Jim Thorpe il più Grande Atleta

Jim Thorpe

“Sentiero Lucente” – Jim Thorpe, per quelli fuori dalla riserva – resterà a Jim Thorpe City, cittadina della Pennsylvania che negli anni ‘50 acquistò i suoi resti per ospitarli in un museo per turisti e prendere il nome del leggendario campione pellerossa di football, baseball, pentathlon e decathlon.

Può darsi che il nome di Jim Thorpe non dica oggi niente. Si dice che i grandi campioni dello sport scolpiscano il loro nome indelebilmente nella storia, ma non è esattamente così. Tutti possono essere dimenticati, col tempo.
Ed è successo anche a quello che molti hanno definito il più grande atleta di tutti i tempi.

Negli anni Cinquanta Hollywood produsse un film su Jim Thorpe, con una star dell’epoca come Burt Lancaster a interpretarlo. Il film si intitolava ‘Pelle di Rame’, e già si capisce il riferimento a quelle origini che per Thorpe, a causa dell’epoca in cui viveva, diventeranno una maledizione. Thorpe infatti era più americano degli americani, ma allo stesso tempo non era come gli altri statunitensi. Thorpe era un pellerossa. E nei primi anni del Novecento la storia della grande frontiera del far west americano era finita.

Jim nacque il 28 maggio 1887 in una riserva indiana vicino alla città di Bellemont in quello che oggi è riconosciuto come lo stato di Oklahoma, da genitori pellerossa con sangue francese e irlandese nelle vene.
La madre, dandolo alla luce, vide un raggio di luna entrare nella capanna dove viveva, e decise:

“Si chiamerà Sentiero Lucente”.

Jim fotografato con il fratello gemello Charlie

In realtà venne registrato come Jacobus Franciscus Thorpe, ma il suo nome indiano fu anche un destino, almeno a metà.
I suoi lo allevavano come un nativo americano. Ma le scuole americane non erano d’accordo: a quei tempi per i pellerossa c’erano le indian school, che più che insegnare a leggere e a scrivere ai bambini, tentavano di far cambiare il loro modo di vivere, cancellando il loro retaggio culturale e le loro origini.

A dieci anni, il piccolo Jim aveva già perso la madre e il fratello per malattia. A diciassette, morì anche il padre.
Jim si rifugiò nello sport, perché quello che il destino gli aveva tolto negli altri campi della vita, lo ripagava con un fisico da atleta perfetto. Lo sport, in tutte le sue espressioni, divenne il suo unico sfogo per uscire dalla disperazione.  

Il coach della scuola di Carlisle, in Pennsylvania, lo notò, e lo forgiò per trasformare quel potenziale in un campione fatto e finito.
Il piccolo “Sentiero Lucente” era un ribelle, ma grazie al suo insegnante e allenatore Glenn Warner entrò nella squadra di atletica della Carlisle High School, e cominciò a giocare a football e a baseball, riversando la sua energia nell’agonismo. E vinse, tutto. Anche nell’atletica e nelle discipline più dure.

Thorpe era una specie di superuomo, e diventò un campione a livello scolastico, sia nel football americano, che nel baseball e nell’atletica leggera!

Uno sportivo così sembrava fatto su misura per le nuove, massacranti specialità che il comitato olimpico aveva inserito proprio in quegli anni nel programma dei giochi: pentathlon e decathlon.
Jim era divenuto un ragazzone alto 1,80 per 86 chili, conteso dalle squadre di football e baseball anche se poteva giocare solo d’estate. Durante l’anno infatti si impegnava con la squadra di atletica, tanto da qualificarsi alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 in quattro specialità: pentathlon, decathlon, salto in lungo e in alto.

“Perché l’atletica leggera? perché è qualcosa che posso fare da solo, uno contro uno, io contro tutti gli altri”.

Jim Thorpe, in quell’Olimpiade, vinse l’oro sia nel pentathlon, sia nel più moderno decathlon, che affrontò in quella occasione per l’unica volta in carriera, ottenendo un successo che lo pose nella leggenda dell’atletica:
in almeno 4 gare (su 10) fece registrare risultati che lo avrebbero portato a vincere medaglie anche in quelle specialità (individuali) se avesse partecipato alle finali.
Si classificò anche quarto nel salto in alto e settimo nel salto in lungo.

Nel frattempo, nel 1911, fu in grado di segnare touchdown a ripetizione (uno dei quali dopo una corsa di 97 yards) per la squadra del Carlisle di football americano di cui faceva parte e contemporaneamente di vincere il torneo intercollegiale di ballo.
Re Gustavo V di Svezia volle incontrarlo per fargli i complimenti di persona, ma quando i suoi inviati lo andarono a prendere sulla nave Usa trovarono solo il coach che li congedò con una scusa.
Infatti Jim era ubriaco fradicio, stava dando calci alle porte delle cabine urlando “Sono un cavallo!”: festa estrema, ma anche avvisaglie di alcolismo, che lo distruggerà anni più tardi.
Re Gustavo lo incontrò il giorno dopo, e gli disse:
“Sir, lei è il più grande atleta del mondo”.
Jim risponde: “Grazie, Re”.

Dopo queste vittorie lo zar di Russia, presente a Stoccolma, volle omaggiare Thorpe di un calice intarsiato di gioielli dal valore elevatissimo.

L’accoglienza, al ritorno in patria, fu quella di un eroe nazionale. A grande richiesta Thorpe sfilò per le vie di Broadway a New York e, durante quella festa, l’atleta indiano disse sorpreso

“Ho sentito gente urlare il mio nome e non potevo credere che una persona potesse avere così tanti amici”.

In un’era in cui non esisteva la televisione, né tantomeno internet, il suo nome era sulla bocca di milioni di persone, da una parte all’altra dell’oceano. Il nome di quell’uomo che aveva vinto tutto sotto la bandiera degli Stati Uniti, senza avere i diritti di un qualsiasi cittadino americano bianco. Un destino che non sarebbe cambiato, nonostante i risultati sportivi.

Jim Thorpe con la maglia dei Canton Bulldogs, 1915-20

All’inizio del 1913 però, mentre Jim conduceva la squadra di Carlysle alla vittoria nel campionato nazionale di college football, un giornalista statunitense vide una sua fotografia in tenuta da football. In cerca di uno scandalo scoprì che nel 1909 Thorpe aveva giocato sia a baseball che a football per qualche decina di dollari al mese.
Quei pochi soldi lo rendevano un professionista agli occhi del comitato olimpico, in un momento storico in cui i regolamenti imponevano che gli sportivi fossero dilettanti.
La federazione Usa di atletica leggera lo squalificò a vita.
Fu costretto a restituire le medaglie e il suo nome venne cancellato dall’elenco dei vincitori olimpici.

Non servirono le scuse ufficiali, né l’ammissione di colpa (“Ero uno scolaro indiano che non sapeva niente di queste cose”). “Sentiero lucente”, amareggiato dallo scandalo che lo aveva rovinato, Thorpe decise di entrare definitivamente nel mondo dello sport professionistico, rinunciando per sempre all’atletica, carriera con cui manterrà sé e la famiglia fino al 1929.

Durante la depressione dovette barcamenarsi con lavori anche umili e fu visto impugnare pala e piccone in un cantiere di Los Angeles.

Contribuì da protagonista alla fondazione di quella che ancora oggi negli USA è la National Football League.
E poi ancora incontrò Hollywood, interpretando almeno 70 film. Ma non divenne una star, perché poteva avere solo la parte di un pellerossa.

I fantasmi di Jim Thorpe presero presto la forma della depressione, della miseria, dei pochi soldi spesi in tanto alcol.

Nel 1952 scoprì di avere un tumore. I medici non riuscirono a fare niente: il suo cuore, minato dall’alcol, cedette a un infarto il 29 marzo 1953.
Jim si spense nella roulotte dove viveva, mentre stava cenando con la sua terza moglie, a Lomita alla periferia di Los Angeles. La famiglia avrebbe voluto seppellirlo in Oklahoma ed erigergli un monumento, ma il Governatore si rifiutò.
La vedova allora, essendo venuta a conoscenza che una piccola cittadina della Pennsylvania, Mauch Chunk, stava cercando un modo per attirare il turismo nel proprio territorio, si accordò con l’Amministrazione che comprò la salma di Jim per seppellirla nel proprio cimitero.
Eresse inoltre un monumento in suo onore e cambiò il nome della stessa città in Jim Thorpe City.

Solo nel 1982 il Comitato internazionale olimpico revocò la squalifica “per professionismo” a Jim Thorpe, il pellerossa della tribù Algonquin che trionfò alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912, e che oggi è ricordato come uno dei più grandi atleti del Novecento.

La “faccia pulita” dello sport avrebbe voluto che a quel tempo tutti si fossero molto dispiaciuti per Sentiero lucente ma la verità era ben diversa: in primo luogo, nessuno mosse un dito per difendere il pellerossa Thorpe, nonostante che gli episodi di “professionismo” (mascherato) fossero già allora tollerati.
In secondo luogo, il clima olimpico era ben diverso da quell’ideale di “fratellanza” attribuito a De Coubertin: soprattutto non piacquero agli organizzatori delle Olimpiadi le vittorie di neri, indiani e di un hawaiano contro i bianchi; al punto che gli Usa ritirarono dalla finale dei 100 metri di Stoccolma il più veloce, un afro-americano, per far vincere il connazionale bianco.

Bob Wheeler, fondatore della Jim Thorpe Foundation e autore della biografia di Jim Thorpe sembra essere stato il primo a scoprire la storia dietro a questa fotografia scattata alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912: le scarpe di Thorpe scomparvero pochi minuti prima dell’inizio della parte di gara dei 1500 metri del decathlon. Un compagno di squadra avrebbe prestato una scarpa a Thorpe, trovandone un’altra nella spazzatura. Poiché una scarpa era troppo grande, dovette indossare calzini extralarge per stringerla al piede.
Jim gareggiò contro i più grandi decathletes del mondo e vinse la gara dei 1500 metri.

Alcuni studiosi hanno dato per certo che il complotto contro Thorpe fu costruito a tavolino. A lui dedicò alcune pagine Rudi Ghedini nel suo ‘Il compagno Tommie Smith e altre storie di sport e politica’ ricordando che forse la miglior riparazione di quell’ingiustizia fu in una piccola nota di cronaca datata 1969 che Ghedini ricordava così:

“Grace Thorpe, figlia di Jim, fa parte del primo gruppo di pellerossa che nel novembre del ’69 occupa l’isola di Alcatraz, al largo di San Francisco. Chiedono il rispetto dei Trattati firmati dal governo con le tribù indigene […] Sull’isola si radunano più di 600 nativi americani, in rappresentanza di oltre 50 tribù. Il Red Power Movement reclama i propri diritti sull’isola […] Intendono trasformare Alcatraz in un centro studi sui popoli indigeni, offrono lo stesso prezzo pagato ai nativi per l’isola di Manhattan, 300 anni prima: 24 dollari in perline di vetro”.

Alla fine le truppe federali cacciarono i “pellerossa” ma la lotta non finì li.
Anche oggi i nativi continuano a esigere i loro diritti violati e le terre che furono rubate.
Come le medaglie tolte con l’inganno a Sentiero Lucente.
La sua rimane una storia triste e ingiusta: anche il talento più meraviglioso non è una garanzia per un lieto fine!

La sua vera colpa? Essere un pellerossa.

Jim Thorpe con la nuotatrice statunitense Josephine McKim, 1932

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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