Collegno: Orrore in corsia ovvero la storia dei manicomi italiani – 2/3

“Di notte non bisogna muoversi dal letto, e se si fa così, o si fa fracasso per la formidabile pena fisica, ci legano ai letti di contenzione, con intrugli ospedalieri ci fanno dormire anche se non ne abbiamo voglia”

Dal diario di Edmondo D…, internato al Manicomio di Collegno, anno 1962

Il Regio Manicomio di Torino nacque nel 1827, quando l’architetto Giuseppe Maria Talucchi fu incaricato di progettare una sede per accogliere i ricoverati presso il vecchio Ospedale de’ Pazzarelli, che risaliva al XVIII secolo. Ma già dopo pochi anni, la struttura si dimostrò insufficiente. Oltre al sovraffollamento dei locali, vi era, causa le precarie condizioni igieniche, il pericolo dell’insorgere di epidemie.
Era necessario trovare una nuova struttura, in grado di accogliere i pazienti e, dopo aver vagliato diverse ipotesi, venne deciso nel 1852 di utilizzare la Certosa Reale di Collegno. All’epoca, la Certosa non era affatto abbandonata, ma era abitata dai Certosini, ordine monastico fondato da San Bruno nel 1084 nell’Isère, con la creazione del primo monastero, la Grande Chartreuse.

Ingresso della Certosa Reale di Collegno

Il monastero della Certosa di Collegno era sorto nel 1634 per volontà di Cristina di Francia, la Madama reale ossia madre di Carlo Emanuele II. Ma dai tempi di Madama Reale, molte cose erano cambiate. Già con Napoleone erano stati soppressi molti ordini religiosi, mentre i loro beni erano stati incamerati dallo Stato, e destinati ad usi pubblici. Con la Restaurazione, gli ordini religiosi avevano tirato un sospiro di sollievo, ma l’avvento di Vittorio Emanuele II e dei governi liberali aprì un vero braccio di ferro tra il Piemonte e la Chiesa.

Nel 1848 si iniziò con la soppressione della Compagnia del Gesù, poi, dopo le leggi Siccardi del 1850, nel maggio 1855 fu votata la legge Rattazzi sui conventi che sopprimeva gli ordini religiosi contemplativi (quelli non impegnati nella cura dei malati o nell’insegnamento, ma votati alla solitudine e alla preghiera), e trasferiva tutti i loro beni alla Cassa Ecclesiastica, per il mantenimento dei parroci. Nel 1852, anche se non era stata ancora approvata la legge Rattazzi, tirava già nel Governo un’aria anticlericale, così, quando venne deciso che ottanta ricoverati presso il Regio Manicomio di Torino, sarebbero stati allocati, a titolo provvisorio, presso la Certosa Reale di Collegno, i Certosini acconsentirono illudendosi che questa “funzione sociale” li avrebbe garantiti dalla soppressione dell’ordine.

Fu tutto inutile: nel 1855 la legge Rattazzi entrò in vigore, i Certosini furono cacciati e la Certosa Reale di Collegno diventò in toto il Regio Manicomio.
Qui Cesare Lombroso condusse i suoi celebri studi frenologici, che diedero origine a trattati come “Genio e Follia” del 1872 o “L’Uomo Alienato” del 1913. Nel 1885, Antonio Marro, allievo di Lombroso e suo assistente di Medicina Legale, fondatore della rivista “Annali di Freniatria”, venne nominato Medico Capo Divisione e Direttore del Laboratorio Clinico del Regio Manicomio.

Cesare Lombroso

Considerato l’incremento del numero dei ricoveri alla fine dell’Ottocento, la Provincia di Torino deliberò dunque la costruzione di un nuovo ospedale psichiatrico nella borgata di Savonera a Collegno. L’edificazione del ricovero di Savonera, progettato e realizzato dall’ufficio tecnico provinciale, prese il via nel 1910 per completarsi nel 1913. Una volta terminato, il complesso sarebbe stato adibito a ricovero per i malati cronici tranquilli, assai più simile a un gerontocomio che a un manicomio, come dimostra il fatto che il progetto originario della struttura non prevedesse né sbarre alle finestre né muro di cinta.
La gestione del nuovo ospedale venne ancora una volta affidata all’opera pia Confraternita della Sindone perché la Provincia non aveva sufficiente cultura ospedaliera e adeguato personale sanitario per condurre il nuovo ospedale psichiatrico, così la Confraternita continuò a mantenere un ruolo dominante negli ospedali psichiatrici. Il ricovero di Savonera fu ben presto insufficiente ad accogliere anche solo i malati “tranquilli” e il numero di ricoverati continuava a crescere, così la Confraternita della Sindone fu obbligata a prendere decisioni contrarie alla Provincia, inviando a Savonera solo donne e non rispettando la suddivisione tra malati acuti e tranquilli.

Dal diario di Edmondo D….. internato a Collegno 1962
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Nel 1914, per ovviare a questa situazione e all’eccessivo affollamento delle strutture ospedaliere, l’opera pia propose una sistemazione diversa dei malati con il trasferimento di tutti gli uomini a Collegno (circa 1500) e di tutte le donne a Torino e Savonera (anch’esse circa 1500), ma questa ridistribuzione non bastò a risolvere il problema del sovraffollamento e nel 1915 i rappresentanti dell’opera pia e della Provincia s’incontrarono per dibattere su questo tema. Ci fu un compromesso tra i due enti per cui alla Provincia fu chiesta l’edificazione di una nuova struttura manicomiale e all’opera pia veniva confermata la gestione della struttura e la garanzia che il nuovo complesso ospedaliero sarebbe stato costruito vicino a Collegno con una capienza adatta al futuro abbandono della sede di Torino.

I lavori di costruzione dal 1928 terminarono nel 1931 e portarono all’edificazione a Grugliasco di un fabbricato direttivo, due di degenza, della camera mortuaria e della cucina. Il nuovo complesso fu denominato “Istituto Interprovinciale Vittorio Emanuele III per infermi di mente in Grugliasco”.


L’indicazione di interprovinciale nasceva dalla suddivisione tra la Provincia di Torino e quella di Aosta. L’ente torinese era proprietario del complesso per l’85,85% e quello valdostano per il rimanente 14,15%: in tali proporzioni erano state suddivise le spese e il numero delle ricoverate. Anche in questo caso l’opera pia dei Regi ospedali psichiatrici di Torino ottenne la gestione dell’ospedale.

Sezione medico-pedagogica dell’Istituto Interprovinciale Vittorio Emanuele III per infermi di mente in Grugliasco

Tra il 1931 e il 1934 erano anche state realizzate dall’opera pia la Villa Regina Margherita, struttura nel complesso della Certosa di Collegno destinata a pensionanti, cioè alienati che pagavano una retta di tasca loro. Fu usato il nome Villa per evocare una maggior apertura, rispetto a ospedale o al manicomio, e suggerire una maggior idea di libertà, nonostante questi ricoveri fossero uguali agli altri manicomi, a parte per il trattamento relativo al cibo, che era migliore, e all’alloggio in camere singole.
Negli anni Sessanta del Novecento presero il via i lavori per l’ampliamento dell’ospedale di Grugliasco e per riportare alla sua destinazione originaria il padiglione medico-pedagogico, denominato Villa Azzurra, una struttura per il ricovero di 150 tra bambini recuperabili e scolarizzabili e bambini non scolarizzabili. Il reparto venne definito “aperto”, basato cioè sul sistema open door, per quanto il meccanismo della gestione medica e infermieristica risultasse identico a quello degli altri settori del manicomio.

Interno di Villa Azzurra

Nel 1966, spinta dal sovraffollamento della struttura di Torino, l’opera pia costruì un nuovo grande padiglione ospedaliero nel complesso della Certosa di Collegno, denominato Villa Rosa e destinato alle degenti anziane tranquille, che erano già ricoverate in manicomio ma non potevano lavorare e le cui famiglie non potevano provvedere alla loro assistenza.
Dal 1968 al 1970 si tentò ripetutamente di sciogliere l’opera pia, fino a quando, nel 1971, fu rinnovato il consiglio di amministrazione degli ospedali psichiatrici di Torino e nominato un nuovo presidente: a quel punto divenne chiaro che era venuta meno l’ipotesi di scioglimento dell’ente. Parallelamente, nel corso degli anni Settanta, i degenti erano diminuiti e si erano creati spostamenti di malati da un reparto all’altro. Nel 1973 venne chiusa la sede di via Giulio, che divenne proprietà del Comune nel 1975. Nel 1978 venne chiuso l’ospedale di Savonera e nel 1979 Villa Azzurra.

Il 31 dicembre del 1980 l’Opera pia Ospedali psichiatrici di Torino venne definitivamente sciolta e la competenza dei degenti di Grugliasco e Collegno passò all’Unità sanitaria locale 24 di Collegno.

Bisogna uscire dal centro di Torino e andare verso ovest a Collegno.
Nel mezzo della periferia, varcato un ingresso, si apre un parco ben curato di circa 400.000 metri quadrati. Non sembra di trovarsi in un luogo che un tempo accoglieva 5.700 pazienti perché l’antico edificio che ospitava la direzione è stato riqualificato così come la chiesa sconsacrata, resa un luogo per mostre ed eventi culturali.

Questa era la parte delle ville” spiega il giardiniere “c’erano gli ammalati più ricchi e poi una sezione femminile e un muro divideva questa zona da quella dei reparti”.

Dal diario di Edmondo D….. internato a Collegno 1962
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Il Regio Manicomio si trasferì in questo spazio, che oggi si chiama Parco Generale Dalla Chiesa, quando per far fronte al problema del sovraffollamento degli istituti, nel 1851, si era proposta la costruzione del nuovo ospedale. L’area apparteneva ai frati Certosini che offrirono l’occupazione gratuita ma temporanea dello spazio. Quando però quattro anni dopo le corporazioni religiose furono soppresse, come già detto, il manicomio si espanse, furono costruiti nuovi edifici ed anche una colonia agricola.

Si producevano cinquanta quintali di verdura al giorno, eravamo aiutati dagli ammalati perché per loro era una forma di terapia”.

I reparti sono oggi la zona più decadente del parco, la struttura ha la freddezza di un luogo di detenzione, sono tutti collegati come si vede sulla planimetria: “Ci sono passaggi sotterranei attraverso i quali si arriva ovunque” e si racconta come “gli ammalati” avessero dei segnali in codice per avvertirsi l’un l’altro quando passava il Professore. “I corridoi e i giardini si svuotavano in men che non si dica e ognuno si faceva trovare calmo ed ubbidiente nella propria stanza” ricorda il giardiniere stupendosi ancora di come ciò fosse possibile.

Il Professore in questione è Giorgio Coda soprannominato “l’elettricista” perché ricorreva a punizioni esemplari che andavano dall’elettroshock alla pratica del legare i pazienti, anche giovanissimi, ai caloriferi roventi. Il dottore esercitò a Collegno dal 1956 al 1964 poi dieci anni dopo fu processato grazie ad una psicologa che denunciò le sue pratiche inumane. Nel 1977 Prima Linea, organizzazione armata estremista, ferì il professore, condannandolo così una seconda volta. Un anno dopo l’attentato verrà approvata la legge Basaglia che chiuderà, almeno in parte, il capitolo degli ospedali psichiatrici.

Il processo che vide Giorgio Coda come imputato nacque in seguito all’invio di un rapporto al Tribunale per i minorenni da parte dell’assistente sociale Maria Repaci del Centro di tutela minorile di Torino. Il rapporto riguardava i molteplici fatti di villa Azzurra.
Il 7 settembre 1970, Giorgio Coda viene incriminato per il reato di “abuso dei mezzi di correzione” e venne applicata l’amnistia.
Il 14 dicembre 1970 il giudice istruttore ricevette un esposto dell'”Associazione per la lotta contro le malattie mentali”, decisivo per far ripartire l’inchiesta e il processo. L’11 luglio 1974 arriva la sentenza dopo un lungo e drammatico dibattimento processuale e Coda è dichiarato “responsabile del reato ascritto limitatamente ai fatti relativi all’ospedale psichiatrico di Collegno”.
In appello, la difesa di Coda sfruttò ciò che il giudice Rodolfo Venditti definì un “siluro”, cioè una sorta di cavillo legale che fu forse tenuto nascosto in primo grado e che consisteva nel fatto che Giorgio Coda, in qualità di esperto, era stato giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Torino e pertanto, in qualità di “giudice”, non poteva essere giudicato nello stesso tribunale di cui era stato giudice. La scoperta di ciò portò in sostanza all’annullamento della sentenza ed all’allungamento dei tempi. In seguito, il giudizio passò alla Cassazione, ma i reati caddero in prescrizione e Coda non scontò mai nessuna pena.
Il 2 dicembre 1977, alle 18:30, quattro uomini facenti parte dell’organizzazione armata di estrema sinistra Prima Linea penetrarono nell’appartamento dove Coda faceva visite private e, dopo averlo sottoposto a un breve “processo”, gli spararono alle spalle e alle gambe, dopo averlo legato a un termosifone. Sul corpo esanime gli attaccarono un cartello con su scritto: «Le vittime del proletariato non perdonano i loro torturatori».

Continua…


Bibliografia:

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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