Nell’ottobre 2013 se ne andò un grande campione di pallacanestro, uno sport che amiamo anche grazie a quelli come lui.
Si spense, a 69 anni, Sergej Belov, o, come amava chiamarlo il mitico Aldo Giordani, “Sergio Bianchi”.
Il suo vero soprannome, però, era “il Divino”. Sì, perché Sergej è stato davvero un giocatore divino.
Avrebbe potuto essere protagonista anche nella Nba. Pochi, anche oltre Atlantico, avevano il suo tiro, la sua eleganza, il suo estro.
Ma erano gli anni della Guerra Fredda, dei missili reciprocamente puntati contro Da Usa e Urss.
Nel 1972 fu il protagonista, con 20 punti segnati, della clamorosa vittoria olimpica dell’Unione Sovietica in quella finale a Monaco di Baviera che è passata alla storia per il finale confuso, con l’ordine dei direttori di gara di far ripetere i tre secondi finali.
Fu un tempo brevissimo, ma sfruttato a perfezione: una lunghissima rimessa dal fondo di Edesko, e la palla arrivò ad Alexander, l’altro Belov in squadra, piazzato sotto il canestro americano, che segnò i due punti della vittoria sovietica sugli Usa, storica perchè fino a quel momento (e, poi, fino a Seul ’88) gli statunitensi non avevano mai perso una sola partita ai Giochi Olimpici…
Atleta dotato di grande classe, eleganza di movimenti e fantasia, è stato il simbolo della squadra di pallacanestro del CSKA di Mosca e della nazionale sovietica negli anni Sessanta e Settanta.
Guardia dal tiro quasi infallibile, si è aggiudicato con la sua squadra di club undici titoli sovietici, due coppe europee e due coppe nazionali, mentre con la nazionale dell’URSS ha vinto due titoli mondiali, quattro europei e un oro olimpico.
Sergei Belov fu comunque ben altro. Era l’uomo di punta dell’Urss, che a cavallo degli anni settanta vinceva Olimpiadi, Mondiali ed Europei, e della squadra dell’Armata Rossa che lui portò per due volte a conquistare la Coppa dei Campioni nel periodo d’oro dell’Ignis Varese di Meneghin e Morse, Zanatta e Yelverton e del Real Madrid di Brabender e Luyk.
A livello di club con il CSKA di Mosca ha vinto due Coppe dei Campioni.
La prima nel 1969 fu ottenuta a Barcellona contro il Real Madrid nella sua prima stagione con il club.
Nella finale terminata 103 a 99 dopo due tempi supplementari, Belov aveva realizzato 19 punti rimanendo in campo per tutti i cinquanta minuti dell’incontro.
Nel 1971 vinse la sua seconda coppa dei campioni, ad Anversa, in una finale che oppose le stesse squadre dell’anno precedente. La squadra russa si prese la rivincita sull’Ignis Varese, vittoriosa nel 1970, imponendosi 67 a 53.
Sergej era anche un grande amico del nostro basket, al punto che, nella fase meno felice della sua vicenda nell’Unione Sovietica e quando gli fu infine consentito di espatriare, cercò, con l’aiuto di Maurizio Martolini, una panchina in Italia fermandosi però a quella di Cassino, in B2, perché i regolamenti italiani permettevano di allenare una squadra professionistica solo a coach stranieri che avessero vinto un oro tra Olimpiadi, Mondiali ed Europei, ma non ad un grande campione come lui (sette medaglie d’oro nelle massime competizioni internazionali, insieme a tre argenti e cinque bronzi, un vero pozzo di scienza cestistica).
Prese poi il patentino da allenatore in Italia ed era in procinto di firmare per l’Aurora Desio, in serie A2, ma alla fine la dirigenza lombarda scelse Sergio Scariolo.
Sergej si intristì e tornò in Russia, allenando diverse squadre, fino a concludere la carriera sulla panchina dell’Ural Great Perm (2002).
Si era deciso a partire dalla Russia quando si era reso conto che la sua stella stava declinando. Non era più il tempo in cui ogni anno il CSKA, in occasione delle partite di Coppa dei Campioni incrociava squadre italiane.
La sua arena era quella dell’Armata Rossa, che proponeva due altissime tribune sui lati lunghi del campo. I posti, quasi per intero occupati da militari in divisa, venivano assegnati secondo la nomenklatura: nelle file più basse gli alti gradi militari e le personalità politiche, in primissima fila gli eroi sportivi del Cska.
In quel team giocavano Sergej ed anche Anatolyi Myshkin, un’ala che giocava come un… americano, e poi Zarmukhamedov, il primo flash pivot europeo: un tipo di quasi due metri e 10 che si allontanava per tirare da lontano e liberare l’area.
Quello di Belov fu il sommesso declino di una stella, e di quel tramonto la colpa fu in parte anche dell’Italia del basket che riuscì ad infliggere la prima sconfitta interna all’Urss proprio nella “sua” Olimpiade nel 1980, volando poi alla conquista della medaglia d’argento.
Ai Giochi Olimpici Belov fu protagonista in ben quattro edizioni: all’Olimpiade di Mosca dell’80 fu prescelto per accendere la fiamma olimpica, riconoscendone il ruolo di atleta più rappresentativo dell’impero sovietico.
Fu lui a pagare per il “Grande Disastro sovietico”, doveva essere il personaggio centrale dell’Olimpiade nello sport più atteso dall’Urss,invece Jugoslavia e Italia in quella occasione ruppero le uova nel paniere di Gomelski, l’allenatore sovietico.
Si scatenò la caccia al colpevole che venne indicato in Sergej, che pagò responsabilità, non sue di certo, in quel fallimento, e le scontò col suo pensionamento e un triste e progressivo isolamento.
Questa splendido atleta è stato inoltre il primo giocatore di basket non statunitense a essere inserito nel Naismith Memorial Basketball Hall of Fame nel 1992 ed è stato incluso anche nella FIBA Hall of Fame del 2007.
Dotato di classe infinita, estro e potenza, è stato il simbolo della squadra di pallacanestro del CSKA di Mosca, aggiudicandosi con la sua squadra di club tutto quello che era possibile in campo nazionale e internazionale.
Quattro volte olimpionico e parte di quattro squadre del campionato europeo per l’URSS, Sergei Belov è ampiamente considerato tra i più grandi giocatori europei e internazionali di tutti i tempi.
Era considerato un mago del basket anche perché le sue abilità di gioco erano avanzate per i suoi tempi.
Il “Jerry West of Russia” ha utilizzato la sua significativa presenza in campo per rendere la squadra nazionale sovietica una forza nelle competizioni olimpiche, vincendo tre medaglie di bronzo e una d’oro. La storica medaglia d’oro, arrivata ai Giochi Olimpici del 1972, segnò una nuova era nel basket, poiché il dominio americano nel “suo” sport terminò bruscamente.
Cinque anni prima, nel 1967, Belov aveva portato i sovietici a vincere il primo dei due campionati mondiali conquistati durante la sua carriera con la nazionale.
Dall’isolamento in cui era finito uscirà solo dopo la caduta dell’impero sovietico, per tornare a essere l’uomo di punta del basket russo, in eterno conflitto con Gomelski, dopo la prolungata ma poco soddisfacente esperienza tecnica in Italia.
L’Urss aveva infatti appena vinto i Giochi di Seul, e Belov non si risparmiò una frecciatina:
“Più che vincerla Gomelski, quell’Olimpiade l’ha perduta il coach John Thompson. Ha tenuto i suoi reclusi per tre mesi, non è riuscito a fare una squadra. L’Urss? Sabonis è grandissimo, ma è l’unico a un livello super”.
Comunque Alexander Volkov, Sarunas Marciulonis e Arvidas Sabonis, i migliori talenti russi, avrebbero però presto raggiunto la favolosa lega Americana.
Belov era stato sicuramente il primo giocatore sovietico in grado di giocare al fianco dei professionisti: “Credo di sì -diceva- Credo che a quei livelli avrei potuto comportarmi discretamente. Ho sbagliato generazione…”. E avvicinadosi il tempo del basket open ammetteva: “Diciamoci la verità, siamo stati tutti professionisti, già da molti anni. Cadrà solo una grande ipocrisia”.
Sergej Belov, guardia-play di 190 cm, era nato a Nashekov il 23 gennaio del 1944 e dopo avere giocato nell’Ural Sverdlovsk, si trasferì a Mosca, nel Cska. Era impossibile non giocare nell’Armata Rossa per un campione come lui. Immaginate se il colonnello Gomelsky si sarebbe fatto sfuggire un talento così grande!
Più tardi, tra il 1999 e il 2002, aveva allenato l’Ural Great, prima di abbandonare il basket.
Tra il 1993 e il 1998 aveva guidato la nazionale russa portandola all’argento del ’94 a Toronto e del ’98 ad Atene. Patrick Baumann l’ha ricordato così:
“Uno dei più grandi giocatori di sempre e una delle stelle che hanno contribuito alla crescita del basket nel mondo intero”.
Di Sergej si ricorda la sua umanità, il suo stile, il suo spirito libero, così difficile e pericoloso da esprimere in un Paese in cui la parola libertà era sinonimo di eversione: requisiti espressi in campo come nella vita.
Come accennato, fu il primo giocatore non americano a entrare nella Hall of Fame di Springfield, istituita in onore di Naismith, nella città dove fu inventato il basket.
Era il 1992, e Sergej Belov, origini siberiane, giocatore simbolo dell’Unione Sovietica negli anni sessanta e settanta, vedeva così riconosciuta, più che una indiscussa bravura, la sua vicinanza al mondo statunitense.
D’altronde si era sempre detto di lui che era “un americano nato per sbaglio in Russia”! Nel 2007, l’ingresso nella Hall of Fame internazionale della FIBA avrebbe completato l’opera dei riconoscimenti, tenendo conto stavolta anche delle sue doti di allenatore.
La sua interpretazione del ruolo di guardia, particolarmente nel gioco d’attacco, raggiungeva livelli eccelsi: classe, inventiva, acuta visione di gioco, e soprattutto quel micidiale tiro in sospensione, sfruttando blocchi o gli “uno contro uno”, che lo facevano davvero apparire come un americano in mezzo a giocatori di tecnica inferiore.
Il suo esordio in Nazionale venne subito bagnato da una medaglia d’oro ai Mondiali di Montevideo nel ’67. Nelle tre edizioni successive, un bronzo a Lubiana ’70 (ma col valore aggiunto del titolo di Miglior giocatore), un altro oro in Portorico nel ’74 e un argento a Manila nel ’78.
Quattro, come si è detto, le sue partecipazioni olimpiche, con tre medaglie di bronzo e una medaglia d’oro, quella conquistata con la famosa, e molto discussa, finale di Monaco ’72, vinta col canestro all’ultimo secondo del suo omonimo, Aleksandr Belov, ma soprattutto con i suoi 20 punti su un totale di 51.
Quanto agli Europei, sette partecipazioni e sette medaglie (di cui quattro d’oro).
Quando decise di tornare sulla scena da allenatore, si ritrovò in quella che era diventata semplicemente la Russia, in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica.
Guidò la Nazionale ad altri successi, con lo stesso carisma che aveva mostrato da giocatore. Arrivarono due argenti ai Mondiali (Canada ’94 e Grecia’98) e un bronzo agli Europei (Spagna ’97). Nello stesso periodo fu anche presidente della federazione russa di basket. Cos’altro avrebbe potuto fare, prima di arrendersi ad una malattia incurabile, all’età di 69 anni?
Divino: così lo chiamavano. Vuoi perché la sua figura era dotata di un’eleganza tale che, unita al talento cristallino, lo differenziava da tutti i cestisti russi visti prima e durante il suo avvento.
Al suo cospetto i suoi compagni apparivano più macchinosi, più schematici, più fisici, perché lui riusciva a esaltare tutti i pregi, tutti i doni, che sono di competenza delle “guardie”
Doti come abilità tecnica sopraffina, lungimirante visione di gioco, reattività nell’impostare o a volte fuggire nelle azioni di contropiede, e padronanza nel palleggio, nei passaggi ed ovviamente nel tiro.
C’era poi quel qualcosa di oltre.
Sergej Belov sapeva tutto dei suoi compagni, ma ancor più conosceva, capiva, tutto degli avversari. Gli erano sufficienti pochi minuti per inquadrare i punti deboli dell’altra squadra e da quel momento il suo team si trasformava in un’orchestra compatta, ma al tempo stesso imprevedibile, in cui ogni strumento veniva esaltato, quasi a nascondere la presenza di Sergej, sempre presente, però, sempre pronto a fare la differenza, ad abbagliare.
Della divinità di Sergej Belov se ne accorsero tutti durante l’Olimpiade del 1972, quando Stati Uniti e URSS si contesero la medaglia d’oro nel basket. L’allenatore Vladimir Kondrashin poteva contare su giocatori tutti provenienti da precedenti successi, tanto agli Europei quanto ai Mondiali, gente come Polyvoda, Paulauskas, Sakandelidze, Žarmukhamedov, Edeško, Volnov, Kovalenko e Aleksandr Belov per citarne solo alcuni.
E poi c’era lui, Sergej Belov, il protagonista indiscusso, l’entità fuori di ogni codifica che siglò 20 punti durante la finale destinata a consacrare l’URSS con un punteggio che sarebbe divenuto sinonimo di storia, 51-50!
Da quel giorno Sergej non uscì più dalla memoria degli appassionati, nulla di quanto aveva fatto prima e avrebbe fatto dopo sarebbe mai più stato letto e soppesato in patria con oggettività, perché la mente e il cuore dell’Urss si erano purtroppo irrimediabilmente fermati in Baviera, a quella data epocale.
L’uscita di scena dalle Olimpiadi di Montreal nel 1976, ma soprattutto da quelle di Mosca nel 1980 con solo la medaglia di bronzo al collo, scatenò una caccia al colpevole. A un fenomeno, si sa, non è concesso sbagliare e Belov venne additato quale colpevole di quelle due disfatte.
Nessuno mise in dubbio gli attriti con l’allenatore Gomelskij, né le imposizioni assurde che quest’ultimo aveva inculcato ai membri di una formazione rinnovata, presuntuosa e anonima al punto da non essere più disposta a lasciarsi dirigere da una figura saggia come Sergej, forse con meno smalto rispetto un tempo ma pur sempre illuminata, un mattatore indiscutibile con i suoi 29 punti segnati nella finale per il terzo posto con la Spagna nella kermesse svoltasi in casa.
Ormai trentaseienne, Sergej Belov comprese che era giunto il momento di mettersi da parte. Decise di darsi all’allenamento, con tanto di esperienza in Italia, in serie B2.
La luce di Sergej Belov si spense il 3 ottobre del 2003, esattamente venticinque anni dopo il suo omonimo Aleksandr Belov, il marcatore dell’ultimo canestro a Monaco ’72. Se il decesso del dannato Aleksandr, avvenuto in un carcere di San Pietroburgo dove era recluso per un’accusa di contrabbando, è avvolto nel mistero, l’ultima fermata del grande Sergej si è consumata nell’anonima Perm dopo una lunga malattia.
Un ultimo atto, quello di Belov, il cui il dramma si è scritto giorno dopo giorno, in piena coscienza dell’inevitabile, senza quei colpi di scena che hanno caratterizzato la morte di tanti eroi sovietici.
Forse perché Sergej Belov non era un eroe, lui era il divino!
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.
L’entusiasmo con cui l’autore parla del personaggio Sergej Belov mi ha molto impressionato.-Poichè lo scrivente ha avuto con Sergej una vera amicizia di lunga data,nata in maniera un po’ rocambolesca e coltivata nel tempo in modo incredibile nonostante la lunga distanza che ci ha tenuti lontani per lungo tempo,sarei molto interessato di poter condividere con Lino Predel parte dei miei ricordi. Ho letto nell’articolo sopramenzionato dei particolari a me sconosciuti ,ma ritengo di poter essere a conoscenza di altrettanti del tutto inediti e di indubbio interesse.-
Se mi fosse consentito di poter contattare il Vs.collaboratore, ve ne sarei molto grato.-
Con molti ringraziamenti e cordialità.-
Mario Benvenutti