TERZA E ULTIMA PARTE
Il Golfo di Finlandia rimase congelato per più di quattro mesi quell’anno e Lenin capì che doveva agire rapidamente per evitare di perdere l’opportunità di prendere la fortezza via mare, sua unica opzione.
Sulla corazzata Petropavlovsk i marinai avevano intanto approvato una “risoluzione” che esigeva la rielezione dei soviet a scrutinio segreto, dopo una campagna elettorale “libera”.
Si stabiliva anche che ci dovesse essere libertà di pensiero e di opinione per tutti i partiti, la liberazione dei menscevichi e dei socialrivoluzionari arrestati dalla Ceka e la fine delle requisizioni forzate ai contadini, dando loro piena libertà di gestire la propria terra e i raccolti.
Il primo di marzo a Kronštadt fu celebrata una grande manifestazione di massa che rese noto ai cittadini della città-fortezza l’elenco delle richieste votate sulla corazzata, e il giorno seguente si tenne un confronto con alcuni membri del potere bolscevico inviati per discutere circa le nuove elezioni per il soviet locale.
Durante l’incontro gli oratori mandati dai bolscevichi furono interrotti più volte e Kalinin, presidente della Repubblica Sovietica, fu tenuto in ostaggio dopo che aveva iniziato ad accusare i ribelli, insieme con gli altri inviati. Invece il commissario politico Kuzmin, e altri due leader bolscevichi furono arrestati per i crimini da loro commessi in precedenza verso i soldati sovietici, con decimazioni più volte ordinate nel corso della guerra civile.
Si designò un Comitato Provvisorio Rivoluzionario sotto la presidenza di Stepan Petrichenko, che stabilì il quartier generale sulla Petropavlovsk. Rapidamente il presidente inviò distaccamenti armati a occupare vari punti strategici per prendere il pieno controllo della cittadina.
Il 3 di marzo i ribelli proibirono a chiunque l’uscita dalla città, cancellarono le licenze militari e imposero il coprifuoco a partire dalle 11 di notte.
Come si può facilmente intuire, questi fatti preoccuparono molto il partito bolscevico che fece arrestare oltre 2000 operai di orientamento ritenuto “ostile al bolscevismo” perché simpatizzavano con Kronštadt.
Si raccontò sui giornali di regime che una delle ragioni che allertarono i capi del partito leninista contro la rivolta fu che la notizia della sua imminenza fu data due settimane prima degli eventi, soprattutto dalla stampa internazionale.
Molto probabilmente però era solo propaganda con fine manipolatorio e disinformativo.
Il 4 marzo, il Comitato di Difesa di Pietrogrado emanò una risoluzione nella quale si esortavano i marinai ad abbandonare quella pericolosa avventura e il 5 Trotsky scrisse “l’ultimo avvertimento”, affinché i ribelli deponessero le armi.
Quello stesso giorno il Comitato di Difesa di Pietrogrado lanciò sull’isola tramite degli aeroplani un opuscolo dove si avvertiva che si stavano ingannando i marinai con false promesse di libertà e che “dietro gli anarchici, i socialrivoluzionari e i menscevichi, mostravano i loro denti aguzzi gli ufficiali bianchi”.
Lo stesso comitato poneva ai rivoltosi inoltre un termine massimo di 24 ore per dichiarare la resa.
Il giorno seguente, estendendo il termine, il Soviet di Pietrogrado propose che una delegazione di membri del partito bolscevico visitasse Kronštadt, spedendoli lì in qualità di osservatori.
Questa proposta fu tuttavia respinta.
La Pravda lanciò un ultimatum ai ribelli:
“arrendetevi o vi abbatteremo uno ad uno, come i cacciatori fanno con le pernici” mentreTrotsky disse in proposito: “Abbiamo aspettato il più possibile per i confusi marinai compagni affinché vedessero con i loro occhi dove la rivolta li stava portando”.
La composizione sociale di Kronštadt era di certo molto mutata dal 1917: come nelle altre russe città la massa principale degli abitanti era formata ora da ex- contadini, e in molti di loro si rifletteva il malcontento per la politica del comunismo di guerra.
Numerosi marinai di Kronštadt raccontarono di essersi uniti alla rivolta perché scandalizzati dalle condizioni di miseria assoluta in cui versavano le loro famiglie e le loro città, quando tornavano a casa per periodi di licenza.
Il vero comando di lotta dei ribelli era concentrato non nel Soviet, ma nel cosiddetto “Consiglio per la difesa della fortezza di Kronštadt”.
Uno dei suoi leader era l’ammiraglio Dmitriev, che fu ucciso con una esecuzione sommaria dopo la caduta della fortezza; l’altro era il generale Koslowsky, che scappò in Finlandia.
Dai documenti di archivio è ormai palese che i marinai di Kronštadt non fossero in collegamento con l’emigrazione russa, e tanto meno con i Bianchi.
Anche Stepan Petrichenko, dopo la caduta di Kronštadt si rifugiò in Finlandia dove visse per qualche anno.
Più tardi, durante la guerra russo-finnica, fu arrestato dalle autorità locali per fantomatiche attività contro gli interessi finlandesi e consegnato ai sovietici per morire in una prigione vicino la città di Vladimir.
Dunque quella che era nata come una ribellione “spontanea” di comunisti dissidenti, anarchici e socialrivoluzionari, fu presto spacciata dagli organi di propaganda bolscevichi per una cospirazione controrivoluzionaria. Va però ricordato che il regime sovietico non aveva mai gradito l’autonomia del proletariato, che secondo loro “doveva essere guidato”, e sin dal 1918 Lenin aveva cominciato a mostrare il suo volto autoritario con la “bolscevizzazione” dei soviet, in virtù della quale non solo venivano espulse tutte le componenti di diverso orientamento politico ma col quale si gerarchizzava anche un organismo, il soviet, nato per promuovere la libertà di autogestione dei lavoratori e dei contadini.
Per contrastare il comunismo libertario di Kronštadt, i bolscevichi usarono dunque l’arma della diffamazione, affiggendo sui muri delle principali città russe manifesti in cui si millantava il tradimento di Kronštadt.
La «Leningradskaja Pravda» pubblicò la falsa notizia dell’esecuzione non eseguita “per miracolo” del Commissario politico della flotta e dell’esercito Kuzmin, che successivamente avrebbe confessato che, a parte l’arresto temporaneo, non gli era stato fatto proprio niente.
In realtà gli insorti avevano cercato di limitare in ogni modo gli episodi di violenza contro i bolscevichi: alcuni brutti fatti furono imputabili solo all’ iniziativa di qualche animo troppo esaltato.
Lo stesso Kuzmin e il “Presidente Esecutivo della Repubblica” Kalinin, erano stati accolti ufficialmente con la banda, ma quest’ultimo accusò i marinai e i soldati di tradimento, promettendo una dura repressione che non tardò ad arrivare.
All’appello fatto dai bolscevichi il 13 marzo, quando l’attacco era già in atto da qualche giorno, Kronštadt rispose con un proclama:
“Il 2 marzo ci siamo sollevati a Kronštadt contro il giogo dei comunisti bolscevichi e spieghiamo la bandiera rossa della terza rivoluzione dei proletari. Soldati rossi, marinai, operai! Kronštadt rivoluzionaria è insorta! Denunciamo che vi si inganna, che non vi si dice la verità di ciò che accade. Non vi si dice che siamo pronti a dare in olocausto la nostra vita per l’emancipazione degli operai e dei contadini. Vi vogliono persuadere che il comitato rivoluzionario provvisorio è sottoposto ai generali bianchi ed ai pope. Vogliamo finirla con le calunnie!”
Fu lo stesso Lenin, durante il X congresso del Partito Comunista del 15 marzo, ad ammettere pubblicamente su Kronštadt che “lì non vogliono né le guardie bianche, né il nostro potere”, spiegando come nella fortezza si fosse ormai aperto un solco incolmabile tra gli abitanti e il bolscevismo.
Ciò era dimostrato ampiamente dalla fuga di molti militanti dal partito, delusi dal carattere autoritario del potere bolscevico e dal cosiddetto “comunismo di guerra”.
Quest’ultimo aveva comportato la nazionalizzazione dell’industria, la soppressione del commercio privato e la requisizione di viveri a favore dell’esercito e degli abitanti delle città più importanti, anche se la guerra civile era finita da mesi.
Su questi punti invece Lenin preferì sorvolare.
Quest’ultime misure erano particolarmente invise anche ai marinai di Kronštadt, la maggior parte dei quali erano ex-contadini che avevano visto di persona la violenza bolscevica durante le requisizioni forzate dei prodotti agricoli e le prime carestie indotte artificialmente come scelta politica.
Il partito centrale sovietico, nonostante i tentativi di Emma Goldman e Alexander Berkman di mediare tra le parti in causa, decise allora di soffocare in un bagno di sangue la ribellione dei marinai di Kronštadt.
Prima dell’assalto la popolazione fu avvisata dell’attacco imminente da manifestini diffusi su Kronštadt tramite un aereo, un’idea di Zinoviev.
Il gelo e la neve sul mare intorno a Kronštadt cominciavano a ritirarsi.
Il 7 marzo, nel pomeriggio, scaduto il termine concesso, le guarnigioni di Sestroretsk e Lisy Nos aprirono il fuoco con i cannoni contro Kronštadt.
A fronteggiarsi, sul mare ghiacciato, erano i 60.000 uomini di Tuchacevskij contro 10.000 soldati della marina: tanti erano quelli effettivamente armati sull’isola.
L’attacco della fanteria scattò il giorno 8 marzo, ma alcuni reggimenti dell’Armata Rossa si rifiutarono di continuare la lotta fratricida e gettarono le armi.
Un altro battaglione si unì agli ammutinati.
In breve, il primo assalto fallì, e ne fallì anche un secondo per un analogo rifiuto di due reggimenti.
In seguito a questi episodi venne allestito in fretta e furia un tribunale militare che mandò davanti al plotone di esecuzione settantaquattro”agitatori”.
Nell’assalto successivo gli ufficiali superiori dell’esercito pensarono bene di piazzare come deterrente delle mitragliatrici alle spalle dei soldati assalitori affinché non “avessero inutili ripensamenti”.
L’attacco dell’Armata Rossa, sotto il comando di Tuchačevskij iniziò proprio nel momento in cui il X° Congresso del Partito Comunista aboliva le requisizioni forzate delle derrate alimentari, accettando quindi molte proposte del soviet di Kronštadt, e proclamava la NEP (nuova politica economica)!
I bolscevichi però, preoccupati di ulteriori possibili insubordinazioni dei militari, decisero di chiudere definitivamente la “questione Kronštadt”.
Il 13 marzo i reparti delle truppe dell’esercito e della “Ceka”, nonchè quelle dei “Kursanti”, gli studenti cadetti delle accademie militari, sfruttando il manto di ghiaccio che ancora copriva le acque di fronte a Pietrogrado, attaccarono l’isola, che però resistette eroicamente.
Oltre alla difesa militare gli insorti organizzarono, con la fattiva collaborazione di tutti, alcune infermerie, sale operatorie, comitati per i munizionamenti e per l’approvvigionamento.
Consapevoli della difficoltà di fronteggiare l’Armata Rossa, gli insorti si appellarono al mondo, chiedendo che ovunque si mettessero in moto azioni di solidarietà.
Purtroppo l’appello non fu accolto da nessun paese e i ribelli restarono soli sino alla sconfitta finale:
Quei mancati aiuti dimostravano ancora una volta che quell’insurrezione era spontanea e che aveva una matrice social-comunista.
Ci vollero una dozzina di giorni di durissimi scontri per permettere alle truppe della Armata Rossa di far capitolare la cittadella.
L’assalto finale fu sferrato il 17 marzo, quando una squadriglia di bombardieri colpì per prima cosa le postazioni degli insorti, poi, dalle posizioni a nord e a sud dell’isola, l’Armata Rossa si lanciò all’attacco sulla superficie ghiacciata del mare.
Le cannonate sparate dalla fortezza infransero la crosta di ghiaccio, per questo molti fanti all’attacco morirono nelle acque gelide.
L’enorme sproporzione di forze fece sentire infine tutto il suo peso e l’Armata Rossa, combattendo casa per casa, massacrò chiunque gli capitasse sotto tiro, persino chi si arrendeva e i familiari presi in ostaggio.
Nella notte alcuni insorti fuggirono a piedi, sul mare ghiacciato, verso la vicina Finlandia.
Ci riuscì qualche migliaio di loro, e, suprema beffa, vennero rinchiusi dalle autorità locali in campi di prigionia, e costretti ai lavori forzati.
La maggior parte però combattè sino alla morte
Alcune fonti dichiarano che i caduti tra le parti furono più di diecimila…altre arrivano a contarne ventimila…
Dopo aver soffocato la rivolta di Kronštadt, la Čeka diretta da Dzeržinskij iniziò una dura repressione contro gli oppositori fossero essi menscevichi, socialisti di ogni tendenza o anarchici.
Il 20 marzo furono condannati a morte 367 marinai, in gran parte appartenenti alle corazzate Petropavlovsk e Sevastopol, sulle era scoccata la scintilla della rivolta.
Il bilancio ufficiale della repressione fu il seguente: 6.528 insorti arrestati, di cui 2168 fucilati e 1955 condannati ai lavori forzati.
Quasi tutti i membri del Soviet ribelle vennero arrestati e già nel luglio del 1921 la Čeka creò 7 campi di concentramento dove vennero rinchiuse circa 50.000 persone in maggioranza donne, vecchi e bambini. Erano tutti familiari dei ribelli.
Queste date sono importanti perché Lenin era saldo al potere e la stalinizzazione era ancora ben lontana.
in questa vicenda anche il ruolo di Trotsky non fu secondario al punto che in suo testo, scritto nell’esilio messicano a Coyoacan nel 1938, due anni prima del suo assassinio, Trotsky si assunse la “piena e completa responsabilità” per l’intervento e il massacro di Kronštadt.
In fondo lui era stato il teorico del “Terrore come mezzo di governo” molti anni prima che il georgiano Stalin lo mettesse in pratica.
La ribellione di Kronštadt è stata ritenuta uno degli eventi cardine della tormentata storia del socialismo, del comunismo e dell’anarchia.
Prudentemente nascosta come uno scheletro nell’armadio dal regime sovietico per decenni, la rivolta è stata di fatto la drammatica testimonianza del tradimento delle istanze libertarie originali, quelle che avevano portato al potere il gruppo dirigente bolscevico.
Quest’ultimo, con la sua condotta dittatoriale, aprì la strada al regime stalinista, sostanziando il contrario di ciò che avrebbe desiderato chi aveva combattuto per le Rivoluzioni del 1917.
Bibliografia principali opere consultate:
Philipp Bloom, la grande frattura Marsilio
Israel Gentzler, l’epopea di Kronštadt PiGreco
Jean Jacques Marie, Kronštadt 1921 Utet
Stephen A. Smith, la rivoluzione russa, un impero in crisi Carocci
Lev Trotsky, storia della rivoluzione russa vari editori
Thomasz Parczewsky, Kronštadt nella rivoluzione russa Colibrì ed.
Andrea Graziosi, l’URSS di Lenin e Stalin il mulino
Fine
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.