La proclamazione dei premi Nobel per la Letteratura, spesso ci provoca delle crisi di autostima.
Quando il nome del vincitore viene reso noto sentiamo di colpo, acuto come una puntura, il peso della nostra ignoranza: alcuni degli scrittori o dei poeti ritenuti sommi dall’autorevole Accademia di Svezia, ci risultano infatti del tutto sconosciuti.
In alcuni casi potrebbe consolarci venire a sapere che l’autore ignoto ci è tale anche perchè non è stato mai tradotto da noi.
Non altrettanto confortante è scoprire, in altri casi, che sì, era stato tradotto e pubblicato anche in Italia, ma ad opera di qualche casa editrice minuscola, quasi introvabile per scarsezza di distribuzione.
In questa seconda circostanza, però, non si attenuano il senso di colpa e quello di frustrazione tipici del lettore forte, che scopre così di non essere onnipotente, rendendosi conto che nel campo della cultura o della letteratura qualcosa si muove addirittura senza che lui venga a saperlo.
Capita anche di incontrare l’opera di uno scrittore quasi contemporaneo, a distanza di molti anni dal tempo della sua massima gloria, e scoprire che si tratta di un autore da premio Nobel, uno sventurato al quale nemmeno il prestigioso riconoscimento è riuscito a garantire una sufficiente immortalità.
Un bel po’ di tempo fa mi fu regalato un libretto della Bur, la collana economica della Rizzoli. Erano i “Racconti d’amore” opera di uno scrittore russo che visse tra l’ultimo trentennio dell’Ottocento e i primi anni Cinquanta del Novecento: Ivan Alekseevic Bunin.
Leggendo le note biografiche di quell’autore, per me misterioso, seppi anche che nel 1933 aveva ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura.
E allora: “ Forza, sotto a leggere, – mi dissi – se è stato premiato un motivo ci sarà pur stato”.
La ragione di quel successo mi fu più chiara dopo la lettura del libro, lettura che per merito della sua materia letteraria pregiata, fu veloce e ricca di incanti.
Quelle prose, alcune delle quali molto brevi, mi colpirono infatti per la qualità della scrittura, per la resa poetica degli sfondi sui quali si incontravano i protagonisti delle diverse storie, e per la capacità di Bunin di bloccare gli istanti, di fermare il tempo dei piccoli eventi sentimentali descritti, universalizzando ed eternando così, attraverso di essi, l’amore, unico vero e multiforme protagonista dei racconti.
Anche se quel libro era solo un assaggio delle doti letterarie dello scrittore, esse mi parvero tali da giustificare già ampiamente l’assegnazione del prestigioso premio al suo autore, uno scrittore che per ragioni difficili da comprendere, era andato però ad ingrossare le fila dei tanti Nobel dimenticati.
Proviamo allora a toglierlo dalla posizione fin troppo discreta in cui si è collocato finora.
Ivan Alekseevic Bunin nacque nel 1870 a Voronez, nella Russia meridionale.
La sua era una famiglia di antica nobiltà il cui patrimonio si era considerevolmente assottigliato.
I Bunin all’epoca, quindi, vivevano abbastanza modestamente a Butirka, nel governatorato di Orel, in una loro proprietà residua.
I suoi genitori potevano vantare tra i loro ascendenti, diversi militari di qualche gloria, ma anche alcune figure di valore in campo letterario, come la poetessa Anna Bunina o il padre naturale del poeta romantico Vassilij Zukovskij.
La sua nascita, per alcuni versi privilegiata, determinò nel giovane Bunin una naturale tendenza ad assorbire le tradizioni sociali e letterarie russe, tendenza dalla quale nel corso della sua esistenza si discostò poco e solo in seguito ad eventi eccezionali.
La sua fu un’infanzia malinconica, i suoi fratelli ed i figli dei contadini costituivano l’unica possibile compagnia, ma per quel ragazzo, più forte ancora del richiamo di quelle amicizie infantili, fu quello per il vagabondaggio attraverso boschi e campi, la natura dei quali più avanti riaffiorerà poeticamente in moltissime delle sue opere.
Ivan fino ai suoi undici anni fu educato nella familiare tenuta di campagna, in seguito abbandonò il ginnasio di Elec, forse per le difficoltà finanziarie dei familiari, ma più probabilmente per il ritorno nella proprietà materna di suo fratello Juij, che rientrato dunque in famiglia, si occupò di dirigere i gli studi successivi di Ivan, facendogli conoscere le opere di Puskin, Gogol e Lermontov.
Julij era stato condannato a tre anni di soggiorno obbligato per la sua appartenenza ad un movimento politicamente radicale “Narodnaja volja” ed Ivan, pur guardando con simpatia ai ceti più umili, quelli al centro dell’opera di Tolstoj, da lui sempre amato, restò comunque un aristocratico, lontano dalle posizioni politiche fraterne.
A diciassette anni aveva iniziato a comporre versi, pubblicando il suo primo poema su una rivista letteraria di San Pietroburgo; due anni dopo, terminata una breve esperienza lavorativa col fratello, abbandonò per sempre la sua “isola di felicità” e cominciò un periodo di inquieto vagabondare.
Nel 1889 Bunin iniziò a fare il redattore ed il critico teatrale per il quotidiano “Orlovskij vestnik” (il messaggero di Orel), intrecciando una problematica relazione con Varvara Pascenko, una collaboratrice redazionale, terminata con il matrimonio della donna con un amico comune.
Sempre nel corso di quell’anno Ivan conobbe Gor’kij, col quale strinse amicizia ed al quale dedicherà in seguito “Listopad” (La caduta delle foglie), sua prima importante raccolta di versi, così apprezzata da Aleksandr Blok, il maestro del simbolismo russo, da definirla uno dei migliori esempi di poesia contemporanea.
Nel 1902 cominciò a collaborare con la casa editrice Znanie ( la conoscenza) diretta da Gor’kij, presso la quale vennero pubblicate molte sue opere.
Non dissimile dalla sua poesia, la sua narrativa, alla quale cominciava a dedicarsi, riusciva ad essere sia descrittiva che lirica, portata più alla indagine psicologica che all’analisi sociale.
Pur schierato dalla parte degli intellettuali democratici in epoca zarista, contrariamente all’ideologia del gruppo Znanie, Ivan tendeva tuttavia a considerarsi un prosecutore del realismo classico della tradizione russa, erede di scrittori come Tolstoj, Turgenev, Goncarov o lo stesso Cechov.
A partire dai primi anni del Novecento, Bunin cominciò una lunga serie di viaggi all’estero, toccando Costantinopoli, l’Italia, la Palestina, l’Egitto, la Grecia, l’Algeria e la Tunisia.
Tornato in patria nel 1906, a Mosca, incontrò Vera Muromceva con la quale iniziò un rapporto molto intenso e che più tardi, a Parigi nel 1922, divenne la sua seconda moglie. Un suo primo matrimonio era infatti durato solo due anni.
La donna lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita, standogli vicina con infinita ed amorevole premura.
Nel 1910 uscì il suo primo romanzo “Derevnja” (Il villaggio) e due anni dopo “Valsecca”.
Le due opere furono giudicate dei capolavori dalla critica russa, opere nelle quali si godeva una realistica ed incisiva rappresentazione del mondo rurale russo e dei suoi contadini, la cui rassegnazione poteva essere annullata da improvvise spinte di rivolta.
Era un mondo capace allo stesso modo di crudeltà e di calore umano.
Negli anni seguenti lo scrittore sarà molto attivo, lavorando sia a Capri, isola nella quale ambienterà il nuovo romanzo al quale stava dedicandosi, che a Glotovo, una proprietà di suo fratello Evgenij.
In un momento in cui il campo letterario era attraversato da correnti moderniste, simboliste e futuriste, Bunin non rinunciò mai ai suoi ideali di realismo, di semplicità e di immediatezza.
Nel 1909 era già stato eletto a membro dell’Accademia Imperiale Russa e, altra prova della fama ormai raggiunta, nel 1915 vennero pubblicate in sei volumi le sue opere complete.
Il romanzo al quale si è già accennato, uscì nel 1915 col titolo de “Il signore di San Francisco”, che narrava la morte, avvenuta appunto a Capri, di un ricco americano.
L’opera, un altro grandissimo lavoro, è attraversata tutta da un totale e apocalittico pessimismo, dal senso di vanità delle cose e dal disincanto sull’amore e sulla possibilità degli uomini di essere felici.
Allo scoppio della grande guerra, lontano dalla imperante ideologia patriottica, Bunin si schierò su posizioni pacifiste, non riconoscendo a nessuno il diritto di togliere la vita ad un altro uomo.
In questo periodo collaborò con la rivista “Letopi’s” (Annali) di Maksim Gor’kij, ma la situazione bellica ed i fermenti di rivolta nelle comunità rurali, tendevano a distogliere lo scrittore da una regolare attività letteraria e se in un primo momento egli vide nella Rivoluzione del febbraio 1917 una salvezza dalla prepotenza e dall’inconsistenza del regime zarista e dell’aristocrazia russa, in Ottobre visse l’avvento al potere dei bolscevichi come un fatto di intollerabile violenza.
Conseguentemente lasciò Mosca per rifugiarsi ad Odessa nel pieno dello svolgersi della guerra civile: si schierò con l’Armata Bianca e scrisse sui suoi giornali.
Nel 1920, seguendo le sorti di quell’esercito vinto, si imbarcò per Costantinopoli, per raggiungere poi la Francia e Parigi, dalla quale non partirà più.
A cinquant’anni di età, lo scrittore non era più giovane ed aveva al suo attivo un’opera già cospicua, oltre che una vasta notorietà, soprattutto in patria.
Per gli oltre trent’anni di durata del suo esilio francese, continuò a svolgere attività letteraria, mai perdendo l’ispirazione originaria e rivolgendosi quindi sempre al passato, ad una Russia scomparsa, ma viva nella sua memoria e idealizzata dalla sua nostalgia.
Candidato al Nobel fin dal 1922, Bunin lo riceverà solo nel 1933.
Nel 1925 uscirà il suo romanzo “L’amore di Mitja” e nel 1930 “La vita di Arsen’ev”, una sorta di opera autobiografica.
Nel 1929 videro la luce due sue raccolte di versi, mentre numerosi suoi nuovi racconti furono pubblicati nel 1943 a New York, col titolo di “Viali oscuri”, espressione che voleva alludere alla patria perduta.
Dopo i loro primi anni in Francia, Bunin e sua moglie scelsero di passare gli inverni a Parigi, trasferendosi in estate in una casa a Grasse, nelle Alpi Marittime.
Oppositore del nazismo, in quella stessa casa, ed a suo rischio, diede ospitalità ad un ebreo.
Nei tremendi anni del Secondo Conflitto Mondiale, benchè vittime di una estrema miseria, i Bunin, rifiutarono sempre di dare ascolto al consiglio di molti amici, quello cioè di abbandonare la Francia e di raggiungere gli Stati Uniti.
Nel 1945, una polmonite compromise seriamente lo stato di salute dello scrittore. Negli anni successivi, nulla poterono gli innumerevoli ricoveri in case di cura: la situazione fisica di Bunin rimaneva precaria.
Ai primi di gennaio del 1953, un infarto che lo colpì nel suo appartamento di Parigi, mise fine alla vita dello scrittore.
La sua opera, sia quella poetica che quella narrativa, si sostanziò in visioni, sogni, paesaggi e momenti che costantemente hanno cantato la sua patria, ancor più marcatamente nel periodo dell’esilio, ammantato della tipica, malinconica, nostalgia russa.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.