All’ombra di Giacomo. Breve ritratto di Paolina Leopardi

“Era piccola e gracile, aveva capelli bruni e corti, occhi di un azzurro incerto, viso olivastro e rotondetto: era brutta, ma di una gentilezza, di una bontà, che potean farla parere graziosa a chi la conoscesse intimamente”.
Così viene descritta Paolina Leopardi, sorella di Giacomo, in un libro pubblicato nel 1898, dedicato alle figure femminili nella vita del poeta.

In presenza di estranei, parlava pochissimo, dando loro un’impressione di scarsa cordialità, ma era in realtà molto timida e

“aveva vissuto troppo lontano dalla società per sapervi stare con disinvoltura: ma nelle circostanze in cui vide sé oggetto di delicate ed amorevoli attenzioni, la sua gratitudine fu profonda e durevole.
Non era prodiga della sua amicizia; quando però l’aveva concessa, era fida e sicura”.

Queste invece sono le parole di una discendente della sua stessa nobile famiglia, Teresa Teja Leopardi, che abbozzano un ritratto veloce di Paolina. 

Ma cosa sappiamo noi di una figura così misteriosa e schiva, nemmeno immaginata dai tantissimi che nel tempo si sono invaghiti invece della persona e dell’opera del suo straordinario fratello Giacomo?

Paolina Leopardi

Chi ha avuto la possibilità di leggere qualche esempio della scrittura di Paolina, sorpreso, vi ha ritrovato una grande vivacità, un nitore ed una chiarezza che gli sono certamente sembrati familiari, uno stile, insomma, che la apparenta al poeta quanto la sua condizione di sorella.
Ma chi di noi si prende di norma la briga di far conoscenza con le sorelle dei poeti, anche se queste sono state scrittrici e traduttrici dal francese e, come nel caso di Paolina, anche autrici di una biografia di Mozart

Noi abbiamo pensato di togliere il velo dalla storia interessante di una di loro, vissuta, anche dopo la sua scomparsa, all’ombra di suo fratello, e da essa tenuta nascosta.

Nata nell’ottobre del 1800, Paolina Leopardi fu la terzogenita della famiglia composta dal Conte Monaldo e da sua moglie Adelaide Antici, nascendo dopo Giacomo e Carlo.
Fu dunque l’unica figlia femmina di quella famiglia. 

Nata a Recanati, venne battezzata nella chiesa recanatese di Santa Maria Morello, definita, come capitava spesso all’epoca presso famiglie nobili, da un ingombrante rosario di nomi: Paolina Francesca Saveria Placida Bilancina Adelaide.

Recanati: Palazzo Leopardi, la famosa piazza e la chiesa di Santa Maria di Montemorello

Nacque in anticipo, settimina si diceva un tempo, e lei stessa rivelò in un suo scritto che sua madre «gravida di sette mesi, cadde dalle scale, ed io mi affrettai tosto di uscire fuori per godere di questo bel mondo, di cui ora mi affretterei di uscire, se potessi». 

Se c’è una cosa che rimane indelebile dei nostri studi liceali, è il ricordo delle parole di Leopardi, quelle che ci restituiscono il terribile senso di oppressione che egli ricavò dall’educazione ricevuta e dal peso schiacciante che esercitava la presenza dei genitori sulla sua vita.

Il Conte Monaldo e sua moglie Adelaide Antici

Si può bene immaginare che se la casa ed il paese di origine erano sembrati un carcere al primogenito maschio di una famiglia di nobili di provincia di quel tempo, il regime nel quale fu allevata la terzogenita femmina sia stato del tutto reclusorio.
Da piccola Paolina fu compagna di giochi dei fratelli maggiori che, essendo lei sempre obbligata a portare i capelli corti e a vestire di nero, la chiamavano “Don Paolo” facendole assumere il personaggio di parroco nelle loro messinscena infantili.

Divenuta adulta la ragazza, che aveva avuto un’educazione adeguata, collaborò con suo padre, di cui conosciamo l’impegno culturale, nella redazione delle riviste “La voce della ragione” e “La voce della verità”, portatrici di una battaglia ostinata contro la modernità.
Toccava a lei tradurre articoli provenienti da giornali e riviste francesi. L’oppressione familiare non poteva non gravare sulla sua vita e sul suo animo e l’unico modo che una ragazza avesse allora di sfuggire ad una prigione familiare era il matrimonio.
In una sua lettera Paolina scriveva:

“…il paese dove vivo io è casa Leopardi; e voi sapete meglio di me come vi si vive. Insomma io sono disperata”.

I genitori ponendosi il problema di “accasare” Paolina, stanziarono per lei una dote di 40.000 lire, cifra abbastanza ragguardevole, e avevano fatto intendere che avrebbero preso in considerazione come pretendente anche una persona non nobile di origine, ma corretta e civile, e, ovviamente di solida condizione economica. 

Paolina Leopardi

Di un primo fidanzamento di sua sorella Giacomo diede notizia al suo mentore Pietro Giordani in una lettera del 1821, sbrigandosi poi a comporre una “Canzone nelle nozze della sorella Paolina” che era tuttavia solo una sorta di esercizio stilistico.
Quel progetto matrimoniale però fallì, per ragioni anch’esse spiegate da Leopardi allo stesso corrispondente:

“Paolina non fu più sposa. Voleva, e ciò (lo confesso) per consiglio mio e di Carlo, fare un matrimonio alla moda, cioè d’interesse, pigliando quel signore ch’era bruttissimo e di niuno spirito, ma di natura pieghevolissimo e stimato ricco.
S’è poi veduto che quest’ultima qualità gli era male attribuita, e il trattato, ch’era già conchiuso, è stato rotto”.

Coincidendo la necessità di far sposare Paolina con la disperata voglia di lei di liberarsi dal giogo familiare, i tentativi di fidanzamento non terminarono con quel primo fallimento e uno di questi, con un tale Ranieri Roccetti, un giovane bello ed elegante, convinse pienamente Paolina che se ne incapricciò davvero, sentendosi però poco attraente per i gusti di quell’uomo che aveva anche fama di libertino.
Roccetti, infatti, scelse poi altrimenti, sposando una vedova di condizione più modesta ma bella.
Quasi dieci anni dopo Paolina scriverà:

“Io ho amato un giovane signore marchigiano di nome Ranieri. L’ho amato tu non puoi immaginare con quale ardore; io era sua sposa, perché tutto era combinato ed egli era quale lo avevo desiderato nei miei sogni”.

Tramontate queste prime, altre furono le possibilità che si presentarono e Paolina era disposta ormai ad accettare chiunque le venisse proposto, pur di abbandonare la sua prigione recanatese.
Di una di queste possibilità di matrimonio, quella con un tale Marini, cinquantenne vedovo e brutto, ma che l’avrebbe portata a vivere a Roma, Paolina scriveva a Giacomo:

“Giacomuccio mio, fino a che vi è in me una ombra di speranza di poter conchiudere con questo, non voglio sentir parlare di altri, aspetto le vostre lettere con un palpito terribile. Se sapeste quanto piango!”.

Paolina Leopardi

Con gli anni sfumarono pretendenti e possibilità di fuga e Paolina proseguì la sua vita di reclusa nella sua stanza, schiava di abitudini polverose e di una madre, il cui carattere conosciamo anche dalle parole di Giacomo che la riguardano, che trattava la figlia adulta come una ragazzina.

Non casualmente ella tradusse un libro come “Spedizione notturna nella mia stanza”, di De Maistre, traduzione che rivelava la sua situazione angusta.
La corrispondenza con le amiche più care divenne il suo principale mezzo di evasione e alla sorelle Marianna e Anna Brighenti così scriveva della sua esitenza di allora:

“Fra gli altri motivi che hanno renduto così triste la mia vita e che hanno disseccato in me le sorgenti dell’allegrezza e della vivacità, uno è il vivere in Recanati, soggiorno abominevole ed odiosissimo; un altro poi è l’avere in Mamà una persona ultrarigorista… Io voglio ridere e piangere insieme: amare e disperarmi, ma amare sempre, ed essere amata egualmente, salire al terzo cielo, poi precipitare…Mi pare di esser divenuta un cadavere, e che mi rimanga solo l’anima, anch’essa mezza morta, perché priva di sensazioni di qualunque sorta”. 

Nel 1837 morì Giacomo e il colpo fu assai duro per Paolina, nonostante la puntuale corrispondenza col poeta, si fosse in quegli ultimi anni un po’ diradata.

Giacomo Leopardi

In quello stesso anno la famiglia Compagnoni Marefoschi pubblicò la sua “Vita di Mozart”, opera alla quale Paolina si era dedicata consultando l’opera di Stendhal e altre biografie del musicista.
La Leopardi restò comunque contrariata dal fatto che chi aveva pubblicato il suo saggio avesse espunto dal testo le parti più piccanti.
Nel 1847, dieci anni dopo Giacomo, morì il Conte Monaldo, suo padre, al quale Paolina dedicò uno scritto in memoria: “Monaldo Leopardi e i suoi figli”, e dopo altri dieci anni, nel 1857, scomparve anche la madre Adelaide.

Trovarsi ad essere per la prima volta padrona assoluta della sua vita, fu una vera rivoluzione per la donna che, smesso il suo perenne abito nero da lutto, prese a fare continui viaggi, a vedere posti da sempre bramati: Ancona, Grottammare, Firenze, l’Emilia, Modena.
Ogni anno Paolina si dedicò alla visita di nuove città, toccando Napoli nel 1867, nella quale potè far visita alla tomba di suo fratello Giacomo.
Finì per stabilirsi a Pisa, la città che il poetà più di tutte amò, tornando spesso a Firenze.
Fu in quella città che venne colpita da forte febbre, dovuta forse ad una bronchite o ad una pleurite da cui non venne più fuori: rientrata a Pisa, vi morì il 13 marzo del 1869.

Lettera di Paolina Leopardi ad Antonietta Tommasini (foto della Biblioteca Palatina di Parma)

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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