Latina Città Aperta è orgogliosa di presentarvi un altro breve racconto scritto dalla nostra Francesca Suale.
Ecco oggi la prima parte di uno scritto dal titolo “Lo straniero”, allegoria del diverso ironica e divertente.
Siamo certi del vostro apprezzamento.
Buona lettura.
Lo straniero giunse sull’isola una mattina di libeccio, o almeno vi comparve per la prima volta, quanto a giungervi non si sa bene da dove, quando e come, ma si poteva facilmente dedurre che fosse arrivato via mare, giacché questa era l’unica via d’accesso all’isola.
Apparve sulla spiaggia all’alba, che il cielo cominciava a illuminarsi di un colore nuovo e sconosciuto. Forse era straniero pure il principio del giorno che recava con sè sull’isola quell’uomo con il soprabito scuro e le scarpe di vernice lucida: “roba di città” del tutto inadatta a muoversi su quel lido.
Eppure, nonostante il suo abbigliamento inadeguato, egli percorreva a lunghi passi la battigia, lasciando impronte profonde per via della sua statura e della sua mole.
Era difatti un uomo alto e robusto, non che fosse pingue, più che altro era imponente, e dimostrava un’età di mezzo, a riprova di ciò i suoi capelli erano brizzolati, folti e spettinati dal vento.
Mentre procedeva ad ampie falcate, come se avesse una gran fretta di andare chissà dove, travolse in pieno il castello di sabbia che una bimba stava costruendo in riva al mare, ma non se ne avvide e non si volse neanche quando il pianto della bimba sgorgò improvviso, levandosi tragicamente su quelle rovine di sabbia.
La bimba dunque pianse la sua piccola disfatta, certamente una delle prime della sua giovane vita, e lo straniero inconsapevole di ciò continuò a divorare la rena a lunghi passi, quasi avesse una fretta del diavolo o un diavolo in corpo, oppure un appuntamento col diavolo in persona.
Di lì a poco imboccò la stradina sterrata che conduce in paese, uno di quei viottoli contorti che si snodano attraverso la vegetazione isolana, un misto tra savana e flora mediterranea, con qualche accenno di palmizio tropicale solitario. Piantato più per il vezzo di imitare i paesaggi delle cartoline che per necessità, il palmizio era rigorosamente nano e cresciuto storto a causa del vento violento proveniente dal mare; infatti vere e proprie trombe marine sferzavano l’isola nella stagione autunnale, con incursioni di una rapidità impressionante che, un attimo dopo, come niente fosse, restituivano un cielo sereno, immacolato, spazzato bene di tutte le nubi, e l’aria cristallina nettata da ogni impurità.
La stradina sterrata procedeva in leggera salita, niente che però potesse scoraggiare la marcia dello straniero; il paese infatti cresceva sul pendio naturale dell’isola, abbarbicato, a protezione dalle mareggiate, dai repentini cambi meteorologici, dagli scherzi del tempo a cui erano avvezzi gli abitanti, che perciò avevano costruito nei secoli le loro abitazioni inerpicandosi su per gli altipiani, terrazze scoscese a picco sull’oceano, che offrivano riparo e una vista meravigliosa.
Da lontano, se munito di binocolo, potevi scorgere solamente l’ombra della sponda remota del continente, dove si supponeva crescessero città rumorose, tutte abitate da stranieri in impermeabile scuro e scarpe tirate a lucido, che certamente si trovavano affaccendati in occupazioni consone a quel guardaroba che sull’isola era del tutto inusuale.
La terraferma era molto lontana, lo era in particolar modo per quel genere di lontananze che appartengono a due realtà diverse, nonostante abitino in apparenza la medesima epoca.
Ma torniamo allo straniero.
Aveva con sé una valigetta di pelle nera mediamente logora, con la serratura a combinazione, e l’aria di sapere esattamente dove andare;
egli non si guardava attorno per godersi il paesaggio come facevano i turisti che sbarcavano nella stagione estiva, ma a dire il vero i turisti da quelle parti erano una rarità e quando ne sbarcava qualcuno non si tratteneva mai a lungo. L’isola non offriva attrazioni né divertimenti ed era nota a tutti per il carattere scontroso degli abitanti che non incoraggiavano i visitatori, anzi.
Comunque il nostro straniero non si comportava affatto da turista, andava troppo di fretta e riservava ogni attenzione ai ciottoli del sentiero per non inciampare, o per lo meno metteva un certo impegno nello schivarne il naturale intralcio giacché, come già spiegato, non indossava scarpe adatte a quel terreno.
Una contadina sul ciglio della strada raccoglieva la cicoria, teneva un coltello in mano e stava china a cavare tra l’erba la preziosa verdura, così fu la prima a incontrare lo sguardo dello straniero e, burbera com’era, restò accigliata a guardarlo con l’aria di volergli dire in faccia:
“Che ci sei venuto a fare qui?!”,
ma l’uomo, per nulla intimorito, scoccò un buongiorno tra i denti senza intonazione, la superò sollecito, piuttosto seccato, e proseguì come se niente fosse stato.
Allora la contadina, col suo fardello d’erba nel grembiule, si precipitò per una scorciatoia che dai prati conduce al paese, passando per un pioppeto dove scorre un fiumiciattolo, su per un ponticello e ancora a destra per una salita, che dicono sia ciò che rimane di un’antica frana, ed essendo piuttosto avvezza a siffatte scorribande e tutt’altro che estranea a simili sortite, giunse in paese prima dello straniero, nella piazzetta dove tutti gli abitanti erano soliti adunarsi per raccontare le novità del caso, le buone nuove quanto le cattive, praticamente quasi niente, giacché nell’isola non succedeva molto di cui valesse la pena parlare.
“Sta arrivando uno straniero!”
gridò trafelata la contadina a tutti i presenti, sempre con la stessa identica espressione, lasciando cadere a terra, dal grembiule, quel suo prelibato carico vegetale e, dopo un momento, venne subito attorniata da una ventina d’isolani incuriositi, risvegliati dalla notizia che qualcosa di veramente nuovo finalmente stava accadendo.
Dopo una prima reazione di sorpresa, gli isolani decisero tutti insieme di comportarsi come se nulla fosse. Nel momento in cui lo sconosciuto avesse varcato la soglia del paese, di lì a poco, nessuno avrebbe dovuto curarsi di lui: bisognava dargli subito a intendere che sull’isola c’era ben altro di cui occuparsi.
A tal uopo era necessario ostentare atteggiamenti di incuranza, gli sguardi dovevano essere rigorosamente indifferenti, distratti ad arte per celare le assai note curiosità. Tutti erano infatti a conoscenza che, oltre a essere scontrosi con gli estranei, gli abitanti dell’isola erano anche molto, ma proprio molto, curiosi.
Di lì a pochi minuti lo straniero comparve nella piazzetta, rallentò il passo e si guardò attorno e, come concordato, nessuno si curò di lui.
Chi stava seduto al bar sorbiva il suo caffè distrattamente, chi passeggiava si sofferamava a guardare con interesse esagerato le piccole vetrine delle botteghe della piazza, dove si esponeva da cent’anni sempre la stessa merce ormai obsoleta.
Dal canto suo la contadina era tutta indaffarata a raccattare la cicoria, che aveva lasciata cadere nella fretta di dare l’annuncio poco prima, e se per caso a qualche massaia fosse “capitato” di affacciarsi alla finestra, doveva subito mostrarsi intenta a spolverare i vetri o a battere i tappeti.
Lo straniero, per niente intimidito, si avvicinò alla contadina e le chiese gentilmente:
“Buona donna, dove lo trovo un albergo qui in paese?”
La buona donna, sgomenta perché presa alla sprovvista, nell’indicare con le braccia un vicoletto a dritta, fece cadere un’altra volta la cicoria dal grembiule.
Lo straniero ringraziò senza scomporsi e le lasciò cadere nella mano una moneta, poi s’avviò nella direzione indicatagli e, solo quando fu scomparso nell’oscurità del vicolo, gli isolani attorniarono la contadina per farsi mostrare quel prezioso dono.
Veniva dalla terraferma, non v’era dubbio, giacché il denaro dell’isola era di conio differente e per di più quasi in disuso, in quanto nel paese vigeva ancora la consuetudine antica del baratto e la moneta aveva sempre avuto corso limitato.
La sera stessa in piazza si faceva un gran vociare, pare che lo straniero avesse preso alloggio nell’albergo del paese e la locandiera, una vecchia impicciona addirittura più scorbutica di tutti gli altri isolani messi insieme, aveva sentenziato che l’uomo sembrava intenzionato a restare a lungo, malgrado non avesse per bagaglio che quella sola valigetta di pelle nera con la serratura.
Era una sera limpida, stellata, sembrava l’aria ferma, come immota, e, sopra l’aria tersa a galleggiare luminosa, una luna piena e rubiconda che rischiarava i tetti delle case.
Da molto tempo non si vedeva un plenilunio tanto immenso, pareva più vicino del consueto, e tutti i ragazzini del paese s’erano messi a raccattare sassi e li lanciavano contro quella luna che avevano presa per un tiro a segno, una specie di luna – park improvvisato… tanto la luna c’entrava sempre, o quasi, che poi non ci fosse il park non faceva per loro differenza.
Spesso gli sguardi si spingevano verso il vicolo a dritta della piazza, dove ciascuno s’aspettava di vedere comparire lo straniero, magari per venire a prendere una boccata d’aria e curiosare in giro, o per una sosta al bar con gli avventori abituali…
ma forse di fatto tutti temevano quell’apparizione, perché non erano avvezzi alle facce nuove e un’innata diffidenza vinceva gli isolani giacché, quando è l’oceano a spartire le distanze e, come mitili avvinti a uno scoglio, sempre gli stessi uomini da generazioni hanno vissuto, sposandosi tra loro e tra di loro tessendo convivenze, alleanze e persino inimicizie, l’ombra di uno straniero può turbare “l’equilibrio” e riesce proprio difficile farsene una ragione.
Intanto la serata si svolgeva come tutte le altre e il vicolo a dritta, con le fauci spalancate, che pareva pronto a rigurgitare nella piazza quella presenza estranea, restava inesorabilmente vuoto.
A manca gridavano ancora i ragazzini, lanciando sassi con la fionda, convinti di affondare la luna, di trapassarla da parte a parte o quanto meno di riuscire ad ammaccarla, qualche randagio invece a mala pena le dedicava un ululato stanco, senza convinzione, più somigliante a uno sbadiglio.