Le parole di San Paolo ispireranno non soltanto uno dei numerosi titoli della narrativa dickiana ma tutta la visione artistica di questo autore: lo scrittore di fantascienza è colui che già in questa vita vede “faccia a faccia”!
Philip Kindred Dick nacque a Chicago il 16 dicembre 1928, insieme alla sorella gemella Jane Charlotte, che morì dopo poche settimane di vita. Quella di Dick era una famiglia disfunzionale: il futuro scrittore sviluppò un rapporto anaffettivo con la madre, tra senso di colpa e incompletezza. Cresciuto in un contesto di vita alterato, nei rapporti così come dalle sostanze assunte, riscatto e successo arrivarono ormai postumi per Dick. Philip decise di iscriversi all’Università di Berkeley, dove si era trasferito con la madre, ma non terminò mai gli studi perché all’epoca bisognava obbligatoriamente sostenere un corso di addestramento come ufficiale di riserva, cosa che Dick rifiutò di fare per le sue idee pacifiste.
La fantascienza coincideva allora con una precisa visione del mondo, che in parte era quella esteriore, reale, cioè l’America degli anni in cui Dick scrisse, e in parte quella interiore, illusoria, fatta di trame da dipanare, terre desolate e simulacri. Ma a volte le due visioni coincidono perfettamente, il confine tra vita e letteratura è inesistente, dal momento che, per Dick, la narrazione non è invenzione, non è illusione. È verità della quale egli è, al tempo stesso, custode e divulgatore.
A un certo punto della sua esistenza, trascorsa alla ricerca di un’anima gemella che, rassomigliasse all’immagine mentale della sorella defunta (la dark-haired girl dei suoi libri), aveva iniziato a chiedersi se, dei due, non fosse lui il morto e lei la parte viva; se non fosse lei che, nel mondo dei vivi, pensava a lui. O se lui altro non fosse che l’attore dei pensieri di una morta, se la sua vita non fosse solo la proiezione della mente morta di Jane che, dalla sua bolla di oscurità, lo sognava vivere. Questo costituisce, in fondo, il gigantesco interrogativo che ingloba tutta la letteratura di Dick: chi è che sogna e chi è che viene sognato?
Con Philip Dick la “fantascienza” è da intendersi come “sistema narrativo complesso inserito nello spazio letterario più ampio”, itinerario di interpretazione del reale “indipendente rispetto ai percorsi obbligati della narrativa di consumo”, arricchito di riferimenti testuali che legano l’opera di Dick a modelli narrativi che vanno da Asimov a Bradbury, da Shakespeare a Poe, da Shelley a Carroll fino a Joyce e Eliot. Ci sono altri mondi? Nella visione dickiana i mondi ulteriori non sono mai migliori, sono paesaggi infernali, versioni alternative di una terrificante ‘wasteland’ che era stato il paradigma “che T.S. Eliot aveva messo al centro della sua prima poesia modernista” e che nell’immaginario di Dick diventa il paesaggio desolato di Marte (Total recall), la superficie arida della Luna o il continente americano conquistato dalle potenze dell’Asse, ne ‘La svastica sul sole’.
Infatti, la letteratura di Philip K. Dick è impiantata su una visione metastorica che lo induce a scrivere opere che diventano strumento di ricerca di verità impossibili. La Storia irrompe nei romanzi di Dick come capovolgimento, come incubo ad occhi aperti e racconto tra la realtà e un “sistema codificato di menzogne”. Nel reale di Philip, vista l’impossibilità di distinguere sogno, ossessione, timori, realtà, allucinazioni, l’atto della scrittura “trasforma in una favola terribile i processi e le mitologie attraverso cui si è costruita l’identità umana contemporanea” creando uno spazio in cui lo sguardo dello scrittore si allarga accogliendo non solo la propria vicenda autobiografica, ma pure eventi storici di immense proporzioni. Lo scrittore di fantascienza è il solo a conoscere la verità che gli altri ignorano ed è il solo disposto a parlarne, malgrado tutto.
Fredric Jameson lo definì “lo Shakespeare della fantascienza” non solo per l’abbondanza di riferimenti shakespeariani (da Amleto, da Re Lear a La Tempesta), ma soprattutto per la sua ricerca di una narrativa in cui tragico e comico coesistano. Dick è al tempo stesso Shakespeare e personaggio shakespeariano,
Nei romanzi di Dick il confine tra realtà e illusione, verità e allucinazione è molto labile e il mondo alternativo non è mai migliore di quello presente. Intrappolati in una rete di inquietudini e allucinazioni, i personaggi confondono realtà e illusione, non solo la propria realtà con il proprio incubo ma anche con quelli degli altri. E “cosa può esistere di peggio che vivere nell’incubo di un altro? Morire nell’incubo altrui, nell’inespugnabile prigione della mente di un altro”.
Dick bambino, non era capace di incontrare lo sguardo del padre senza essere pervaso dall’autentico orrore di vedere il suo volto mutarsi nel tubo della maschera a gas. La “maschera della figura paterna” diverrà Palmer Eldritch, un essere orrendo che indusse il suo creatore a identificarlo in un nome che indichi la pratica impossibilità di descrivere tale orrore. L’aggettivo “eldritch” ha il senso di indicibile, inquietante, qualcosa di così spaventoso da non poter essere narrato. Questo personaggio è un Cronos che divora i suoi figli, è il lupo di Cappuccetto Rosso calato nell’universo moderno. È un “pescecane dell’industria”, la cui ‘hybris’ lo ha reso un essere mostruoso, ibrido e disumano che tutto divora. Parassita delle coscienze, Eldritch invade come una divinità maligna lo scenario narrativo, implacabile fino al finale in cui i protagonisti, sacrificatisi nel tentativo di uccidere questo essere diabolico, non sanno più se pensano i loro pensieri o quelli di Palmer Eldritch e, in rotta verso la sua distruzione, non sanno se, in realtà, in quello stesso istante Eldritch stia alterando la loro percezione del reale, mentre dai loro corpi spuntano intanto braccia meccaniche. Allora Palmer Eldritch ha vinto perché, forse, anche “lo scrittore di fantascienza è solo una marionetta pilotata dalla sua mente”. (Le Tre Stimmate di Palmer Eldritch)
La sua narrativa tenta di rispondere al quesito che indaga il senso di essere umani. L’androide è un sogno (o incubo?) della fantascienza di cui Dick parlava in questi termini: “Per androide non intendo il risultato di un onesto tentativo di ricreare in laboratorio un essere umano… Mi riferisco invece a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile”. Un inganno, dunque. Se ci si chiede, allora, cosa sia per Dick l’essere umano si può rispondere dicendo cosa sia il “non essere umani”. Un’esperienza terribile.
È l’urlo agghiacciante di coloro che in “Do Androids dream of Electric Sheeps?” scoprono di essere androidi. È un orrore irrimediabile e inconsolabile. Perché il tratto caratteristico degli uomini è l’empatia e gli androidi non potranno mai provarla. Resterà sempre il dubbio che i loro amori, le angosce, il dolore e la pietà non siano autentici ma solo pallide imitazioni di quelle umane!
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