Collegno: Orrore in corsia ovvero la storia dei manicomi italiani – 1/3

Quando noi chiediamo roba per cambiarci, con grida da forsennati, ci mandano via dal magazzino e dobbiamo tenerci la roba addosso sporca e strappata

Dal diario di Edmondo D…, internato al Manicomio di Collegno, anno 1962

Manicomi si chiamavano volgarmente le strutture che si dedicavano alle persone con problemi mentali o comportamentali, molti anni fa. “Ospedali Psichiatrici”, “Centri d’igiene mentale” tanti nomi che servivano spesso solo per mascherare le atrocità che venivano consumate tra quelle mura prima dell’attuazione della legge Basaglia, che il 13 maggio 1978, disponendone la chiusura, restituì un frammento di dignità alle persone che dentro quelle “case di cura” si erano viste portare via giovinezza, maturità e vecchiaia: insomma la vita!

Quando si entrava in manicomio non c’erano più speranze. In manicomio avevi perso la tua partita con la vita. Sei solo una pedina rimossa dalla scacchiera del vivere, che continuerà ad osservare la vita in disparte, incapace di poter intervenire. È così che succedeva ai malati di mente. Presi e stipati nei manicomi, rimossi da una società che non poteva né voleva accettarli e che prendeva la strada più facile, nascondendoli. Se non si vedono, non esistono. Ma i malati esistono, piangono, urlano, si strappano i capelli, pisciano, sono picchiati, e lo sanno bene gli infermieri, o gli stessi malati- quelli che hanno ancora un briciolo di coscienza.

Dal diario di Edmondo D….. internato a Collegno 1962
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Nell’antichità la malattia, soprattutto mentale, veniva spesso ricondotta all’intervento di forze soprannaturali, divine, per questo veniva “curata” attraverso riti mistico-religiosi. I sacerdoti di quell’epoca, tentavano di leggere messaggi che provenivano da un altro mondo.
Nel Medioevo, invece, le persone che manifestavano comportamenti ritenuti “bizzarri”, venivano considerate possedute; ed anche in questo caso la “cura” era affidata agli esponenti della Chiesa, tentando di combattere la possessione con l’idea che l’anima si allontanasse dalla tentazione il più rapidamente possibile.
Nell’Età rinascimentale il problema della “follia” iniziò ad essere considerato un punto di vista sociale: “folli” erano coloro che erano una minaccia per la società, da rimuovere il più velocemente possibile. L’idea di allontanare dalla società chiunque fosse considerato pericoloso si verificò pure in seguito alla Riforma attuata da Martin Lutero quando la povertà perse il suo significato trasformandosi in una colpa ormai attribuibile alla persona.

Estrazione della pietra della follia
Hieronymus Bosch 1494 ca.

Nel XVII secolo, con la nascita della psichiatria, si iniziò a denunciare il sistema correttivo capendo che la maggior parte delle persone rinchiuse non aveva bisogno di alcun trattamento. Tuttavia la malattia mentale continuava ad essere considerata incomprensibile, ed i metodi usati restavano disumani.
Proprio in questo periodo sorsero moltissime case di internamento, destinate a rinchiudere in un’unica struttura una varietà di persone rifiutate dalla società: persone con malattie mentali, poveri, vagabondi, mendicanti, criminali, dissidenti politici, persone nullafacenti.

Una delle prime case fu l’Hospital General di Parigi, fondato nel 1656. Qui le persone non venivano per essere curate, ma per finire i propri giorni lontano dalla società. Una volta entrate in questi luoghi, le persone venivano spogliate della loro dignità e trattate senza rispetto ed erano spesso soggette a punizioni corporali. Presto le case di internamento si diffusero in tutta Europa diventando uno strumento di enorme potere, spesso non utilizzando nessun criterio logico sulla decisione della vita delle persone e su chi doveva essere rinchiuso. Vi erano cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; catene, lucchetti e serrature ovunque. Le cure consistevano nell’internamento e nell’isolamento e gli strumenti erano quelli provocare stati di shock nelle persone. Il cambiamento nell’elaborazione delle concezioni della mente e del suo funzionamento, si ebbe soltanto tra la fine ‘800 e inizio ‘900.

© Photo: Carlo De Santis

Gli ospedali psichiatrici istituiti in Italia fin dal XV secolo furono in seguito regolati per la prima volta solo nel 1904. Furono chiamati “manicomi”, “frenocomi” ecc.
Nei manicomi provinciali italiani, sparsi in tutto lo stivale, entravano malati affetti da disturbi mentali ma anche persone che avevano la colpa di rappresentare un pericolo per la società, un rischio, un semplice imbarazzo (senza tetto, sbandati e oppositori politici). Il manicomio, divenne il più pratico strumento per “togliere” di mezzo persone scomode, bypassando complessi iter giuridici.

Nel XIX secolo, a causa del crescente numero dei malati, si iniziò a discutere una legge che potesse regolare tutti i manicomi del Paese. Nel 1891 in una ispezione sui manicomi del Regno, le strutture presentavano scarsa qualità o fatiscenza nei locali, inadeguatezza delle cure, scarse condizioni igieniche e il problema del sovraffollamento. Anche se formalmente le autorizzazioni erano sempre necessarie, per evitare complicazioni e ritardi, si praticava l’ammissione d’urgenza con domanda di autorizzazione agli organi competenti.

La prima legge sistematica venne approvata nel Febbraio 1904 e, con alcune modifiche, rimase in vigore fino al 1978. Il manicomio diventava il sostituto del carcere o del semplice ospedale, l’alleanza fra psichiatri e tutori dell’ordine, il ricovero era non solo di “pazzi” ma anche di paralitici, alcolisti, degenerati, tossicomani, dementi e tutti quei soggetti che potevano dare scandalo alla società o alla famiglia. Negli anni del fascismo fu un “arma” per eliminare in maniera silenziosa una persona che raffigurava l’oppositore politico e anche l’omosessuale. A sancire il ricovero d’urgenza, senza alcuna volontà della persona, non era solo l’autorità di pubblica sicurezza, ma anche la figura politica con nomina governativa, che dal 1926 sostituì quella del sindaco: il podestà.

Donne in un manicomio nel ventennio fascista

Le condizioni di vita, in un manicomio, erano ben peggiori di quelle di un qualsiasi penitenziario. Le terapie applicate erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, l’elettroshock praticato in maniera selvaggia, le docce fredde, l’insulino-terapia, la lobotomia. Questi trattamenti si basavano sulla speranza di modificare qualcosa nel paziente creandogli uno shock ma un malato di mente vi entrava come “persona” per poi diventare purtroppo una “cosa”. Ovviamente, nei manicomi non era previsto nessun tipo di colloquio terapeutico, perché il problema psichiatrico aveva la solo accezione biologica e non psicologica. Ai pazienti era impedito di avere contatti con l’esterno e non usufruivano di nessun tipo di rapporto umano. Un paziente con disturbo psichiatrico perdeva, anche, una serie di diritti civili e politici (il voto, i beni immobili, l’eventuale eredità); la malattia veniva annotata nel casellario giudiziario, con conseguente macchia sulla fedina penale, si diventava dunque un ‘individuo pericoloso’!

L’utilizzo non proprio ortodosso dei manicomi non terminò con la caduta del Fascismo e tantomeno con la fine della II° Guerra Mondiale. La permanenza delle persone, in cui le condizioni erano a dir poco peggiori, li portava ad una morte anticipata nel più assoluto e raccapricciante silenzio.
La società però iniziò a condannare i manicomi come luoghi in cui le persone perdevano la loro identità. Negli anni ’60 si inaugurarono i primi governi dove affermavano l’aspettativa di un cambiamento e di apertura anche sulla psichiatria. Vi era l’intento di trasformare i manicomi in ospedali psichiatrici dove poter curare, se non addirittura guarire, i malati di mente.

Dal diario di Edmondo D….. internato a Collegno 1962
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Nel 1965, il ministro della sanità, tento l’avvio di una riforma, ovviamente non tutti si dimostrarono favorevoli per la paura di mescolare i “matti” tra la gente “normale”.
Il movimento antipsichiatrico partì da Gorizia per poi diffondersi anche nel resto d’Italia.
A Nocera Superiore venne abolito l’elettroshock, il direttore dell’Istituto prese contatti con Basaglia; a Cividale del Friuli venne inserito il nuovo metodo terapeutico basato sul dialogo individuale col paziente, ma presto venne richiesto di chiudere questo progetto sottolineando come vi fossero profonde spaccature.

Il 1968 fu l’anno della svolta, vi fu l’occupazione dell’Ospedale di Colorno per richiamare l’attenzione della città sui problemi della reclusione manicomiale; in Italia vennero approvate alcune modifiche normative iniziando a prevedere il ricovero volontario e si cominciarono ad istituire i centri di igiene mentale a livello provinciale. Si abbatteva la regola dell’annotazione nel casellario giudiziario così il paziente non perdeva più i diritti civili; il paziente aveva la possibilità di effettuare un ricovero volontario; nascono le cliniche private, i pazienti potevano avere una via d’uscita dal manicomio. L’idea diffusa, comunque, non cambiava e i manicomi rimanevano sempre luoghi di aberrazione psichica e fisica.

Manicomio occupato a Colorno

Nel 1977 si cominciò a considerare la tutela della salute quale diritto fondamentale della persona e interesse della collettività, sottolineando la necessità di creare un Servizio Sanitario, in grado di affrontare la malattia mentale in un’ottica completamente differente. Pian piano le persone cominciarono a rendersi conto della realtà del manicomio ed è in questo clima che nasce la legge 180. Una vera rivoluzione storica grazie al suo promotore, Basaglia, che in molti ritengono che sia stata proprio questa legge a far sì di chiudere i manicomi, anche se in realtà rappresentava soltanto l’inizio di un processo molto più complesso.

Solo sul finire degli ’80, a seguito della definitiva applicazione della legge Basaglia, i manicomi furono definitivamente chiusi.

Franco Basaglia (1924–1980) è stato uno psichiatra e neurologo italiano, innovatore nel campo della salute mentale, riformatore della disciplina psichiatrica in Italia.Ispiratore della Legge 180/1978 (che ne prende il nome) che introdusse la revisione ordinamentale degli ospedali psichiatrici in Italia.

Continua…


Bibliografia:

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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