Joseph Roth e il Tramonto di due Mondi

«Egregio signor Rocca, a lungo, troppo a lungo non ho risposto alla Sua lettera. Ho dovuto consegnare entro la fine di aprile un libro, un romanzo […] e poiché la cosa potrebbe interessarLa: il titolo è Hiob, la storia di un ebreo russo del nostro tempo, che ha lo stesso destino del biblico Giobbe. Nel frattempo avrà ricevuto dal mio editore Kiepenheuer tutti i miei libri, per quanto sia possibile riuscire ancora a reperirli.
La interessano annotazioni autobiografiche?
Sono nato in Volinia, nella ex Russia, in un borgo di coloni tedeschi. Durante la guerra esso è scomparso, è stato distrutto e intenzionalmente non più ricostruito dai polacchi di oggi.

Mia madre era una ebrea russa.

Non ho mai visto mio padre, che, ancora prima della mia nascita, si era ammalato di malinconia e aveva terminato la sua vita nella follia.
Era un austriaco, proveniva, per quanto ne so, da Baden, vicino a Vienna. Anch’io ci andai da bambino, presso certi parenti di mio padre. Essi mi rimandarono da mia madre; ho passato metà della mia giovinezza senza studiare, nei boschi, nei villaggi, nei campi. Poi ottenni un po’ soldi da parte dei fratelli di mia madre.

Ritornai ancora una volta a Vienna, iniziai a studiare, divenni studente di germanistica, mi arruolai nell’esercito austriaco, andai alla guerra, fui mandato sul fronte orientale e divenni ufficiale, ritornai dopo la rivoluzione e iniziai a scrivere.

Sono dodici anni ormai che scrivo libri, reportage di viaggio e articoli. Ho poco successo, non mi sono fatto un nome, non ho domicilio, non appartengo a nessuna corrente letteraria, non ho nessuna convinzione politica, ho pochi amici e non faccio affatto vita di società.
Sono un solitario, evito incontri, odio i partiti e la maggior parte degli scrittori viventi.
Sono povero e ambizioso, aspetto il successo. Penso che la mia generazione (ho trentacinque anni) sia l’ultima a generare scrittori in Germania.
I più giovani scrivono per caso e per comodità. Essi sono veramente degli aviatori e degli automobilisti.
Io mi riconosco nella comunità mondiale dei partecipanti alla guerra, nella generazione dei decimati, dei reduci impotenti e dei morti.
Credo in una trasformazione dell’Europa, che significherà quasi il suo tramonto e non senza orgoglio ho la sensazione di appartenere ad una razza che sta scomparendo, che viene sterminata da plebei americani. Amo il Mediterraneo, il mondo romanzo, il cattolicesimo. Odio il Nord, il protestantesimo, lo sport.
Amo la chiarezza dell’Illuminismo, al tempo stesso amo la chiara definizione, come l’ha creata la Francia, i confini dell’umanità.
Odio il confuso, il mistico da quattro soldi e tutto ciò che è difficile da comprendere. Insomma tutto ciò che viene venerato in Germania. Amo l’est europeo, la pianura, la natura. Vedo che il bolscevismo è l’americanismo dell’est, la Germania l’America dell’Europa. Non credo nel domani, forse nel dopodomani.
Forse queste confessioni Le sono sufficienti, egregio signor Rocca, sarei contento, sarei orgoglioso, se potessi venir nominato nella Sua bella lingua. Spero di avere presto sue notizie.
Parliamo spesso e bene di lei con il signor Stefan Zweig.

La ringrazio di cuore,
Suo Joseph Roth»
6 maggio 1930

Stefan Zweig

Questo è l’autoritratto che Joseph Roth scrisse in una lettera indirizzata al germanista, storico della letteratura tedesca, giornalista e traduttore Enrico Rocca, che su pressione di Stefan Zweig lo aveva contattato in vista di una possibile traduzione italiana delle sue opere.
La lettera, inedita, venne pubblicata anni fa sul Corriere della Sera e riaccese i riflettori su uno dei grandi scrittori mitteleuropei, amatissimo dai lettori italiani, le cui vicende personali sono rimaste però largamente sconosciute.

È difficile immaginare uno scrittore che sia riuscito quanto Joseph Roth a rappresentare, e di farlo quasi poeticamente, il tramonto di più universi storici e culturali.
Claudio Magris, autore di una delle più approfondite esplorazioni dell’opera dello scrittore austriaco galiziano e della tradizione ebraico -orientale di cui lo scrittore fu erede, scrive che il Roth narratore, in sostanza, trae origine da una fine.
Per quanto egli si sia spento prima di assistere alla “soluzione finale” propugnata dai nazisti, il suo itinerario poetico ed intellettuale iniziò quando il suo mondo era già crollato e scomparso e quando anche i suoi ultimi residui erano in procinto di sparire.

Così tutta la sua produzione si tinse, da un lato, del rimpianto per la dissoluzione di un impero e dall’altro per la disgregazione di una intera coralità umana e religiosa, ovvero quella dell’ebraismo orientale. Questa doppia perdita lo fece sentire per sempre privato di una patria, costretto ad una sorta di precarietà identitaria, perché in qualche modo Roth sentì sempre forte il legame tra questi due mondi, una connessione così stretta che, secondo la sua percezione, la scomparsa del primo fu la premessa per la distruzione dell’altro.

Se è soprattutto nella “Marcia di Radetzsky”, uno dei suoi capolavori, che attraverso le meravigliose pagine sulla solitudine dell’Imperatore Francesco Giuseppe, viene rappresentata l’imminenza della disgregazione dell’Impero asburgico, questo sentimento umano e politico pervade tuttavia molte delle opere di Roth, soprattutto quelle scritte a partire dalla seconda metà degli anni Venti.

Imperatore Francesco Giuseppe

Ricostruire una sua biografia attendibile non è stato semplice, nonostante di lui si sapesse molto, dato che aveva vissuto una intensa vita di relazioni intellettuali e di peregrinazioni tra le più importanti capitali europee. Questa difficoltà, solo in teoria ingiustificata, è dovuta piuttosto al fatto che il maggiore ostacolo incontrato dai biografi nel ricomporre il filo della vita di Joseph Roth è stato Roth medesimo.

Lo scrittore infatti, quasi esercitando anche al di fuori della dimensione letteraria le sue capacità di immaginazione, ha disseminato di falsificazioni e depistaggi il racconto della sua storia personale e familiare, incappando spesso in versioni contraddittorie delle medesime vicende. Il lavoro degli specialisti ha comunque avuto ragione di questi inciampi consegnando ai posteri un ritratto verosimile del grande scrittore.

Roth nacque a Brody, in Galizia, alle estreme propaggini dell’Impero austro-ungarico, nei pressi di Lemberg,che noi conosciamo come Leopoli.

Ebrei di Brody radunati dai nazisti per la deportazione

Quel territorio aveva conosciuto da molto tempo una fiorente presenza ebraica, che non mancava di esercitare un corrispondente peso culturale.
La madre di Joseph, Maria Grübel, apparteneva ad una famiglia di commercianti ebrei del posto; suo padre, Nachum Roth, proveniva da un ambiente chassidico ortodosso ed essendo commerciante di cereali, era spesso in viaggio per affari.

Durante uno di questi spostamenti si manifestarono in lui i segni di una malattia mentale che ne provocò prima il ricovero, all’insaputa della moglie e del figlio, in una casa di cura, e successivamente lo consegnarono ad una definitiva incapacità di intendere e di volere.
Da quel momento, essendo di fatto disperso, venne del tutto meno la possibilità che potesse esercitare un qualsiasi ruolo all’interno della sua famiglia, famiglia che anzi preferì, per ragioni sia pratiche che di convenienza sociale, lasciar credere che Nachum Roth fosse morto suicida.

Joseph raccontò poi di avere sofferto da ragazzo di povertà e miseria, ma da documenti e testimonianze più che fondate, si sa che visse invece in una condizione di decoro borghese: la madre aveva una cameriera, lui prendeva lezioni di  violino e poté permettersi di frequentare il ginnasio.

Dopo la maturità, nel maggio del 1913, si trasferì a Leopoli, dove si iscrisse all’Università.
Lì cominciò ad interessarsi del movimento sionista che stava crescendo, ma poi, a causa delle acute tensioni verificatesi tra studenti di varie nazionalità, Roth che vedeva nella letteratura tedesca la sua unica patria, nel 1914 decise di trasferirsi presso l’Università di Vienna.

Quello fu un periodo realmente difficile: lui e la madre, che lo aveva raggiunto, vivevano con un piccolo sussidio per i profughi e con rari aiuti da parte di parenti. Roth comunque cominciò con slancio lo studio della letteratura tedesca, ottenendo ottimi risultati: sostenne esami, si fece apprezzare dal corpo docente e migliorò la sua situazione economica grazie ad alcune borse di studio e a qualche incarico come insegnante privato.

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale fu un evento decisivo nella sua vita.

In un primo momento Roth prese delle posizioni pacifiste, poi, di fronte ad una mobilitazione generale della popolazione, finì per vergognarsene e nel maggio del 1916 si arruolò volontario nel 21° Battaglione di fanteria.
Pochi mesi dopo, mentre lui stava completando l’addestramento, morì l’imperatore Francesco Giuseppe e Roth fu uno dei soldati che fece cordone durante il corteo funebre.

corteo funebre dell’ Imperatore Francesco Giuseppe

L’evento si ripercuoterà fortemente sulla vita e l’opera dello scrittore che considererà quella scomparsa la premessa della dissoluzione dell’Impero Austroungarico, sua unica possibile patria sia come cittadino che come ebreo.

Due romanzi in particolare, il già citato “La marcia di Radetzsky” e “La cripta dei Cappuccini”, descriveranno il malinconico canto del cigno di quello che fu il più imponente impero europeo, unica realtà politica in grado di tenere insieme per un lungo periodo di tempo tante diverse nazionalità e culture.

Alla fine della guerra Roth, che nel periodo bellico aveva iniziato a collaborare con poesie e prose con alcuni giornali, decise che quella di giornalista sarebbe stata la sua professione definitiva. Dal mese di aprile 1919 divenne redattore del giornale Der Neue Tag, al quale collaboravano anche Alfred Polgar, Anton Kuh ed Egon Erwin Kisch.

Quando, intorno al 1920, il Neue Tag sospese le pubblicazioni, Joseph si trasferì a Berlino e superati problemi burocratici che riguardavano il suo permesso di soggiorno, cominciò a pubblicare su diversi giornali, tra cui il Neuen Berliner Zeitung.

Joseph Roth con alcuni amici artisti e intellettuali olandesi in un caffè di Amsterdam

Dal gennaio 1923 lavorò per alcuni anni come corrispondente culturale per il prestigioso giornale Frankfurter Zeitung, ma l’impressionante inflazione in Germania e Austria lo indusse a spostarsi spesso tra le due capitali, Berlino e Vienna. estendendo le sue collaborazioni anche a periodici praghesi.
Il suo primo romanzo,“La tela di ragno”, fu pubblicato a puntate a Vienna sull’Arbeiter-Zeitung, rimanendo incompiuto.

Quando Roth, per attriti col capo della redazione culturale, decise di andarsene, fu pregato di continuare a lavorare come corrispondente da Parigi.
Nel maggio del 1925 si trasferì a Parigi e dapprima si mostrò entusiasta della città.Cominciò per lui un periodo durante il quale in qualità di inviato fu costantemente in viaggiò per scrivere una serie di reportage.
Nel 1926 visitòl’Unione Sovietica che deluse profondamente il Roth simpatizzante socialista, convertendolo definitivamente alla causa monarchica. Negli anni successivi fu in Albania e in Jugoslavia, in Polonia e in l’Italia.

Il 5 marzo 1922 Roth sposò a Vienna Friederike (Friedl) Reichler, conosciuta tre anni prima. Friedl era una donna attraente e intelligente, ma non era un’intellettuale né era adatta alla vita irrequieta e mondana al fianco di un giornalista di successo che viaggiava di frequente. Nei suoi confronti Roth mostrò sintomi di una gelosia quasi patologica.
Ad appena quattro anni dal matrimonio lei diede i primi segni di una malattia mentale grave che peggiorò rapidamente.

Friederike (Friedl) Reichler, moglie di Joseph Roth

Iniziò un periodo in cui i ricoveri si alternarono a soluzioni di cura in ambito domestico, ma la malattia di Friedl provocò una profonda crisi nello scrittore che se ne fece una colpa e cominciò a bere troppo, Pernod in particolare, e in quantità abnormi.
Dopo vari anni di tribolazioni e di tentativi di cura, nel 1935 Joseph chiese il divorzio. Cinque anni dopo la moglie verrà eliminata dai nazisti in quanto malata di mente. Anche se la situazione della salute della moglie provocò in Roth dolore e sensi di colpa, lui ebbe successivamente con alcune donne relazioni di varia durata, tutte caratterizzate dalla gelosia dello scrittore di cui esse ebbero a lamentarsi.

All’inizio di luglio del 1936 Roth fu invitato da Stefan Zweig a Ostenda, dove incontrò la scrittrice Irmgard Keun che vi era emigrata. L’interesse fu reciproco. Vissero insieme a Parigi dal 1936 al 1938.

Stefan Zweig e Joseph Roth a Ostenda

Entrambi bevevano molto e anche questa relazione si interruppe bruscamente, secondo la Keun per la gelosia di Roth.


Nel frattempo Roth aveva abbandonato la Germania. Lo fece Il 30 gennaio del 1933, lo stesso giorno in cui Hitler era diventato cancelliere, presentendo con esattezza la catastrofe che ne sarebbe derivata. Una lettera inviata all’amico scrittore Stefan Zweig dimostra la chiarezza di pensiero con la quale prevede l’orrore futuro ed il suo rifiuto totale del nazismo:

«Intanto le sarà chiaro che ci avviciniamo a grandi catastrofi. A parte quelle private – la nostra esistenza letteraria e materiale è annientata – tutto porta a una nuova guerra. Io non do più un soldo per la nostra vita. Si è riusciti a far governare la barbarie. Non si illuda, l’inferno comanda.»

E in una lettera successiva, ancora indirizzata a Zweig scrive:

«La Germania è morta. È stata solo un sogno, apra gli occhi, la prego!»

Il suo impegno contro l’ideologia nazionalista si fondeva col suo utopistico e sentimentale progetto di favorire il ritorno degli Asburgo a Vienna. In un articolo del 1934 così riferisce della situazione in Germania:

«Nessun corrispondente è in grado di descrivere un paese in cui, per la prima volta dalla creazione del mondo, sono in azione non soltanto anomalie fisiche, bensì anche metafisiche: mostruosi aborti infernali, storpi che corrono, diavoli che si mordono la coda. È il settimo girone dell’inferno, la cui filiale sulla terra ha il titolo di Terzo Reich.»

Come accadde alla produzione letteraria di altri autori, anche i suoi libri furono bruciati e Roth tornò a vivere a Parigi pur continuando a fare parecchi viaggi in Europa. In alcuni paesi gli fu possibile continuare a pubblicare, rimanendo attivo anche come giornalista.

Negli ultimi anni la sua salute e la situazione economica peggiorarono rapidamente.
Nel 1937 Roth dovette lasciare l’Hotel Foyot, dove aveva vissuto per dieci anni, perché pericolante.

Lo scrittore del resto abitò in una casa solo per un anno della sua vita da adulto, preferendo sempre l’ospitalità degli alberghi.

Continuava a bere molto.

Il 23 maggio del 1939 fu ricoverato in un ospedale che era adibito anche a ospizio dei poveri e pochi giorni dopo, il 27 maggio, abbandonato nelle mani di infermieri e medici incapaci morì per una polmonite non diagnosticata tempestivamente, aggravata da una crisi di delirium tremens.

Lasciò un’opera corposa fatta di poesie, di racconti e di una ventina di romanzi, molti dei quali, come “La marcia di Radetzsky”, “Giobbe”, “Tarabas”, “Fuga senza fine”; “Zipper e suo padre”, e altri ancora, sono di altissimo livello.

La sua prosa, apparentemente semplice, ma così nitida, poetica ed evocativa, resta una delle più perfette che si possano incontrare nella letteratura contemporanea, ideale sostegno nel descrivere parti intere della Storia dell’umanità ingoiate dall’abisso insondabile del suo fluire.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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