Ennio Flaiano, un marziano nella cultura italiana

Ennio Flaiano

È uno degli scrittori più citati e meno letti.

La sua intelligenza, che si è sparsa in mille ambiti e in mille rivoli, dal giornalismo alla letteratura, passando per il cinema, è tuttavia conosciuta soprattutto perché ha saputo inventare aforismi dalla perentoria efficacia.
Moltissimi di noi conoscono infatti frasi come quella che dice che “la situazione è grave, ma non è seria” o che “l’italiano è sempre il primo a correre in soccorso del vincitore” oppure l’altra ancora, meravigliosa, che sostiene che “il cretino è pericoloso perché ha un sacco di idee”.
Questa conoscenza residuale dell’autore sembra incoraggiare la pigrizia degli italiani, un’indolenza che del resto lui conosceva bene, ora assolvendola, ora pungendola con qualcuna delle sue battute acuminate.
Tutti, conoscendo una o due di quelle straordinarie battute, possono citare Ennio Flaiano senza mai averne letto un solo libro.  

Ennio Flaiano

“Io non intendevo assolutamente diventare scrittore. Le mie aspirazioni erano molto più modeste e direi diverse. Nella mia giovinezza non avevo idee chiare, anzi ne avevo poche ma confuse: avrei voluto diventare, non so, rilegatore di libri, falegname. Mi attiravano le arti in cui avessi potuto usare le mani e la fantasia”.

Così disse il nostro scrittore in una intervista alla Radio della Svizzera Italiana appena due settimane prima di morire.
Parole come queste, pur dando per scontato che in esse si possa rintracciare un qualche intento umoristico, dicono molto su una personalità originale e complessa come la sua.

Flaiano in uno schizzo di Fellini

Come se fosse infatti stato attirato da molti ruoli e fosse caduto vittima di altrettante seduzioni, Flaiano è stato un autore incisivo quanto disorganico, capace di lasciare un’opera, sì vasta e complessa, ma composta a sua volta di tante, piccole, a volte piccolissime, opere.
Non fa meraviglia quindi, riflettendo su questa sua disorganicità, sulla sua difficoltà a concentrarsi su una sola impresa, venire a sapere che lui, nato a Pescara nel 1910, ultimo di sette figli, nel corso della prima infanzia sia stato sballottato tra scuole e collegi di troppe città: Pescare, Camerino, Senigallia, Fermo e Chieti.
Un‘infanzia scritta, insomma, in più atti.
Arrivò infine, dodicenne, a Roma, la città destinata a diventare sua.
Vi giunse il 27 ottobre del 1922, e per una buffa coincidenza, si trovò a viaggiare in treno con i fascisti che partecipavano alla Marcia su Roma.
Nella capitale compì gli studi secondari, iscrivendosi poi alla Facoltà di Architettura senza però terminare gli studi.
Che l’avesse voluto o no, già all’inizio degli anni Trenta iniziò a scrivere, collaborando con varie riviste, come “L’Italia Letteraria” e “Occidente”. Scriveva, in particolare, recensioni di libri.
In quel periodo abitava in una stanza a Via delle Milizie, che divideva col pittore Orfeo Tamburi.
Conobbe e frequentò ben presto diversi giornalisti e scrittori, come Mario Pannunzio, Leo Longanesi ed altri, compreso Telesio Interlandi, direttore in seguito de “La difesa della razza”.
Queste promettenti premesse di carriera subirono una brusca interruzione tra il 1935 e il 1936 quando Flaiano, dopo un soggiorno a Pavia trascorso nella Scuola Ufficiali, partecipò alla Guerra d’Etiopia.
Quell’esperienza sarà decisiva nella elaborazione e nella scrittura del suo romanzo “Tempo di uccidere”, ambientato nei luoghi e negli anni di quella guerra di conquista.

Leo Longanesi

L’incontro con Leo Longanesi, conosciuto al ritorno dalla sua avventura militare, gli fornì l’importante occasione per collaborare al settimanale di attualità politica e letteraria “Omnibus”, fondato e diretto dal famoso giornalista e polemista.
Contemporaneamente ebbe una collaborazione anche con “Il Quadrivio”, un periodico culturale che vantava apporti di grande livello, come quelli del giovane Brancati, di Francesco Jovine, di Carlo Bernari e di Alberto Moravia che vi pubblicò il suo racconto “Solitudine estiva”.
Nel 1939 iniziò a collaborare col neofondato settimanale “Oggi”, occupandosi di cinema.
Un suo progressivo dissenso verso il regime fascista cominciò ad intravedersi, celato ma non troppo, nelle sue recensioni dei film.
Da provinciale intelligente qual’era, stava intanto stringendo una profonda relazione con Roma, una città che, esplorazione dopo esplorazione, avrà pochi segreti per lui: Flaiano riuscirà a capire e descriverne l’anima più profonda.
In quello scorcio di tempo tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta visse la stessa vita di molti intellettuali dell’epoca, frequentando l’Antico caffè Greco e le trattorie dove si incontravano persone del calibro di Palazzeschi, Brancati, Cardarelli, Penna, Carlo Levi, Libero De Libero ed altre figure della cultura internazionale come Irving Penn, Orson Wells e altri ancora.

Intellettuali al Caffè Greco. Si riconoscono tra gli altri: Ennio Flaiano (secondo da destra), Vitaliano Brancati, Afro, Carlo Levi, Aldo Palazzeschi e Orson Welles

Nel 1940 sposò Rosetta Rota, un’insegnante, sorella di un compositore che sarebbe diventato celebre: Nino Rota.
Dai due nacque Luisa, una figlia la cui malattia cerebrale grave sarà per lo scrittore motivo di preoccupazione e dolore per tutta la vita. 
Negli anni Quaranta Flaiano estese la sua collaborazione ad un folto gruppo di giornali e riviste, producendo recensioni sia letterarie che cinematografiche e dal 1943 iniziò la sua carriera di sceneggiatore che darà frutti fondamentali per la filmografia italiana e, più in generale, per tutta la cultura, nazionale e non.

Ennio Flaiano con la moglie Rosetta

Scriveva nel frattempo freneticamente, anche sotto pseudonimo, disperdendo i suoi interventi su un numero crescente di giornali e riviste. Nel 1947, siamo ormai nel primo dopoguerra, su perentoria sollecitazione dell’amico Leo Longanesi, scrisse “Tempo di uccidere”, il già citato romanzo ispirato dalla sua partecipazione alla guerra d’Etiopia, opera che vinse la prima edizione del Premio Strega, appena istituito da Maria Bellonci.
Dai tardi anni Quaranta in poi Flaiano riuscirà a sfoltire la sua attività  giornalistica concentrandola solo su “Il Mondo”, la rivista fondata da Mario Pannunzio, che ospitò il fior fiore delle intelligenze liberali e democratiche italiane, e che essendo del tutto svincolato da ogni vassallaggio partitico, indicò una via di progresso civile e laica, cuneo tra le due “chiese” del dopoguerra, quella democristiana e quella comunista.

Mario Pannunzio, fondatore e direttore de “Il Mondo”

Flaiano fu caporedattore di una redazione dalla grana culturale finissima e la sua rubrica settimanale “Diario notturno” verrà riunita da Bompiani in un libro che diverrà uno dei suoi più famosi.
Per tutto il dopoguerra, per almeno trent’anni nel corso della cosiddetta prima repubblica, lo scrittore si dividerà tra il giornalismo di costume e l’attività di sceneggiatore che lo portò a collaborazioni con tutti i grandi registi italiani, nessuno escluso, ma che produrrà, in seguito al lavoro svolto con l’amico Federico Fellini, alcuni dei capolavori assoluti della cinematografia mondiale, film quali “Lo sceicco bianco”, “I Vitelloni”, “Otto e mezzo”, ”La strada” e “La dolce vita”.

Ennio Flaiano stringe la mano ad Anita Ekberg, sotto lo sguardo di Federico Fellini, durante una pausa delle riprese della Dolce vita (1959)

Negli anni Sessanta riprenderà a distribuire tra più testate la sua attività giornalistica: “L’Europeo”, “L’Espresso”, “Il Corriere della sera” e “L’Illustrazione italiana”, iniziando anche a coltivare relazioni e progetti internazionali che lo porteranno a soggiornare e lavorare in Spagna, in Francia, a Praga e in Svizzera, dove incontrerà la vedova di Thomas Mann per via di un progetto cinematografico basato sul “Tonio Kroger”.
Volerà anche negli Stati Uniti in occasione dell’Oscar attribuito a Fellini per “Otto e mezzo”, da lui sceneggiato.
Flaiano si farà ricordare anche come autore per il teatro: il suo celebre “Marziano a Roma” in occasione della prima, sarà così contestato dal pubblico che l’autore, un po’ provato ma sempre pronto di riflessi, dichiarò:

“L’insuccesso mi ha dato alla testa”.

Flaiano con Vittorio Gassman dietro le quinte de “Il Marziano a Roma”

Nel marzo del 1970 venne colpito da un infarto.
Subito dopo, riferendosi alla morte, la paragonerà ad una signora che parlando al telefono pubblico di un locale e riconoscendolo tra gli altri presenti, gli faccia un cenno di saluto.
Da quel momento in poi, convinto che gli restasse poco tempo da vivere,  sentirà l’urgenza di riunire e catalogare i suoi scritti per pubblicare un corpus integrale della sua opera, sparsa in mille fogli.
Per concentrare questo suo sforzo arriverà a trasferirsi da solo in un residence portandosi dietro solo alcuni libri e lavorando alla valutazione, correzione e catalogazione di moltissimi scritti.
Nel novembre del 1972 pubblicò sul Corriere della sera il suo ultimo articolo prima che il 20 dello stesso mese un secondo e fatale infarto lo strappasse alla vita.
Un fondo a suo nome fu istituito a Lugano, in Svizzera, dove sua moglie Rosetta, scomparsa a sua volta nel 2003, si era trasferita dopo la morte del marito.
“Le ombre bianche” fu l’ultimo suo libro pubblicato in vita, mentre la maggior parte della sua opera, nella quale spiccano titoli come “La solitudine del satiro”, “Autobiografia del blu di Prussia”, “Diario degli errori” e “Frasario essenziale per passare inosservati in società”, vide la luce postuma.

In sostanza, dovendo definire Flaiano, si avrebbero gravi difficoltà a farlo  inquadrandolo in un solo ruolo: tutta la sua frenetica e assai produttiva attività, potrebbe smentire qualsiasi ipotesi riduttiva.
Al di là della sua brillantezza di umorista, di creatore di aforismi fulminanti, di osservatore attento e di fustigatore senza furori dei vizi provinciali della società opulenta, chiassosa e spesso cafona degli anni Sessanta, al di là della sua complicità con Roma, della sua orgogliosa indipendenza di pensiero e di altro ancora, tutte cose che appartengono sicuramente alla sua cifra di autore, parlando di Flaiano si può concludere anche con un’altra riflessione, quella che Maria Corti scrisse nella sua introduzione al corpus delle opere dello scrittore, pubblicato nella prestigiosa collana dei Classici Bompiani.

Dice la Corti:

“Se c’è uno scrittore in cui è verificabile un cammino verso la propria identità come processo di sviluppo di una visione amara e delusa del mondo, questi è proprio Flaiano”.

Targa dedicata a Flaiano
in Via Montecristo,
nel Quartiere Monte Sacro a Roma

E lo scrittore, sempre straordinario nell’affidare al gioco di parole, all’apparente scherzo, dei contenuti più che seri, disse nel corso di un’ultima intervista al Mondo, dell’aprile del 1972:

“Mi restano dei brontolii di malcontento. Non più sentimenti ma risentimenti, e qualche presentimento. Sento che la vera possibilità che ci resta è di continuare nei nostri errori, continuare a credere che l’arte (uso questa parola che fa ridere tanto per farmi capire) non debba essere solo gioco e apparenza ma, come diceva Thomas Mann del resto, che debba diventare conoscenza”. 

Da “Diario notturno”:

R. non ha letto nulla ma ha visto il film.

P. mi fa visitare il suo nuovo appartamento. Usciamo sulla terrazza. È molto soddisfatto del panorama. Puntando il dito verso l’orizzonte, comincia: “Che vista magnifica, vero? Ecco, laggiù il Soratte cantato da Orazio; e poi, Tivoli, i monti Albani, Rocca di Papa. Dominiamo tutta Roma”. Gli domando che c’è dall’altra parte. Risponde: “Dall’altra parte? Oh, niente, c’è il panorama di servizio”.

Dio ci ama (ne abbiamo continue prove); vuole però essere contraccambiato. Io, se mi decidessi ad amarlo, lo amerei senza chiedergli nulla. Il mio difetto è la generosità, il disinteresse.

Stanco dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, lo scienziato si dedicò all’infinitamente medio.

Non mi interessa più. Insiste a scrivere libri che io, volendo, potrei anche scrivere ma non leggere.

Si annoia? Capisco, ma perché non fa qualcosa? Ma, tutto quello che vuole! Per esempio, perché non scrive? Ma certo cara, lei è ricca e ha ingegno da comprare.  

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *