Ripartiamo dal civismo

Se il civismo fosse un abito non sarebbe certamente un cappotto da usare solo per l’inverno. A mio modesto parere sarebbe stato giusto paragonarlo invece a una seconda pelle, quella dello status di cittadino consapevole dei propri diritti, attivo e attento ai propri doveri, perciò responsabile verso la propria comunità. Una pelle questa che non si dovrebbe poter dismettere a piacimento, perché insita nella propria identità di persona, tra le diverse sfaccettature che ci fanno soggetti di una società civile; anzi, dovrebbe essere una pelle per tutte le stagioni, che si fa corazza nelle avversità ma al contempo sensibile e ricettiva verso l’ambiente circostante, perché connaturata alla nostra condizione di uomini e donne, prima, di cittadini e cittadine poi.
Basterebbe citare la definizione del vocabolario Treccani, che ho voluto consultare per curiosità, per capire in sintesi di cosa sto parlando, ed effettivamente sorprende la semplicità di queste parole, chiare e dirette, senza fare ricorso a tanti sillogismi:

“civismo: Nobiltà di sentimenti civili, alto senso dei proprî doveri di cittadino e di concittadino, che spinge a trascurare o sacrificare il benessere proprio per l’utilità comune: dare prova di civismo.”

La crisi dei partiti è iniziata proprio dal momento in cui hanno perduto il nutrimento civico e hanno iniziato a essere autoreferenziali, ovvero non si sono più dotati di quella necessaria osmosi con la società civile, non hanno attinto alle istanze civiche e ricondotto il luogo del dibattito politico al centro della cittadinanza, tradendo spesso, in parte o in tutto, la loro prima finalità, ovvero: tradurre in azioni politiche concrete la risposta ai bisogni reali delle persone. Una politica della cura che passa da un ascolto attivo dei cittadini, ovvero dal loro giusto coinvolgimento, quali attori solidalmente responsabili del proprio destino.


Sarebbe anacronistico oggi negare tutto questo, a fronte di un cambiamento progressivo che ha riportato al centro l’esperienza civica e rimesso in asse con la stessa il rinnovamento dei partiti in un campo progressista aperto. Ritengo che le primarie rispondano esse stesse a questa esigenza, quale strumento di consultazione e partecipazione dal basso, perciò credo che disporsi alle primarie per la scelta del candidato sindaco di una sinistra progressista non possa prescindere dalla considerazione di un valore civico, che viene riconosciuto e nobilitato proprio attraverso questa scelta.
La politica non fa che attingere al civismo, e quando non lo ha fatto ha perso di significato; i partiti che lo hanno compreso cercano da tempo di rigenerarsi riformulando la propria proposta politica in modo da attingere a quella civica, e il campo progressista, a maggior ragione, deve necessariamente allargare la platea rivolgendosi al civismo, perché è proprio da qui che parte la sfida per contrastare la disaffezione al voto e il rischio di svuotamento della democrazia, ridotta a sola prassi esteriore.
Tutto questo però non può concretizzarsi con una mera “sfida” nelle primarie, dal sapore di contrapposizione, rischiando di scadere ancora una volta in una pratica esteriore, ma al contrario esse devono essere punto di partenza per una visione allargata più partecipata e inclusiva della politica e della sua nobilitazione. Diversamente sarebbe riduttivo e, ancora una volta, fine a se stesso.

Dice Giuseppe De Rita sociologo, che i motivi dell’astensione non sono soltanto quelli più noti, ma che essa è riconducibile oggi anche a un

“elettorato indifferente a quel che avviene nella vita comunitaria, appiattito sulle proprie scelte personali, quasi prigioniero di un sopore difficile da smuovere: un elettorato senza condivisione di sentimenti collettivi”.

Giuseppe De Rita sociologo italiano (Roma 1932). Laureato in giurisprudenza (1954), è stato funzionario dello SVIMEZ (1958-63). Consigliere delegato del CENSIS (1964-74), nel 1974 ne è diventato segretario generale. Dal 1989 al 2000 è stato presidente del CNEL.

Mi sento di sostenere che l’elettorato manca perché manca il progetto e la visione che la politica dovrebbe essere capace di costruire. Ecco perché per ricostruire un sentimento collettivo è necessario il terreno civico, che è essenzialmente quello della polis, delle città come comunità e come prima risposta alle esigenze di vita delle persone. La politica di prossimità che si esprime attraverso le amministrazioni locali è il primo baluardo del civismo; le amministrazioni locali sono quelle che stanno in prima linea e quelle alle quali il civismo si rivolge, in un appello costante determinato da un contatto più diretto, poiché ogni scelta e azione a livello locale ha una ricaduta immediata sul territorio, facilmente percepibile nella qualità della vita dei cittadini e quindi una possibilità concreta di rendere felici le persone.
È questa politica di prossimità che fa del primo cittadino una istituzione ben riconoscibile e riconducibile ai propri concittadini, e il sentimento partecipativo che nasce nelle comunità locali, chiamate a essere coinvolte nelle scelte, è portatore di grande valore per la democrazia; esso è direttamente proporzionale a un contesto sociale vivo e solidale, che cresce col crescere della cura dei beni comuni, soprattutto là dove si sanno porre in essere validi strumenti di partecipazione, quindi di responsabilità delle persone. Insomma il civismo ha la possibilità di cambiare i paradigmi della politica creando nuovi strumenti di coinvolgimento attivo e soprattutto, attraverso questi, di svincolarsi da logiche di potere che spesso conducono a scelte lontane dai bisogni delle persone, sacrificandoli a interessi altri.

Quando Stefano Rolando scrive della legittimità di una Italia dal basso, si riferisce a “un tessuto intermedio della rete di responsabilità che si riconducono allo spirito civile, in quanto società laica, e allo spirito civico, in quanto società partecipativa”, tutto questo è possibile partendo dal riconoscere che alla crisi dei partiti politici ha corrisposto una spinta dal basso, non per speculare sui loro guai ma per contribuire alla tenuta di una democrazia fortemente in crisi.

Sempre per riportare le parole di Rolando

Oggi il 30% dei comuni sotto i 15 mila abitanti è governato da sindaci e giunte civiche. Il 20% tra i 15 e i 40 mila abitanti. Poi nell’ambito medio urbano e dei capoluoghi è ormai radicata la modalità di un civismo che concorre alle sorti della democrazia spesso in modo decisivo nella formazione di alleanze di governo delle città e dei territori. Si riconosce che il civismo migliora la qualità di governo, diminuisce l’astensionismo, tiene in agenda i temi che rispondono a domanda sociale non al trucco di agende piegate a interessi (salvo casi che non vanno negati di forme di civismo camaleontico rispetto a interessi politici ed economici).”

Mi piacerebbe dunque che davvero crescesse e si ampliasse il solco dell’ esperienza civica, aprendosi ulteriormente, risolvendo i conflitti e le discrasie, riportando i cittadini alla politica, che è poi il luogo naturale nel quale si decidono le sorti del proprio destino e si costruisce insieme il futuro, in breve a quel sentimento collettivo che ci può salvare dalla deriva individualistica dei tanti “ismi” particolari, declinati per egoismo e sete di potere.
È un invito a essere rivoluzionari, a osare e a innovare, superando lo schema di quei partiti che parlano solo di se stessi, ostaggio di poteri, per ampliare il contesto associativo partecipato, che necessita di un confronto con tutti, e proiettarsi verso un futuro che ha bisogno di consapevolezza e coraggio, e non di dipendenze e paure che riducono all’immobilismo e causano frustrazione e sfiducia.
Ecco perché, ricollegandomi alla necessità di una visione in cui il civismo sia una seconda pelle e alla necessità che arrivi proprio da questo status l’ispirazione per le più aperte e legittime aspirazioni, intendo sollecitare ancora a ripensare e ricostruire una società buona, partendo da questa spinta dal basso, attingendo ad essa e non dismettendo cappotti, che tanto l’inverno è finito, non offrendo cioè una chiave di lettura fatta di contrapposizioni e esclusioni, quasi che la politica fosse prerogativa di e non prospettiva con, ma piuttosto leggendo insieme gli errori da correggere, percorrendo insieme la strada di una visione da ricostruire, rifondare gli orizzonti da aprire non confinandosi nei propri limiti… in sintesi riconoscendosi tutti parte integrante di un percorso, possibile e innovativo, che si affronta solo prendendosi anche quei rischi necessari, come ogni vero cambiamento richiede.

Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale

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