Joy Division di Ian Curtis: la poetica del malessere – Parte 2 –

Frattanto la Factory stava affrontando i primi passi come etichetta grazie a una piccola fortuna ereditata da Tony Wilson. Brierley, proprietario degli studi, rimase sorpreso quando l’11 ottobre sulla sedia di regia trovò Martin Hannett.

Generalmente al mondo esistono due tipi di produttori: quelli che interpretano i desideri dell’artista e quelli che si considerano artisti alla stregua dei musicisti che producono. Gente che porta i musicisti alla pazzia per via della maniacale ricerca di quel suono che hanno in testa. Hannett apparteneva a questa seconda categoria.

Durò appena una giornata la prima collaborazione tra il produttore e la band: il risultato fu che il sound dei due brani era diverso da qualsiasi cosa i Division avessero mai registrato. Hannett disidratava le trame sonore, le rendeva geometriche creando voragini fra gli strumenti, ampliando a dismisura la tensione emotiva.

Martin Hannett

L’EP pubblicato nel gennaio 1979, godette di una buona esposizione mediatica grazie ai passaggi radiofonici di John Peel e al solito Paul Morley, che sull’NME dedicò ai Joy Division una celebre intervista in cui il gruppo passò gran parte in silenzio, ma ebbero la prima copertina nazionale!

Alla fine del 1978, Ian iniziò a manifestare i primi sintomi dell’aggravarsi della sua epilessia. Un primo attacco lo ebbe il 27 dicembre, di ritorno dalla prima data londinese del gruppo.
Sulla strada del ritorno il nervosismo di Ian sfociò in una serie di violente convulsioni che costrinsero ad accompagnarlo al Luton & Dunstable Hospital.
Riuscì a tornare a casa solo il giorno successivo. Quelli che seguirono furono giorni di angoscia. Come assistente sociale, Ian aveva avuto modo di studiare le condizioni di vita dei malati di epilessia, pertanto sapeva quale inferno lo avrebbe atteso.
Questa consapevolezza lo gettò in un terribile stato di prostrazione.

A gennaio il gruppo venne invitato in BBC da John Peel, per registrare la sua prima session. Il set di quattro pezzi si apriva con Exercise One, un brano dominato dai lugubri droni chitarristici. Non meno pessimistiche erano le nuove composizioni: Insight spingeva ancora di più sul versante apocalittico, trasportando la melodia in un paesaggio fantascientifico.
She’s Lost Control sfoderava pattern ritmici dotati di quella durezza artificiale propria della musica industriale.

La primavera di quell’anno rappresentò un momento febbrile per tutti: Deborah era nella fase finale della gravidanza; Ian stava prendendo coscienza del fatto che avrebbe dovuto convivere con la malattia per il resto della sua vita; mentre il gruppo stava ricevendo finalmente le meritate attenzioni.

In quella situazione concitata il produttore Martin Rushent offrì alla band un contratto che prevedeva un anticipo di 40.000 sterline per due album da realizzarsi con la Radar Records. In un solo giorno furono incisi cinque brani ma fu un fiasco.

Nell’aprile del 1979 i Joy Division si recarono agli Strawberry Studios di Stockport per registrare il set di quindici canzoni concepito per il loro primo LP.
Quelle sessions sono avvolte da un alone di leggenda per le tecniche usate da Hannett.
Le registrazioni durarono appena cinque giorni, dopodiché gruppo e produttore iniziarono una battaglia sul missaggio dei pezzi che durò settimane. Il più convinto dalla perfezione glaciale di “Unknown Pleasures” era proprio Ian Curtis, affascinato dal mood oscuro che gravava sull’album. Le sue liriche avevano abbandonato la narrazione tradizionale, per una specie di canto espressionista: una presa di coscienza pessimistica sulla natura umana.

In Disorder, il timbro di Ian era quanto di più lontano dall’emotività che dominava i primi pezzi della band. Nei momenti di quiete la sua voce sembrava emergere da un luogo insondabile dello spirito, aveva lo spessore e l’insensibilità dello scorrere stesso del tempo.

New Dawn Fades chiudeva il primo lato di un’ideale trilogia della disperazione in cui Curtis si lasciava andare a quella che, col senno di poi, sarebbe suonata come una desolante richiesta d’aiuto, Shadowplay e Interzone sarebbero state il grimaldello con cui l’album avrebbe fatto breccia presso il pubblico, mentre I Remember Nothing accompagnava l’ascoltatore verso un finale carico di ansia e tristezza.

Finalmente, il 15 giugno 1979, Unknown Pleasures, l’album, vide la luce.

A disegnarne la copertina era stato chiamato il solito Peter Saville, che per l’occasione realizzò una delle cover più famose di sempre: la riproduzione grafica di cento impulsi consecutivi emessi dalla prima stella pulsar mai scoperta.
Il successo dell’album partì lentamente e questo benché la band fosse ormai materiale da copertina, contesa aspramente da riviste come NME e Sounds.

Ad alzare il profilo artistico della band contribuirono in modo significativo altri due brani che furono registrati insieme ad Hannett fra ottobre e novembre.
Il primo dei due pezzi, Atmosphere, era un inno funereo irrorato dalla luce accecante dei synth. Le sue parole venivano scandite con una serenità rassegnata. L’altro brano, Dead Souls, era uno dei pezzi più violenti registrati dai Joy.
Una marcia, in cui si potevano scorgere le ultime vestigia di quel poco di punk che ancora incrostavano il sound della band. Il singolo venne pubblicato dall’etichetta francese Sordide Sentimental in una lussuosa copertina gotica. Pubblicato all’inizio del 1980 in sole 1578 copie, rappresenta oggi un vero Sacro Graal per i collezionisti.

Il tour del ’79 con i Buzzcocks rappresentò per Ian Curtis l’inizio del definitivo allontanamento dalla moglie. Secondo Deborah, quando la carriera del gruppo iniziò a decollare, iniziarono ad affollarsi ammiratori e groupies. Fu in quel frangente che Ian Curtis conobbe la fotografa belga Annik Honoré, con la quale iniziò una storia che presto scoprì essere incapace di gestire. Quella che mantenne nei mesi successivi fu una sorta di doppia vita: quella familiare e quella con la groupie.

Ian Curtis e Annik Honoré

Dopo un nuovo invito in BBC da parte di John Peel, la band tornò agli Strawberry Studios a marzo, per le ultime tre sessioni con Hannett.
Due di quegli appuntamenti furono dedicati alla registrazione di Love Will Tear Us Apart, un brano che i Division avevano già anticipato nel corso dell’ultima Peel Session.

Tony Wilson, che non era del tutto convinto del modo lento e funereo dei nuovi brani, suggerì a Ian di ascoltare gli album di Sinatra. Curtis restò affascinato da quel modo di cantare distaccato, al punto da adottarlo per cantare la fine della sua relazione con Deborah. I
n un’elegia dell’inaridimento sentimentale, descritta con le parole più universali che siano mai uscite dalla sua penna: la sensazione era che Love Will Tear Us Apart arrivasse direttamente da un luogo recondito dell’anima, in cui la fine dell’amore appariva come l’unica ineluttabile realtà.

A marzo la band si trasferì a Londra per dare inizio alle registrazioni di “Closer”.
Peter Hook ricorda come Ian si trovasse nel momento più difficile della sua lotta contro l’epilessia.
Le fasi di blackout si susseguivano sempre più frequenti.
In un’occasione Ian sparì e venne ritrovato disteso nel bagno dello studio, privo di sensi.
Facile, col senno di poi, scorgere per tutto l’album i messaggi lanciati da un uomo che stava per togliersi la vita.
E’ ancora Hook a ricordare come Annik contribuiva spesso ad allontanarlo dal resto dei compagni. Tutto oggi suona come la descrizione di una situazione da cui non c’era via di scampo se non tramite l’estremo sacrificio.

“La verità – dissero i compagni – è che ognuno pensava alla sua parte e nessuno ascoltava davvero i testi”.

Joy Division

Tecnicamente la band era al massimo del suo splendore ma i frammenti più sperimentali stavano alla fine dell’album.
The Eternal era un lamento funebre, in cui Curtis cantava di una “furia che brucia dall’interno”, su un tetro panorama sonoro dominato da un piano sepolcrale e dal suono di un rullante trasformato in una spettrale pulsazione industriale.
Decades chiudeva la scaletta in modo sorprendente, prima con le note isteriche di synth, sul cui incedere claudicante Curtis cantava con tono magnetico e una serenità disturbante; mentre sul finale si apriva in un lento sfumare in cui la voce del giovane sembrava quella di un fantasma che prendeva congedo dal mondo.

Il 29 marzo a registrazioni finite, mogli e fidanzate vennero invitate a Londra a ricongiungersi con i loro cari. L’unica assenza fu quella di Deborah. 
Il 4 aprile la band tenne ben due concerti.
Due giorni dopo, appena tornato nella sua casa a Macclesfield per la Pasqua, Ian Curtis andò in overdose da barbiturici. Fu forse una richiesta d’aiuto mascherata da maldestro tentativo di suicidio.

A quel punto la cosa più semplice fu chiamarsi fuori: è quello che accadde il 17 maggio, un giorno prima che la band prendesse il volo per gli Stati Uniti. Ian venne ritrovato dalla moglie il mattino successivo, dopo che si era impiccato nella cucina della loro casa: con ogni probabilità non fu che il gesto di un giovane stremato.

Il giorno successivo toccò a un commosso John Peel di annunciare al mondo la notizia, subito prima di far partire New Dawn Fades.

Tuttavia c’è un lascito ancora più importante e difficile da quantificare: ed è l’eredità di Ian Curtis che ha portato la battaglia quotidiana e l’irrequietezza del rock su un piano psicologico ed esistenziale; ha plasmato un immaginario poetico in cui, chiunque percepisse la vita come un soverchiante rituale di gesti incomprensibili.
Infine, a tutto questo, ha dato profondità e veridicità con il suo terribile gesto finale,

trasformando il suo compatto corpo di versi in materia poeticamente pura.

Leggi la prima parte

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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