakers, nel 1994 e nel 1995, per le sue ultime due stagioni NBA: fu una sorta di happening di addio per un giocatore tanto riservato quanto amato dai tifosi dei Lakers. Nel suo palmares, oltre ad un Coppa di Grecia, spiccano i 4 anelli NBA su sei finali in totale.
I numeri della sua carriera sono 4.603 punti e 4.961 rimbalzi, cifre che esprimono solo in minima parte il suo impatto sul gioco, soprattutto al massimo livello.
Dopo aver smesso le scarpe da basket, Rambis ha allenato qualche anno nella NBA con alterne fortune, l’ultima ai Minnesota Timberwolves dal 2009 al 2011, successore peraltro del suo storico rivale Kevin McHale.
Le sue sfide proprio con Kevin McHale, altro giocatore “bianco” dell’epoca e rivale nei matches contro i Celtics, seppero esaltarne il carattere, talvolta finendo spesso sopra le righe. Uno dei primi giocatori ad indossare occhialoni di plastica, dal dubbio design, ma che sicuramente lo aiutarono nel gettarsi per terra sulle palle vaganti, utile ‘gregario’ per i mitici Lakers che vantavano stelle di prim’ordine. A noi però piace ricordarlo con quei occhiali da nerd e con il numero 31 dei Lakers, che sgomita per prendere posizione sottocanestro o portare i suoi blocchi granitici per Jabbar e metterlo in condizione di sganciare i suoi mortiferi sky hooks, i mitici ganci cielo che partivano praticamente dal tetto di una villa!
Rambis è stato un giocatore chiave durante il periodo dello “Showtime” e in maglia Lakers ha disputato 9 stagioni ma in questa sua ennesima parentesi a Los Angeles, sarà sia consigliere di Magic Johnson sia un valido supporto per il coaching staff. Negli anni ottanta il giocatore che più fece tendenza negli USA non fu Magic con il suo sorriso disarmante e nemmeno l’incontenibile Larry Bird o Moses Malone con i suoi occhiali protettivi, ma bensì Kurt Rambis, che con la sua faccia da uomo qualunque ha inpersonificato alla perfezione l’icona della ‘working class hero’.
E i celebri occhiali di Kurt non erano affatto una trovata per far colpo, avevano motivo di esistere in quanto erano veri e propri occhiali da vista e soprattutto avevano le lenti infrangibili visto i suoi problemi di miopia!
Note:
¹ Nel basket, Showtime è stata un’era nella storia dei Los Angeles Lakers dal 1979 al 1991, quando la squadra della National Basketball Association (NBA) ha giocato un emozionante stile di basket run-and-gun. Guidata dalle capacità di passaggio di Magic Johnson e dal punteggio di Kareem Abdul-Jabbar, la squadra ha fatto affidamento su contropiede veloci e ha vinto cinque campionati NBA.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.