Il disco di Festo, un mistero millenario

Il disco di Festo, oggi conservato nel Museo Archeologico di Heraklion a Creta, è un reperto unico oltre che essere un vero e proprio enigma dell’archeologia e prova di una lingua che, in assenza di ulteriori scoperte, è destinata a restare sconosciuta.
La lunga storia delle civiltà umane ha lasciato nel corso della sua evoluzione quantità di misteri capaci di affascinare a lungo generazioni di studiosi.
Uno dei più interessanti riguarda il disco di Festo, strettamente connesso con la civiltà minoica, già di per sé misteriosa in quanto priva di una scrittura per noi interpretabile; i geroglifici cretesi e la lineare A sono a tutt’oggi indecifrati mentre la lineare B è stata resa comprensibile da Michael Ventris dal 1952 e dopo la sua morte da John Chadwick ampliando la nostra conoscenza della relazione tra civiltà minoica e civiltà micenea.

La scoperta del disco risale al luglio del 1908 ad opera dall’equipe italiana di Luigi Pernier e Federico Halbherr nella campagna di scavo effettuata nel palazzo di Festo, distrutto a seguito della catastrofica eruzione del vulcano di Santorini che provocò il tramonto della civiltà minoica. In un ripostiglio di un sottoscala del palazzo, confuso con altri reperti, venne alla luce uno strano manufatto circolare di argilla di 15/16 cm di diametro e spesso circa 20 mm.

A sin: Luigi Pernier
A dx: Federico Halbherr e i suoi aiutanti

Su entrambe le superfici erano chiaramente distinguibili una serie di impronte realizzate con 45 punzoni, presumibilmente, d’oro di simboli riuniti in quelle che sono state interpretate come insiemi di sillabe, disposti in modo circolare con progressione antioraria da destra a sinistra, dalla periferia verso il centro e separati da interposizioni lineari.

La datazione del reperto è stata concordemente collocata intorno al 1.700 a.C. ma è ancora in corso un ampio dibattito sulla sua origine geografica e temporale, anche se c’è accordo su una imprescindibile relazione con il mondo egeo.

Alcuni dei simboli rappresentati sono da mettere in relazione con i popoli del mare, popolazioni artefici di profondi cambiamenti nell’area mediterranea della tarda età del bronzo. Molteplici sono state le attribuzioni di significato e funzione del disco, dagli ambiti religiosi, economici, narrativi, epici, ludici, fino alla più recente interpretazione da parte di G. Owens che attribuisce alle figure femminili della luce, della nascita e del tramonto una rilevanza certa, ma molti degli altri segni presenti sul disco, rimangono insoluti in un mistero che rimarrà tale ancora a lungo.

Nel giugno del 1884 Federico Halbherr sbarcò nell’isola di Creta. Domenico Comparetti, epigrafista fiorentino, aveva mandato il giovane alla ricerca di epigrafi greche. Le ricerche di Halbherr ebbero subito esito eccezionale. Recandosi nella pianura della Messarà il discepolo di Comparetti ebbe la fortuna di scoprire la più importante di tutte le iscrizioni greche mai venute alla luce: la grande iscrizione di Gortina sistemata sulle pareti dell’odeion della città. Questa straordinaria scoperta riempì di entusiasmo i membri dell’intellighenzia cretese, che in quelli anni stavano lottando per affrancare la loro terra dal giogo turco.

Rapidamente la personalità di Halbherr s’impose sullo scenario cretese e la pianura della Messarà divenne il suo terreno prediletto.

Vista degli scavi del palazzo Phaistos, missione archeologica italiana guidata da Luigi Pernier e Federico Halbherr, Creta, Grecia

Per affermare il primato dell’Italia nella zona occorreva travalicare i confini della Grecia ellenistico-romana e occuparsi anche del mondo minoico-miceneo che, dopo le scoperte di Heinrich Schliemann a Troia e a Micene negli anni ‘70 dell’Ottocento, appariva come una delle zone archeologicamente più ricche della protostoria egea.

Nella pianura della Messarà vi erano tracce vistose di insediamenti che risalivano ai periodi dell’età del bronzo, tra cui quello di Festo. Gettare le basi per condurre una ricerca archeologica a Festo appariva come un’operazione politica e scientifica alla quale Halbherr non poteva rimanere insensibile. Il sito di Festo tra l’altro era ricordato nell’Iliade e nell’Odissea nonché presso numerosi autori antichi come Strabone.

Il palazzo Minoico a Festo

Fondata nel 1899 una missione italiana permanente a Creta, il progetto di condurre veri e propri scavi a Festo fu avviato non appena si ottenne dall’alto commissariato dell’isola che l’esplorazione della Messarà fosse affidata agli italiani. Gli scavi iniziarono nel 1900, poco dopo quelli avviati da Arthur Evans a Cnosso.

Il 3 settembre 1900, in una lettera inviata a Comparetti, Halbherr scriveva:

Il più e il meglio si è trovato a Festo, dove abbiamo scoperto il palazzo miceneo; un edificio di enormi proporzioni, che domanderà almeno due o tre campagne per essere completamente scavato. Il dottor Pernier che ho lasciato colà a continuare i lavori, vi resterà fino alla metà di settembre. Essendo il luogo malarico, si dovrà allora sospendere lo scavo e riprenderlo nell’inverno. Il palazzo di Festo di cui un terzo e più è adesso messo in luce, ha dato vasi micenei bellissimi, idoli in terracotta del tipo di quelli di Troia, figurine di animali, due splendide tavole di libagione con decorazioni di spirali a rilievo come nella stele di Micene, frammenti d’intonaco dipinti, bronzi, ecc. Mancano però sino a oggi le tavolette iscritte, ma non manca la speranza di trovarne più in là”.

Federico Halbherr

Nel 1908 dunque Luigi Pernier, durante una campagna di scavo sull’isola di Creta, rinvenne un disco in terracotta assolutamente particolare.

Emerso dal terreno durante l’attività di scavo che stava riportando alla luce il palazzo di Festo, l’oggetto fu ritrovato immerso in uno strato di cenere, carboni e cocci, chiare prove della violenta distruzione della struttura a causa di un incendio.

Insieme al disco c’era anche una tavoletta d’argilla con incisa la scrittura nota come Lineare A, caratteristica della più remota fase della civiltà minoica.

Nel disco entrambe le sue facce recano incisa una linea spiraliforme entro cui sono stati impressi con punzoni dei segni intervallati in maniera irregolare da delle linee di separazione. I simboli sono di varia natura: armi, figure umane, animali, parti del corpo ecc. Ѐ il caso delle figure umane con elmo piumato, che ci portano alla rappresentazione tradizionale dei Filistei nel mondo antico.

I 45 caratteri presenti sul disco di Festo

Il reperto è stato interpretato come unica testimonianza a noi nota di una scrittura sillabica del tutto diversa dalle scritture Lineare A e Lineare B che hanno caratterizzato la storia della civiltà minoica. Questa è attualmente ancora indecifrabile a causa dello scarsissimo numero di simboli che ci sono pervenuti (45 in tutto). Le interpretazioni avanzate dagli esperti sono state numerose, ma nessuna risolutiva.

Il disco poggiava sul suolo; era in posizione obliqua e mostrava la faccia che reca nel centro una rosetta. Luigi Pernier, ne sottolineò la presenza in mezzo al vasellame minoico e di altro materiale del periodo ellenistico. La presenza di ceramiche di vari periodi significa in modo inoppugnabile che la zona dalla quale proviene il disco era stata manomessa nel corso della storia e che sulla base dei dati stratigrafici disponibili qualsiasi certezza sulla datazione precisa dell’oggetto era impossibile.

Entrambe le facce del disco sono coperte di linee graffite e di caratteri impressi a stampa quando l’argilla era ancora molto fresca e molle. Le linee sono tracciate a mano libera con una punta dura e sottile, una specie di stilo abbastanza simile a quelli usati per realizzare le altre scritture scoperte a Creta del secondo millennio prima dell’era cristiana: la scrittura geroglifica, la scrittura lineare A, ambedue espressioni della civiltà minoica, e la scrittura lineare B, usata dai Greci micenei all’indomani del tracollo dei centri minoici.

Su ciascuno dei due lati del disco questa linea si avvolge a spirale ed è incisa dalla periferia verso il centro. Nella zona compresa tra i giri della spirale sono stati impressi i diversi segni che compongono l’iscrizione del disco. Questi segni sono raccolti in gruppi, separati l’uno dall’altro da un trattino che collega tra loro i giri della spirale. Il trattino posto al punto d’origine delle spirali – tanto della faccia a che della faccia b – consiste in una linea incisa verticalmente nella quale la punta dello stilo ha incavato cinque puntini.

Sulle due facce del documento si susseguono sessantuno gruppi di segni: trentuno per la faccia a, trenta per la faccia b; questi sessantuno gruppi di segni sono suddivisi in diciassette sequenze, divise da un trattino a sinistra dell’ultimo segno di ognuna.

I gruppi di segni sono stati realizzati con la stampa di quarantacinque caratteri diversi. Si tratta del primo caso nella storia di un documento stampato con l’utilizzo di caratteri mobili. Possiamo dire che l’autore del disco di Festo ha anticipato di vari millenni l’invenzione dell’olandese Laurens Coster, vissuto alla fine del Trecento, al quale si attribuisce la scoperta dei caratteri mobili riutilizzabili per la redazione e stampa di un testo.

Da quando fu scoperto, il disco di Festo è stato oggetto di migliaia di tentativi di decifrazione, nessuna delle quali convincente. Nella sua prefazione alla ristampa della famosa Lettre a Dacier del 1822, in cui Jean-François Champollion annunciava la decifrazione della scrittura geroglifica egiziana, Henri Sottas elencava le tre condizioni principali necessarie a ogni decifrazione. Prima di tutto occorre avere un’idea più o meno chiara del contenuto del testo; in secondo luogo è necessario avere un’idea precisa del sistema di scrittura utilizzato; infine occorre disporre di un elemento in grado di suggerire un’ipotesi di partenza (per il geroglifico egiziano Champollion ipotizzò la parentela con la lingua copta; per la decifrazione della scrittura micenea lineare B Michael Ventris ipotizzò quella con il cipriota classico).

Jean-François Champollion

A queste tre condizioni evidenziate da Sottas, si dovrebbe aggiungere una quarta, fondamentale: occorre disporre di un numero di segni e di gruppi di segni abbastanza elevato da consentire di sperimentare le ipotesi di decifrazione proposte.

Nel caso del disco di Festo dobbiamo riconoscere che non abbiamo alcuna idea del contenuto del testo. Il fatto di non trovare mai segni ideografici o numerici in lineare A o in lineare B indicherebbe che ci troviamo di fronte a un testo di carattere non economico. Più facile è invece determinare il tipo di scrittura con il quale abbiamo a che fare. Tre sistemi grafici si ritrovano nelle scritture attestate nel mondo.

Il primo consiste nel disegnare l’oggetto che si desidera nominare. Tale scrittura è chiamata ideografica e ogni segno viene definito ideogramma.

Teoricamente una simile scrittura dovrebbe essere semplice da interpretare poiché ogni ideogramma rappresenta in modo più o meno esplicito una realtà con la quale il lettore si confronta nella vita quotidiana. In realtà le cose sono molto più complesse perché ogni scrittura ideografica ha bisogno di un numero estremamente elevato di segni per esprimere le azioni o i concetti astratti. Gli altri due sistemi grafici, quello sillabico e quello alfabetico, sono entrambi costituiti da segni che traducono il suono della parola pronunciata. La differenza risiede nel fatto che l’elemento fonico rappresentato da ogni segno può essere una sillaba intera per il sistema sillabico o una sola lettera per il sistema alfabetico.

I segni diversi stampati sul disco di Festo sono in tutto quarantacinque. Possiamo quindi affermare che la scrittura utilizzata era sillabica.

I segni del disco sono totalmente diversi da quelli usati nelle altre scritture egee e più in generale nelle altre scritture conosciute. Non abbiamo quindi alcun elemento a disposizione per associare la scrittura e la lingua del disco con una scrittura decifrata. Il disco rimane un’epigrafe isolata. Aggiungiamo a questo isolamento il fatto che la cifra di 242 segni stampati nell’iscrizione è troppo bassa per consentire di avanzare ipotesi credibili di decifrazione, a maggior ragione quando non si sa nulla del contenuto del testo.

A meno che vengano alla luce in numero cospicuo iscrizioni simili, assieme al suo fascino il disco è condannato a serbare gelosamente il suo mistero!


BIBLIOGRAFIA:

  • Louis Godart, Il disco di Festo. L’enigma di una scrittura, Torino, Einaudi, 1994;
  • Yves Duhouxs Il disco di Festo, Leuven, 1977;
  • Torsten Timm, Der Diskos von Phaistos – Anmerkungen zur Deutung und Textstruktur, in Indogermanische Forschungen, 2004;
  • Axel Hausmann, Der Diskus von Phaistos. Ein Dokument aus Atlantis (Il disco di Festo. Un documento da Atlantide), BoD GmbH, 2002;
  • Emmett L. Bennett, Emmett L. Alfabeti egei, (in I sistemi di scrittura nel mondo, Peter T. Daniels e William Bright Editori. Oxford: University Press,1996.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
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Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
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Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
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