Covid 19, non chiamatela guerra

Dove sono finiti gli eroi della prima ondata della pandemia? Quelli dai camici bianchi, con le ali da angeli, quelli con i superpoteri, un po’ umani e un po’ ultraterreni?

Sembra oggi scomparsa tutta la retorica patriottica che ci ha accompagnati durante la prima fase della pandemia, un periodo che molto furbescamente da molti è stato chiamato di “guerra”, ma che della guerra non aveva allora, e tuttora non ha, proprio nulla. 
Parlare di guerra è utile perché deresponsabilizza.
Ogni guerra esige le sue vittime e i suoi eroi.
Ora che la seconda ondata pandemica del covid 19 ci ha travolti impietosamente, dalla facile retorica del tricolore al vento si è passati alla protesta, al negazionismo, alle teorie del complotto.
Dalla disperazione si è arrivati alla sfiducia, andando spesso a caccia di improbabili colpevoli o di colpevoli veri.
Intanto la politica cavalca l’onda, strumentalizza la rabbia crescente nella tragedia, e lo fa sempre inseguendo gli algoritmi, per sobillare, attrarre consensi, svendere facili soluzioni.


Una comunicazione schizofrenica, contraddittoria, conta sul popolo dalla memoria corta: mascherine si / mascherine no, lockdown si / lockdown no, zone rosse, arancioni e gialle, critiche feroci di alcuni presidenti di regione al governo centrale, dispute tra alcuni sindaci e governatori delle regioni. Ci si è abbandonati a un divisionismo sfrenato che contribuisce a rendere i cittadini ancora più insicuri.
Come sempre l’immaturità di questo Paese, tanto povero di senso civico e di responsabilità, tiene il gioco a una sete di potere che insegue la conta dei voti, con le percentuali nei sondaggi onnipresenti, che fluttuano, mosse dalla nostra perenne campagna elettorale.
La retorica degli eroi si è consumata nel tentativo di normalizzare il sacrificio umano, nobilitando l’eroe, nascondendo così una totale assenza di rispetto per il lavoro.
Basta vedere in quali condizioni sono stati ridotti gli ospedali, quali risposte sono in grado di fornire a tutti quei malati la cui vita proprio da quelle condizioni di lavoro dipende.
Chiamare questo fenomeno pandemico col nome di “guerra” ha evocato la necessità di eroi per fronteggiarla, ma si tratta di una metafora impropria, quanto mai fuorviante.
Si è già detto che ogni guerra “esige” le sue vittime e le vittime, si sa, non reclamano giustizia, colpevoli sono i conflitti che per loro natura si portano dietro scie di morti, distruzione, sofferenze.
In guerra ci sono insegne da difendere e medaglie conquistate al fronte.

Ma che Paese è il nostro? Un Paese che ha trasformato dei lavoratori in eroi, persone con competenza che hanno liberamente scelto una professione, costretti a fare il proprio dovere in condizioni estreme.
Senza mezzi, senza sicurezza, sono stati spesso obbligati a compiere, in quel contesto, scelte estreme, eticamente inique, perché chiamati a decidere, seduta stante, chi salvare e chi lasciare morire, messi davanti all’insufficienza di respiratori e di posti nelle terapie intensive. 
Che Paese è questo, nel quale le morti sul lavoro sono sempre state troppe, e si verificano sistematicamente in tutte le professioni a rischio, per mancanza di sicurezza, di adeguati controlli o perché sono stati fatti tagli per rimediare agli sperperi e alle ruberie.
Sì, perché troppo spesso si specula su tutto, si sfrutta chi lavora, e la politica, incapace di porre al centro il bene comune, condiziona scelte importanti, agevola carriere improprie, pilota promozioni immeritate.
Troppe volte non si applica un criterio di merito ma si sceglie per appartenenza di partito, oppure per nepotismo, in ogni caso per mera adesione a una casta.

L’eterno virus dell’Italia si chiama corruzione, ed è responsabile di buona parte di questa tragedia, perché quando sul bene pubblico si inseriscono interessi di una parte, è come se in un organismo si insediasse un virus parassita, a causa del quale tutti gli organi finiscono per ammalarsi e per essere compromessi.
Purtroppo il nostro Paese é ancora senza cura.
Chiediamoci perché in questa pandemia abbiamo un numero rilevante di morti, perché, per esempio, in Germania o in altri paesi non si muore come in Italia.
Forse perché dove si è investito nel futuro e amministrato senza sottrarre denaro al bene comune, è stata tutelata la salute della collettività in modo lungimirante.
Ma in un Paese come il nostro, dove crollano ponti, franano le strade e dove i terremoti spazzano via pure gli edifici nuovi, i morti gridano giustizia.
In un contesto del genere vogliono far passare per buona la retorica degli eroi, quella dei soccorsi nelle emergenze, quella dei medici in prima linea senza mascherine o adeguate protezioni, stremati da doppi turni di lavoro, quelle dei tanti volontari che sopperiscono come possono alle carenze accumulate da decenni di incuria.

In questa seconda fase di pandemia, ampliamente annunciata, eppure presa un po’ sotto gamba da un ottimistico senso dello scampato pericolo e, ancora una volta, da una scarsa capacità di leggere la storia, anche la retorica del patriottismo è ormai scaduta.
Del resto siamo abituati a sventolare le bandiere quando vince la nazionale di calcio, o quando ci consumiamo in rituali collettivi, cantando dai balconi, ma si tratta di finto patriottismo.
il Paese va difeso e onorato, facendo ciascuno il proprio dovere, nella quotidianità, e non da eroe, in condizioni estreme e disperate, ma da cittadino.

Nessuno dovrebbe essere messo davanti a scelte gravissime, tanto meno pagare il fio di una cattiva politica che nei decenni ha consumato e nulla prodotto, ha scelto pensando ai vantaggi immediati, pro domo propria, senza ragionare sul futuro.  
Non è etico interrompere la vita di chi desidera ancora vivere, ma questa scelta è stata praticata, perché i mali atavici italiani hanno posto una categoria di lavoratori davanti a un bivio terribile; professionisti chiamati a salvare il salvabile negli ospedali dove non si contenevano più i numeri dei malati. La drammaticità di questa condizione è apparsa in tutta la sua crudezza.
Oggi si cercano responsabilità, mentre la seconda ondata ci ha già travolti, si contano ancora morti e ancora qualcuno parla di una guerra, ma guerra non è.
Una pandemia è qualcosa che non ha a che fare con una invasione nemica, parlare di guerra ci deresponsabilizza, nessuno ci ha richiamati al fronte, nessuno ci ha arruolati, la salute pubblica è un valore che si tutela con il buon governo negli anni, costruendo un sistema efficace, scegliendo di investire nella sanità, come priorità, rispettando valori etici quali il diritto alle cure, la dignità del malato e il rispetto della vita. 
Parlare di eroismo necessario è come ammettere che la situazione è tale da potere essere fronteggiata solo con atti eroici, ovvero col sacrificio di pochi, mentre avrebbe richiesto la capacità politica di un Paese “normale”, dove una comunità civile pensa a preservare se stessa.

Se continueremo a parlare di guerra, ci sentiremo le vittime di una guerra,  invece siamo vittime di corruzione, di malamministrazione, di incapacità politica, e con questo dobbiamo fare i conti, una volta per tutte, e pretendere di guarire da questo virus, non solo dal covid 19.

Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale

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