Dagli anni Sessanta fino ai Settanta e oltre, la Nazionale italiana di basket quando incontrava quella jugoslava puntualmente prendeva sonorissime sberle.
Quella della Jugoslavia era dunque una vera maledizione: la loro “scuola” continuava a sfornare un talento dopo l’altro.
Primavera del ’76, Edimburgo: eliminatorie per la qualificazione alle Olimpiadi di Montreal, sono due gironi di 4 squadre ciascunon. le prime due si sarebbero incrociate in semifinale e poi la vincente della finale sarebbe andata di diritto in Canada.
Nel girone eliminatorio l’Italia vinse facilmente, sconfiggendo Israele in semifinale, così l’otto maggio ci trovammo di fronte la Jugoslavia, i maledetti “plavi”.
Il c. t. Giancarlo Primo, contro ogni previsione, schierò fin dall’inizio Luciano Vendemini, un ragazzone di due metri e tredici che fino ad allora aveva collezionato solo panchine. I tifosi italiani, quasi rassegnati in partenza, se ne stavano silenziosi e perplessi; gli slavi, sorpresi, andavano chiedendosi da dove fosse venuto fuori quel lungagnone e chi fosse. Lo capirono piuttosto bene nell’ora e mezza successiva.
Novosel mise in campo Slavnic, Kikanovic, Dalipagic, Delibasic e Cosic: in altre parole la nazionale jugaslava più rappresentativa di tutti i tempi.
Vendemini per tutta la partita annullò Cosic, il temutissimo pivot, uno dei migliori e più estrosi talenti del mondo, uno che giocava nella Università di Brigham Young negli Usa.
All’asso slavo Lucianone concederà solo cinque tiri in quaranta minuti, cancellandolo di fatto dal match e rubandogli letteralmente tutti i rimbalzi e le palle vaganti che capitavano a tiro.
Segnerà una quindicina di punti passandogli sulla testa, anche se Cosic era suo pari per altezza.
Novosel corse ai ripari, disponeva di una panchina lunghissima e di grande qualità, così cambiò Cosic prima con Jerkov, poi con Zizic e dopo ancora con Radovanovic: tutti “lunghi” che avrebbero fatto la gioia di qualsiasi squadra europea.
La musica però non cambiò, Luciano ne ebbe per tutti:
insieme a Meneghin e Iellini sarà l’artefice di una clamorosa vittoria.
Novosel a fine match si precipitò dal nostro c. t. Primo chiedendogli:
“Dove accidenti l’hai trovato questo qua?’’
Primo sorrise sornione mentre i supporters italiani scatenavano un casino in tribuna, troppo forte era la gioia per aver finalmente messo sotto gli odiati slavi.
Il telecronista Aldo Giordani, il più grande commentatore di basket della televisione, sulla prima pagina della Gazzetta, il giorno dopo lo definì “il nuovo Duca di Edimburgo”.
Qualche mese dopo la Nazionale Italiana replicherà la grande prestazione alle Olimpiadi e solo un canestro al fil di sirena farà prevalere la Jugoslavia di un punto: 88-87. Con i nostri esterni calati di rendimento perché nel secondo tempo avevano le polveri bagnate, il migliore in campo è ancora lui, Luciano Vendemini: tanti punti e tanti rimbalzi. Al povero Cosic alla fine sarà concesso di segnare solo la miseria di quattro tiri liberi.
Nell’estate successiva arrivò il trasferimento di Vendemini da Rieti a Torino per la bellezza di duecentodieci milioni di lire, una cifra inimmaginabile per il basket di quei tempi.
Ma chi era dunque Luciano Vendemini?
Era nato in un piccolo borgo del riminese, Sant’Ermete, nell’agosto del 1952 da una famiglia contadina: suo padre era di quasi due metri d’altezza, la madre e i fratelli erano invece di statura normale.
Luciano di carattere era timidissimo: ogni volta che si presentava qualcuno al podere lui correva a nascondersi nel fienile perché si vergognava del suo aspetto, di essere così alto e smilzo: a 12 anni aveva già raggiunto il metro e novantacinque di altezza.
Terminate le scuole dell’obbligo ebbe una specie di crisi: non voleva più andare a scuola perché i ragazzi lo prendevano ferocemente in giro. Lui, di conseguenza, preferiva lavorare in campagna, lontano da commenti malevoli.
Quando aveva appena compiuto i quindici anni, alcuni dirigenti del Rimini Basket lo convinsero a dedicarsi alla pallacanestro: aveva già sorpassato i duecentocinque centimetri di altezza. La madre tirò un sospiro di sollievo per il futuro di quel figlio smisurato, pensando che abbracciando la carriera sportiva, Luciano si sarebbe messo in grado di aiutare la famiglia, visto che lei era rimasta vedova.
Non bisogna commettere l’errore di pensare che a quei tempi i guadagni di un cestista toccassero lontanamente il livello di quelli di oggi, ma era sicuro che uno sportivo affermato poteva condurre una vita più che dignitosa, anche se i soldoni veri giravano molto di più nel mondo del calcio.
Vendemini in quell’anno in cui militava nelle giovanili di Rimini, venne “sgrezzato” dal Prof. Rinaldi che gli fece davvero amare e capire il basket. Luciano si impegnò a fondo anche perché sperava che praticare uno sport agonistico fosse l’occasione migliore per vivere una vita “normale”. Nell’ambiente impressionò tutti per la sua volontà e per l’abnegazione nell’imparare.
Nell’estate successiva il General Manager del Cantù, Allievi, lo notò in un torneo estivo e lo portò a giocare in quella società, che aveva appena vinto il Campionato di basket di serie A.
La madre diede il consenso e Vendemini si ritrovò catapultato nel “college canturino” dove la società raccoglieva i più promettenti giovani d’Italia e dove, oltre a farli giocare, li obbliga a studiare, e non si trattava davvero di un obbligo formale, tutt’altro. Luciano quindi si iscrisse nuovamente a scuola; suoi compagni erano Marzorati e Della Fiori, due dei futuri big del basket italiano ed europeo.
Vendemini nel frattempo era diventato un gigante di due metri e tredici. I dirigenti di Cantù lo fecero sottoporre ad una delicata operazione agli occhi per correggere la sua fortissima miopia e Luciano, forte dei risultati dell’intervento e con il successivo uso delle lenti a contatto, acquistò maggior fiducia e sicurezza di sé.
Questo si dimostrò in pieno quando dopo appena un anno di giovanili, sotto le mani di Taurisano, uno dei migliori allenatori della storia italiana, la società canturina lo spedì a fare esperienza in serie B ad Asti: aveva solo 18 anni e si guadagnò subito la convocazione per la nazionale Under 23 nella quale risultava il più giovane d’età tra i giocatori.
Con la Under 23 giocò bene parecchi tornei tanto che Cantù lo richiamò per entrare finalmente in serie A. A soli diciannove anni divenne la prima riserva dei “lunghi”: solo il mitico Dino Meneghin era stato così precoce.
Dopo un anno arrivò per lui l’offerta della Brina Rieti che lo prelevò da Cantù per una cifra enorme:
100 milioni!
Rieti era stata appena promossa nella massima serie e doveva praticamente costruirsi tutta la squadra: a Vendemini vengono affiancati l’americano Laurinsky e il tuttofare Vittori, il resto del team era composto da dignitosi comprimari.
La squadra, dopo le difficoltà iniziali, si salvò dalla retrocessione e in appena tre anni si portò a ridosso dei primi posti. “Lucianone”, come ormai lo chiamavano, migliorava anno dopo anno: il brutto anatroccolo era diventato cigno.
Nel ’76 si svolse l’epopea cestistica di Edimburgo e di Montreal, che abbiamo già raccontato, in cui l’Italia nonostante tutto arrivò quinta, col rammarico forte di quel secondo tempo giocato in affanno con gli jugoslavi.
Subito dopo queste vicende, la Chinamartini Torino, appena retrocessa in A2, acquistò il cartellino di Vendemini dal Rieti per duecentodieci milioni, battendo un altro record!
Con Lucianone, con l’oriundo Frank Valenti e con lo yankee Grochowalsky intendeva mettere su uno squadrone che puntasse in pochi anni al titolo italiano, e questo era reso possibile dal fatto che allora le prime due classificate in A2 andavano direttamente a giocarsi i playoff per lo scudetto.
L’esordio a Torino fu senz’altro positivo, tutto sembrava procedere per il meglio, in linea con l’obiettivo stabilito.
Tutto bene dunque, fino al pomeriggio del 20 febbraio 1977.
Questa la cronaca di quel giorno tristissimo.
Ore 16,45: il pullman del Basket Torino raggiunge il parcheggio del palasport di Forlì. I giocatori entrano e si guardano intorno, i tifosi arrivano alla spicciolata. Vendemini legge il giornale e ogni tanto firma un autografo a qualche ragazzino, poi si siede, risponde alle domande di un giornalista e riprende a leggere.
Qualcuno dei compagni si accorge all’improvviso che Lucianone è sbiancato e siede in modo strano sulla sedia. Quel compagno si avvicina e guardando il volto spento di Vendemini si allarma: gli tasta il polso e non lo sente. Chiama immediatamente i soccorsi.
Arrivano gli infermieri, che intuiscono la gravità della situazione e chiamano una autoambulanza, che si rivelerà troppo piccola per le dimensioni di Lucianone.
Si perde tempo: Vendemini viene portato all’ospedale con un mezzo dei vigili del fuoco, ma poco dopo il suo arrivo muore.
Aveva appena 24 anni e si era sposato da qualche mese.
Il Tg delle 20,00 diede subito la notizia, passandola in testa a tutte le altre: “Il pivot della nazionale italiana di pallacanestro Luciano Vendemini è morto questo pomeriggio in seguito a un malore’’.
L’autopsia parlò di “aneurisma dissecante dell’aorta” e tutti si chiesero subito come fosse stato possibile che un atleta così famoso, sottoposto a frequenti controlli clinici, soffrisse di un disturbo sfuggito all’occhio dei luminari. Qualcuno parlerà anche di “sindrome di Marfan”, qualcun altro di “cardiopatia congenita”.
Pochi giorni dopo ai funerali c’era il gotha dello sport italiano e del basket, ma alcune “voci” che circolavano avevano l’aria di non voler rispettare la memoria di chi se ne era appena andato.
Luciano venne sepolto nel piccolo cimitero del borgo natio.
Inutile dire che subito dopo, purtroppo, iniziò lo scaricabarile tra i medici delle società e quelli della Nazionale, con le conseguenti, penose accuse reciproche di omissione. Parallelamente prese il via, inevitabile, lo sciacallaggio dei media che cercavano lo scoop ad ogni costo.
Ci sarà perfino qualcuno che arriverà a definire Luciano “un kamikaze dello sport” perché, cosciente delle sue condizioni, avrebbe preferito morire piuttosto che smettere di giocare.
Si troverà anche chi, facendo un pieno di cinismo, dirà che le società si erano scambiate della “merce avariata”, rifilandosi un conseguente danno economico, perché Vendemini era un “campione fisicamente difettoso”. Arriveranno infine perfino accuse di truffa.
I processi riguardanti la vicenda del campione scomparso dureranno anni e non porteranno a nulla se non a qualche piccola e insignificante condanna con alcuni allontanamenti dal mondo della pallacanestro. La solita vergogna, insomma, giocata sulla sua memoria.
Oggi, trascorsi più di quaranta anni da quel fatto tragico, non si deve parlare ancora di queste miserie e di chi sguazzò in quel mare fangoso, ma ricordare il ragazzone che alle Olimpiadi
portò l’Italia ad un solo canestro di distanza dal Paradiso.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.