Questa è la storia del primo fotoreporter nero che sfidò il sistema dell’apartheid in Sudafrica.
Ernest Levi Tsoloane Cole (Eersterust/Pretoria 21 marzo 1940 – New York 19 febbraio 1990) era un sudafricano nero; originariamente il suo cognome era Kole ma in seguito lo cambiò in Cole.
Nel 1953, quando il Bantu Education Act fu messo in atto, dovette lasciare la scuola e fu costretto a seguire un corso per corrispondenza che gli fece conseguire comunque il diploma di scuola superiore.
Il “Bantu Education Act”, poi rinominato “Black Education Act”, era una legge sull’educazione dei neri fatta dal governo segregazionista del Sudafrica, un provvedimento che rafforzava la separazione razziale fra le strutture scolastiche, tanto che tutte le scuole e le università della popolazione di colore dovettero chiudere, non ricevendo più alcun supporto finanziario dal Governo. Le uniche che riuscirono a sopravvivere furono tre scuole missionarie.
La politica di educazione bantu fu fatta per destinare i giovani neri e i “non bianchi” (coloured) al mercato del lavoro meno specializzato.
Hendrik Frensch Verwoerd, primo ministro Sudafricano, soprannominato “architetto dell’apartheid”, interrogato sulla legge, dichiarò:
“Non c’è posto per i bantu (neri e coloured sudafricani) nella comunità europea ad un livello superiore di lavoro… che senso avrebbe l’insegnamento della matematica ai bambini bantu visto che non potranno utilizzarla nella pratica?”
Ernest cominciò a fotografare da giovanissimo, a otto anni, con attrezzature di scarsa qualità, poi negli anni cinquanta ricevette in regalo una macchina fotografica da un prete cattolico e da quel momento cominciò ad ampliare il suo Portfolio.
Nel 1958 fece domanda per un posto di lavoro presso la rivista sudafricana Drum, rivolta principalmente a lettori neri, che proponeva notizie di mercato, intrattenimento e articoli di approfondimento.
Jürgen Schadeberg, l’editor di immagini, visionati i suoi scatti, lo assunse come suo assistente.
Cole, per affinarsi nel mondo dell’immagine, iniziò allora un corso per corrispondenza presso l’Istituto di Fotografia di New York.
La collaborazione con Drum e altre riviste lo rese il primo fotografo freelance nero sudafricano.
Nello stesso periodo Cole iniziò a frequentare altri giovani talenti neri: giornalisti, fotografi, musicisti jazz e leader politici del nascente movimento anti-apartheid e le sue opinioni politiche si radicalizzarono.
Elaborò quindi un progetto che si proponeva di mostrare ciò che fuori e dentro il Sudafrica non veniva mai mostrato: le vessazioni alle quali erano costretti i “no europeans” e gli effetti sociali quotidiani dell’apartheid.
Per realizzare questo progetto però avrebbe dovuto essere in grado di circolare più liberamente.
Sorvegliato dalla polizia speciale per la sua attività, sentendosi braccato, non riusciva nemmeno più a dormire nella sua stessa casa.
A metà degli anni ’60 già era stato arrestato decine di volte, una di queste fu in occasione di un’aggressione con borseggio da parte di neri sudafricani nei confronti di un uomo bianco. La polizia sapeva che Cole aveva le foto dei rapinatori e conosceva i loro nomi, ma egli si rifiutò di dare loro le stampe.
Cole aveva avuto fastidi anche per aver fotografato un poliziotto bianco, fuori servizio, che “socializzava” con donne nere, cosa vietatissima dal regime dell’apartheid.
Stanco delle continue persecuzioni e per avere la libertà di movimento che il suo progetto richiedeva, con uno stratagemma riuscì ad ingannare le autorità facendosi classificare come coloured, invece che come black, dal Population Registration Act, il registro per il quale ogni cittadino doveva essere classificato in base alla sua etnia. I colorati infatti avevano qualche vantaggio in più rispetto ai neri.
Ernest, che parlava fluentemente l’Afrikaans, la lingua dei colonizzatori, cambiò il suo cognome in “Cole” sicuramente più anglicizzato e si fece lisciare i capelli per superare la prova della matita in virtù della quale questa veniva inserita nei capelli: se cadeva si era classificati come coloured perchè la capigliatura era meno “afro”.
Il suo nuovo stato razziale comportava il fatto che poteva entrare ed uscire più facilmente dal Paese.
Cole sfruttò immediatamente le nuove opportunità e sostenendo di volersi recare in pellegrinaggio a Lourdes, essendo lui cattolico, ottenne il rilascio del passaporto, ma la sua reale destinazione era New York, dove finalmente si recò nel 1966.
Partito solamente con la sua macchina fotografica ed i tantissimi negativi realizzati per il suo progetto, mostrò il suo lavoro alla celebre Agenzia foto giornalistica “Magnum”.
La visione del suo materiale fu scioccante al punto che i vertici dell’agenzia decisero di fare un accordo di pubblicazione delle sue immagini con la storica casa editrice statunitense Random House che, come il suo nome suggerisce, aveva come linea editoriale il tradurre in inglese e lo stampare libri scelti in maniera “random”, appunto, a caso, senza alcun pregiudizio di partenza.
Il risultato fu la pubblicazione nel 1967 di uno splendido volume: “House of Bondage”, che raccoglieva 185 fotografie in bianco e nero.
Appena uscito, il libro naturalmente fu subito censurato e bandito in Sudafrica.
All’interno Cole vi scrisse:
“Trecento anni di supremazia bianca in Sudafrica ci hanno ridotto in schiavitù, ci hanno privati della nostra dignità, derubati della nostra autostima e circondati dall’odio”.
La pubblicazione ebbe un effetto devastante e ripercussioni importanti all’esterno del paese.
Per la prima volta venne mostrata al mondo intero, senza filtri o censure, la dimensione brutale dell’apartheid e sottolineato lo stato in cui erano costretti a vivere i dissidenti del regime, gli intellettuali e le persone scomode in senso più generale.
Le sue fotografie, spoglie e potenti, e per lo più clandestine, mostravano il funzionamento e gli effetti dell’apartheid e il volto di un popolo al quale era stata sottratta la propria terra, la propria cultura, le proprie ricchezze e che era stato ridotto in schiavitù.
Una delle sue fotografie più famose, quella che troneggia ora su un muro di una sala del “Museo dell’Apartheid” a Johannesburg, ritrae dei minatori del Gauteng , la provincia più ricca di tutta l’Africa, nome che in lingua sesotho significa “luogo d’oro”. Prima di lasciare le miniere essi dovevano essere esaminati da un medico per garantire che non avessero nascosto pezzi del prezioso minerale nelle parti più intime.
Per ottenere le sue immagini Cole aveva ideato delle tecniche particolari, che lo esponevano tuttavia al rischio di essere scoperto ed arrestato. Ad esempio, per effettuare le fotografie nelle miniere e nelle carceri, si portava dietro una borsa marrone, camuffata da contenitore per il pranzo, con dentro la sua macchina fotografica.
Le immagini furono scattate attraverso un piccolo foro che coincideva perfettamente col centro dell’obiettivo.
Solo dal 2001 in poi, ossia da quando queste fotografie furono appese nel museo dopo la fine dell’apartheid, gli abitanti del Sudafrica hanno potuto vederle per la prima volta.
© Ernest Cole | Magnum Photos
Dopo questo esordio Cole ricevette un finanziamento dalla Fondazione Ford per la pubblicazione di un altro libro che avrebbe dovuto essere uno studio sulla famiglia nera nel sud rurale americano e su quella dei ghetti urbani.
Questo progetto però non venne mai portato a termine, sebbene Ernest avesse già realizzato un certo numero di fotografie.
Tra il 1968 e il 1971 Cole trascorse molto tempo in regolari visite in Svezia dove, in collaborazione con il collettivo “Tiofoto” esibì in pubblico i suoi lavori.
Dal 1972 in poi la sua vita si fece più dissennata, smise di lavorare e perse moltissimi dei suoi negativi poichè viveva da homeless, senza più avere una fissa dimora.
Nonostante la fama, Cole morì in esilio, depresso e solitario, ad Harlem, New York, nel 1990, all’età di 67 anni.
Mentre lottava contro il cancro al pancreas negli ultimi giorni della sua vita, disteso sul suo letto di morte a New York, Cole potè assistere davanti alla televisione alla liberazione di Nelson Mandela dal carcere, l’undici febbraio 1990.
Nel 2017, in un caveau di una banca di Stoccolma, sono stati ritrovati oltre 60.000 suoi negativi che si credeva fossero andati perduti definitivamente e che ora sono oggetto di una disputa giudiziaria fra i suoi familiari e altri soggetti che ne rivendicano il possesso.
Speriamo di riuscire a vedere questi suoi scatti inediti nei prossimi anni.
Ernest Cole è ora in gran parte dimenticato, ma quel suo libro originale del 1967, “House of Bondage”, ormai introvabile, se non usato e a prezzi spesso molto alti, è stato da poco ristampato.
Nato lo scorso millennio in quel luogo che, anche da Jovanotti, è definito l’ombelico del Mondo, Klaus Troföbien alias Carlo De Santis è ritenuto un vero cultore ed esperto di filosofia e costume degli anni 70/80.
È un ardente tifoso della squadra di calcio della Roma, ma non di questa odierna semiamericana e magari presto cinese, ma di quella di Bruno Conti, Ancellotti, Di Bartolomei, di quella Roma insomma che allo stadio ti teneva 90 minuti in piedi e 15 minuti seduto; è inoltre un collezionista seriale di oggetti vintage che vanno dalle cartoline alle pipe, dalle lamette da barba ai dischi in vinile.
I suoi interessi sono la musica pop rock blues psichedelica anni ’70/’80, la fotografia, la cultura hippie, i viaggi, la moto, il micromondo circostante.
Grazie ad una sua fantasmagorica visione è nata Latina Città Aperta, della quale è il padre, il meccanico e il trovarobe.
Politicamente è stato sempre schierato contro.
Spiritualmente, umilmente, si colloca come seguace di Shakty Yoni, space wisper di Radio Gnome Invisible.
Odia rimanere chiuso nell’ascensore.
Da qui la spiegazione del suo eteronimo.
Un pensiero criticabile ma libero, una mente aperta a 359 gradi.
Ma su quel grado è intransigente.